Appalti pubblici spetta al giudice ordinario pronunciarsi sul risarcimento danno da mancata stipula del contratto.

Appalti pubblici: spetta al giudice ordinario pronunciarsi sul risarcimento danno da mancata stipula del contratto.

Appalti pubblici spetta al giudice ordinario pronunciarsi sul risarcimento danno da mancata stipula del contratto.In materia di appalti pubblici, a chi spetta pronunciarsi sulla sussistenza o meno del diritto al risarcimento del danno in conseguenza della mancata stipula del contratto?

Con una recente pronuncia, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute a definire la controversa questione della competenza giurisdizionale sul punto.

Fatto e giudizio amministrativo.

In seguito alla disposta aggiudicazione dell’appalto per l’affidamento del servizio di collegamento mediante navetta tra l’aeroporto e i parcheggi aeroportuali, l’amministrazione procedente si vedeva costretta a disporre la revoca dell’aggiudicazione medesima in quanto il soggetto aggiudicatario non trasmetteva la richiesta documentazione per la stipula del contratto.

Nel giudizio che seguiva, l’amministrazione adiva il giudice amministrativo affinché condannasse il destinatario del provvedimento di revoca al risarcimento del danno conseguente alla mancata stipulazione del contratto. Quest’ultimo, di contro, eccepiva il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, ritenendo competente l’autorità giudiziaria ordinaria.

Il Collegio di prime cure respingeva la predetta eccezione, ritenendo condivisibile l’assunto, reso dalla Suprema Corte, secondo cui “qualora alla deliberazione di aggiudicazione dell’appalto non segua la stipula del contratto tra le parti ma intervenga la decadenza della stessa aggiudicazione, la controversia introdotta dall’aggiudicatario decaduto appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo” (cfr. Cass. civ., SS.UU, 23.7.2013, n. 17858).

A medesime conclusioni giungevano anche i giudici di Palazzo Spada che, nel rigettare l’appello, si limitavano a sostenere che “così come il giudice amministrativo conosce dei provvedimenti amministrativi successivi all’aggiudicazione, costituenti un proseguimento della fase pubblicistica della procedura (adottati in funzione di revisione o di riesame in autotutela ovvero di verifica dell’aggiudicazione e dell’affidabilità dell’aggiudicatario funzionale alla stipulazione del contratto), la sua giurisdizione esclusiva include le controversie risarcitorie (attinenti indifferentemente alla lesione di diritti soggettivi o di interessi legittimi), la cui instaurazione trova fondamento e ragion d’essere nell’adozione o nella caducazione di detti atti”.

La pronuncia delle Sezioni Unite.

La questione giunge dunque all’esame delle Sezioni Unite della Suprema Corte. Nell’investire i giudici di Piazza Cavour della controversia, il ricorrente lamenta, in estrema sintesi, la violazione, da parte del Consiglio di Stato, dei limiti esterni della giurisdizione amministrativa. Più nello specifico, ad essere contestato è, per quanto in questa sede di interesse, l’assunto secondo cui la giurisdizione del giudice amministrativo si estenda anche a tutti quei comportamenti, lesivi del legittimo affidamento, verificatisi nella fase intercorrente tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto.

In altri termini, secondo il ricorrente il Consiglio di Stato avrebbe errato nel sovrapporre i provvedimenti amministrativi adottati nell’ambito di esercizio dei poteri di autotutela con quelli privatistici derivanti dal comportamento delle parti nelle fasi precontrattuali, tanto da attrarre anche questi ultimi alla giurisdizione esclusiva amministrativa.

Il ricorrente evidenzia, a tal fine, che la pretesa risarcitoria della stazione appaltante si fonda essenzialmente sulla violazione di obblighi di buona fede e correttezza da parte dell’aggiudicataria definitiva per non aver fornito tutta la documentazione richiesta e quindi ciò che viene censurato è il comportamento precontrattuale illecito che ha impedito la stipula del contratto.

Sul punto, la Corte ricorda che nella fase intercorrente tra aggiudicazione e stipula del contratto possono ben verificarsi situazioni per le quali l’esercizio dei poteri discrezionali pubblicistici non viene più in rilievo. Ne deriva, pertanto, che “ove si discuta di dell’affidamento di un pubblico servizio, la giurisdizione esclusiva indicata dall’art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, cod. proc. amm. concerne le controversie relative al procedimento di scelta del contraente fino al momento in cui acquista efficacia l’aggiudicazione definitiva, mentre le controversie vertenti sull’attività successiva, anche se precedente alla stipula del contratto, debbono di necessità seguire l’ordinario criterio di riparto” (cfr. Cass. Civ., SS.UU., 6.4.2022, n. 11257).

Venendo ora alla fattispecie concreta, oggetto del presente giudizio, la domanda risarcitoria avanzata dall’amministrazione è inerente a comportamenti tenuti dalla contraente privata, riconducibili entro l’ambito della responsabilità precontrattuale e della mancata stipula del contratto di appalto.

Sicché, in conclusione, la Suprema Corte afferma che la domanda risarcitoria “si proietta e parametra (…) in un ambito pienamente contrattuale ovvero pre-contrattuale, in fase successiva all’aggiudicazione definitiva, in cui i soggetti (…) si trovano su un piano di perfetta parità, con conseguente affermazione della giurisdizione del giudice ordinario”.

(Cass. Civ., SS.UU., ord. 4.1.2023, n. 111)


Subappalto necessario è sufficiente una dichiarazione generica per potervi ricorrere

Subappalto necessario: è sufficiente una dichiarazione generica per potervi ricorrere?

Subappalto necessario è sufficiente una dichiarazione generica per potervi ricorrerePuò il giudice amministrativo ricavare la sussistenza del c.d. subappalto qualificante da una semplice dichiarazione di voler ricorrere al subappalto? A rispondere, negativamente, al quesito interviene, con una recentissima pronuncia, il Consiglio di Stato.

Ma andiamo con ordine.

Fatto e giudizio di primo grado

Un RTI ha partecipato ad una procedura di gara aperta indetta per la conclusione di un accordo quadro quadriennale avente ad oggetto l’esecuzione dei “lavori di manutenzione straordinaria della pavimentazione”, da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Tra i requisiti di qualificazione, il Bando richiedeva che i concorrenti fossero in possesso di un’attestazione SOA nella categoria prevalente OG3 in classifica VIII, per un importo di € 23.625.000,00. Oggetto di appalto erano altresì lavorazioni nella categoria scorporabile a qualificazione obbligatoria OS10, per un valore di € 1.375.000,00.

All’esito delle operazioni di gara è stata disposta l’aggiudicazione in favore di un RTI, successivamente impugnata da un secondo RTI il quale censurava la mancata esclusione del RTI aggiudicatario per difetto di qualificazione SOA in capo a una delle mandanti.

Il TAR adito ha accolto parzialmente il ricorso, accertando il difetto di qualificazione SOA in capo alla mandante, ma anziché disporre l’immediata esclusione del RTI dalla gara stabiliva che la stazione appaltante doveva assegnare un termine al medesimo RTI  “per la riorganizzazione del proprio assetto interno e, in caso di verifica positiva dell’effettiva sussistenza dei requisiti di qualifica in capo allo stesso, come richiesto dal Punto II.2.6. del Bando, consentirgli di riprendere la procedura di gara ovvero, al contrario, in caso di verifica negativa, escluderlo”.

La stazione appaltante ha reiterato, quindi, la verifica dei requisiti di qualificazione in capo al RTI aggiudicatario, rilevando in tale sede che la mandante – la quale aveva assunto una quota di esecuzione dell’appalto pari all’11%, corrispondente all’importo di € 2.598.750 – non risultava sufficientemente qualificata, in quanto titolare di attestazione SOA in OG3 fino alla sola classifica IV (€ 2.582.000) e priva dei requisiti per accedere all’incremento del quinto ex art. 61, comma 2, del d.P.R. n. 207/2010.

Il raggruppamento ha impugnato l’esclusione, evidenziando che, con riguardo alla predetta categoria, aveva manifestato la propria intenzione di subappaltare il 34,5% dei lavori riconducibili a tale categoria, depositando una dichiarazione in tal senso.

Con un percorso logico non propriamente lineare, il Collegio di prime cure ha rilevato – pur in assenza di qualunque deduzione sul punto da parte del RTI in sede procedimentale o processuale – che la mandante avesse inteso ricorrere al subappalto c.d. “qualificante” per il 34,5% della categoria prevalente OG3.

In conseguenza di ciò, il Collegio, in accoglimento del ricorso, ha dichiarato l’illegittimità dell’esclusione.

La posizione del Consiglio di Stato

La sentenza di primo grado è stata impugnata innanzi al Consiglio di stato, il quale ha accolto il ricorso.

Per quanto in questa sede di interesse, oggetto di gravame è la arbitraria ricostruzione che il TAR rende della vicenda. Secondo l’appellante sarebbe infatti errata la conclusione cui perviene il giudice amministrativo di prime cure, il quale dalla dichiarazione di subappalto resa in sede di gara fa derivare, arbitrariamente ed ex officio, la sussistenza del c.d. subappalto qualificante.

Si tratta, secondo l’appellante, di una vistosa ultrapetizione, che inficerebbe il provvedimento conclusivo del giudizio di primo grado. Secondo l’appellante, poi, il giudice di primo grado avrebbe altresì commesso l’errore di ritenere possibile il ricorso al subappalto qualificante per porre rimedio ad eventuali difetti di qualificazione con riguardo alla categoria prevalente.

Tali argomenti vengono condivisi dai giudici di Palazzo Spada, i quali accolgono l’appello.

Il Consiglio di Stato ha ricordato che, per costante giurisprudenza, il concorrente deve dichiarare sin da subito la propria intenzione di avvalersi del subappalto necessario.  Lo stesso Consiglio di Stato ha, infatti, di recente, affermato che “nella dichiarazione di subappalto necessario viene in rilievo (…) una delle modalità di attestazione del possesso di un requisito di partecipazione, che non tollera di suo il ricorso a formule generiche (…) pena la violazione dei principi di par condicio e di trasparenza che permeano le gare pubbliche” (cfr. Cons. St., Sez. V, 1.7.2022, n. 5491).

In conclusione, dunque, contrariamente a quanto sostenuto dal TAR, il Consiglio di Stato ha affermato che in assenza di una esplicita dichiarazione di voler ricorrere al subappalto necessario proveniente dal concorrente interessato, non è possibile sanare tale omissione mediante l’attivazione del soccorso istruttorio.

(Cons. St., Sez. V, 28.3.2023, n. 3180)


avvalimento

Se manca il corrispettivo pattuito, il contratto di avvalimento si considera gratuito?

avvalimentoIl TAR Veneto, con una recente pronuncia, ha escluso che dalla mancata indicazione del corrispettivo nel contratto di avvalimento si possa dedurne la sua gratuità. Secondo i giudici, infatti, è ben possibile che il corrispettivo possa trovare disciplina concreta attraverso successive pattuizioni.

Il caso

Nel caso di specie, la Regione Veneto aveva indetto una procedura competitiva per l’affidamento dei “lavori di ripristino dell’officiosità idraulica del fiume Brenta nel tratto tra Curtarolo e Strà”, delegando per il suo svolgimento la provincia di Padova, che risultava quindi stazione appaltante. Uno dei requisiti richiesti agli operatori economici partecipanti era l’attestazione SOA per la categoria OG8. La società risultata aggiudicataria aveva dimostrato di possedere il requisito partecipativo attraverso la stipula di contratto di avvalimento.

La società graduatasi in seconda posizione ha impugnato gli atti di gara, lamentando la mancata esclusione dell’aggiudicataria per due ragioni:

1) dalla lettura del contratto di avvalimento non emergerebbe l’interesse di natura patrimoniale dell’ausiliaria, per la quale non sarebbe stata prevista nessuna remunerazione, né di natura diretta, né di natura indiretta. Secondo il ricorrente, dunque, mancherebbe la c.d. causa in concreto del contratto che, di conseguenza, sarebbe da considerarsi nullo;

2) il contratto di avvalimento stipulato tra le parti non regolava il concreto trasferimento dei mezzi e delle risorse idonee a sostanziare il requisito posto a disposizione dell’impresa ausiliata, sicché il contratto di avvalimento presentato poteva assumere al più la veste di un mero contratto preliminare, diretto alla futura stipula di un contrato di subappalto, di nolo o distacco di personale.

La decisione

Il TAR Veneto ha respinto il ricorso.

Analizzando preliminarmente il secondo motivo, il TAR ha evidenziato che il disciplinare di gara prevedeva la possibilità ai concorrenti di partecipare avvalendosi dei requisiti di partecipazione di un altro soggetto, purché risultasse chiaramente dal contratto l’impegno dell’impresa ausiliaria a prestare le proprie risorse.

Secondo i giudici, il contratto oggetto di ricorso risultava conforme alle prescrizioni della lex specialis di gara: l’obbligo assunto dall’impresa ausiliaria risultava perdurare per tutta la durata dell’appalto ed erano ben indicati tutti i requisiti richiesti per la qualificazione e tutte le risorse necessarie. Risultava infatti presente anche un allegato alla scheda contrattuale, con l’elenco di tutti i mezzi e del personale prestato.

L’obbligazione assunta, a detta dei giudici, corrispondeva allo schema tipo del c.d. avvalimento operativo, che si verifica quando vengono messe a disposizione mezzi e risorse specifiche indispensabili per l’esecuzione dell’appalto che l’impresa ausiliaria mette a disposizione del ricorrente.

Parimenti infondato è stato ritenuto il primo motivo di ricorso concernente la presunta assenza di onerosità del contratto. Il Collegio ha osservato come la carenza di onerosità testuale del contratto di avvalimento non equivale ad attribuire il carattere di gratuità allo stesso.

L’eventuale lacuna testuale, infatti, può essere anche integrata successivamente per volontà delle parti, specie nell’ambito di negozi volti a regolare l’esecuzione del contratto di avvalimento, o comunque applicando le regole dettate dall’art. 1657 c.c., secondo cui se, all’interno del contratto, le parti non hanno determinato il corrispettivo, né hanno stabilito il modo di determinarla, esso è calcolato con riferimento alle tariffe esistenti o agli usi o, in mancanza, viene determinato dal giudice.

Tale circostanza, ricorda il TAR, si avverte a maggior ragione nei contratti di avvalimento, in cui ricorre “l’esigenza di ancorare la determinazione del corrispettivo all’effettiva entità della prestazione resa dall’ausiliaria, quale potrà determinarsi solo all’esito, o comunque al corso, dell’esecuzione dell’appalto, alla luce delle specifiche esigenze di soccorso manifestate dall’impresa ausiliaria dell’appalto ovvero della concreta attività sostitutiva posta in essere da quella ausiliaria (Cons. St. Sez. III, n. 5294 del 2021)”.

È stata altresì ritenuta infondata anche la tesi del ricorrente, secondo cui l’esigenza di indicare esattamente il corrispettivo fin dal momento della stipulazione del contratto sarebbe funzionale a garantire la serietà dell’impegno assunto dall’impresa ausiliaria. Secondo i giudici, infatti, la mancata indicazione di un corrispettivo a favore dell’ausiliaria non costituisce elemento sintomatico né dell’assenza di onerosità del contratto, né di un intento simulatorio, o comunque non integra un indice di inaffidabilità dell’obbligo assunto dall’ausiliaria, essendo ben possibile che il corrispettivo del contratto di avvalimento possa trovare una disciplina concreta attraverso accordi presi in sede di esecuzione del contratto.

TAR Veneto, Sez. III, 10.3.2023, n. 328


ATI verticale: l’annotazione ANAC va disposta per tutti i componenti?

ATIOve il provvedimento di risoluzione in danno sia disposto nei confronti di una ATI verticale, la annotazione che ne consegue nel casellario ANAC non deve riguardare tutte le imprese che fanno parte del predetto raggruppamento, bensì la sola impresa mandataria: con questo arresto, una recente pronuncia del TAR Lazio ha riconosciuto la fondatezza del ricorso proposto avverso l’annotazione erga omnes.

Ma andiamo con ordine.

All’esito di una procedura di gara bandita per l’esecuzione di lavori in regime di accordo quadro suddivisi in più contratti applicativi, le imprese aggiudicatarie si costituivano in ATI c.d. verticale; in virtù di tale accordo la mandataria si incaricava dell’esecuzione delle opere riconducibili alla categoria OG3, laddove la mandante avrebbe eseguito le lavorazioni di cui alla categoria OS21.

In seguito, in ossequio al dettato di cui all’art. 48, comma 12, d.lgs. 50/2016, la mandataria procedeva a stipulare più contratti con la stazione appaltante: ad assumere rilievo, in questa sede, sono i contratti applicativi n. 2 e n. 4, in cui unica esecutrice era l’impresa mandataria (trattandosi di opere esclusivamente riconducibili alla categoria OG3).

In tale quadro, accadeva che l’impresa mandante non era in alcun modo informata dell’andamento dei lavori riconducibili ai citati contratti applicativi n. 2 e n. 4 (unica esecutrice, per essi, era l’impresa mandataria), la quale era responsabile di tali (e tanti) inadempimenti da spingere la committenza a risolvere i predetti contratti applicativi (e, per l’effetto e a cascata, l’intero accordo quadro).

A fronte della risoluzione contrattuale così disposta l’amministrazione appaltante segnalava tali circostanze all’ANAC, la quale avviava il procedimento per l’annotazione della risoluzione medesima in capo tanto alla mandataria quanto alla mandante (alcun effetto producevano le argomentazioni rese da quest’ultima, la quale evidenziava come alcuna responsabilità potesse esserle addebitata con riguardo alle circostanze contestate).

Nel giudizio che segue, la mandante contestava la correttezza dell’operato dell’ANAC: in particolare, l’annotazione era ritenuta illegittima in quanto i fatti determinanti la risoluzione contrattuale (e la conseguente caducazione dell’accordo quadro) andavano ricondotti esclusivamente agli inadempimenti della mandataria.

Come accertato dal Collegio, l’ATI in questione è un raggruppamento c.d. verticale: in esso, per costante giurisprudenza, le imprese partecipanti sono portatrici di competenze distinte e differenti tra loro. Di conseguenza, spetta alla stazione appaltante “individuare le prestazioni principali e secondarie da ripartire all’interno dell’associazione tra i suoi componenti (…) tenuto conto del differente regime relativo alla responsabilità che si applica alle ATI verticali” (in questi termini, Cons. St., Sez. III, 21.1.2019, n. 519).

Fatta tale premessa di ordine generale, il Collegio evidenzia come l’annotazione ANAC sia viziata da una evidente carenza sotto il profilo istruttorio (e, per tale ragione, illegittima). Più nello specifico, l’Autorità avrebbe errato nel non tenere nella dovuta considerazione la circostanza che la risoluzione contrattuale sia addebitabile all’esclusivo inadempimento della mandataria.

In altri termini, l’ANAC ometteva in toto di valutare il fatto che ad aver determinato la risoluzione contrattuale è l’inadempimento della società mandataria (ancorché la risoluzione ha riguardato l’intero accordo quadro), con la conseguenza che è solo in capo a quest’ultima che andava disposta l’annotazione.

Il Collegio, pertanto, accoglie il ricorso, ricordando come “l’annotazione al casellario informatico da parte di ANAC deve avere ad oggetto notizie (…) veritiere e complete”, cosa non accaduta nel caso di specie, in cui l’Autorità non attribuiva “l’imputabilità dell’inadempimento che ha cagionato la segnalata risoluzione in capo alla sola mandataria”.

TAR Lazio Roma, Sez. I quater, 1.3.2023, n. 3485


Appalti pubblici e rinegoziazione dell’offerta: legittima anche prima della stipula del contratto?

Appalti pubblici e rinegoziazione dell’offerta: legittima anche prima della stipula del contratto?

Appalti pubblici e rinegoziazione dell’offerta: legittima anche prima della stipula del contratto?In tema di appalti pubblici, si sta facendo sempre più strada nella giurisprudenza amministrativa il principio per cui gli aggiudicatari possano chiedere (e, in presenza di ben specifiche condizioni, ottenere) la revisione delle clausole contrattuali relative ai prezzi pattuiti con l’amministrazione appaltante già prima della stipula del contratto stesso. Condizione perché ciò possa avvenire, è l’aumento dei costi dei materiali da costruzione in misura tale da rendere non più equilibrato il rapporto contrattuale.

Sebben non manchino pronunce di segno negativo, la recente sentenza del TAR Piemonte n. 180 del 20.2.2023 si colloca in un filone giurisprudenziale tutt’altro che isolato.

Nel caso portato all’attenzione del TAR accadeva che, a causa dell’allungamento dei tempi necessari per gli adempimenti post aggiudicazione, scaduta la vincolatività dell'offerta, l’amministrazione aveva chiesto all'operatore di confermare la validità dell'offerta per altri sei mesi, con conseguente estensione della cauzione. L’aggiudicatario, non confermando la validità dell’offerta, aveva richiesto all’amministrazione di rinegoziare l’offerta presentata in sede di gara, ritenendola non più sostenibile a causa dell’aumento dei costi dei materiali da costruzione.

A fronte del diniego di addivenire ad una rinegoziazione, motivata altresì in forza di una possibile applicazione delle misure previste dal decreto aiuti (nello specifico, l’art. 26 d.l. 50/2022), l’amministrazione dichiarava decaduta l’aggiudicazione, con tanto di segnalazione all'ANAC.

L’aggiudicatario adiva pertanto il TAR ritenendo, in particolare, errato l’operato della stazione appaltante che, a fronte di una richiesta di rinegoziazione dell’offerta, avrebbe dovuto attivarsi per condurre una approfondita istruttoria circa la persistenza della congruità dell’offerta. Peraltro, prosegue il ricorrente, sarebbe altresì inconferente il richiamo all’art. 26, d.l. 50/2022: tale norma non poteva infatti essere applicata al caso di specie (trattandosi di appalto rientrante nei c.d. settori speciali, non coperti dalla predetta disposizione).

In definitiva, secondo il ricorrente, la rinegoziazione avrebbe dovuto assumere carattere pregiudiziale per la successiva stipula del contratto.

Il TAR Piemonte ha accolto il ricorso, sostenendo, in buona sostanza, che l’immodificabilità del contratto non ha carattere assoluto e che sussiste un legittimo margine di valutazione in capo alla stazione appaltante tra l'alternativa di rimettere a gara o tentare di riportare il contratto a equità.

A sostegno di ciò, il Collegio anzitutto ha ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, le variazioni apportate al contratto non sono tali da violare, sempre e comunque, i principi base in tema di evidenza pubblica (in tal senso, cfr. CGUE, Sez. VIII, 7.9.2016, C/549-14).

Fatta tale premessa, il Collegio fa proprie le conclusioni raggiunte di recente dal TAR Sardegna n. 770/2022 (di cui avevamo parlato in questa news), in cui veniva affermato che:

  • poiché “non vi è una disciplina specifica delle sopravvenienze applicabile alla fase tra l’aggiudicazione e la stipulazione del contratto”, la legittimità di una rinegoziazione sarebbe da rinvenire nella ratiostessa dell’istituto, ossia riequilibrare il rapporto economico contrattuale;
  • la “corretta applicazione del principio di economicità, dunque di buon andamento, dell’amministrazione (richiamato dall’art. 30, comma 1, del codice dei contratti pubblici), scongiura una riedizione della procedura, che diversamente s’imporrebbe in tutti i casi di modifica, ancorché non “essenziale”, delle condizioni”.

Di conseguenza, la sussistenza di condizioni che evidenziano la ragionevolezza della richiesta di rinegoziazione di per sé rappresenta un elemento tale per cui l’amministrazione deve necessariamente prendere in considerazione la richiesta medesima, in quanto sarebbe irragionevole (oltre che oneroso sotto il profilo economico) il comportamento dell’amministrazione che decidesse di azzerare gli esiti di una procedura di affidamento in assenza di sostanziali illegittimità della stessa.

In definitiva, il Collegio conclude che è “onere dell’amministrazione assicurarsi di giungere alla stipula di un contratto in condizioni di equilibrio, valutando ogni sopravvenienza segnalata dagli operatori economici partecipanti alla gara che, alla luce del quadro economico e normativo vigente e del contesto socio economico, appaia in grado di alterare tali condizioni, adottando le misure necessarie a ristabilire l’originario equilibrio contrattuale”.

Con l’ulteriore precisazione che “debba trattarsi di sopravvenienze imprevedibili, estranee anche al normale ciclo economico, in grado di generare condizioni di shock eccezionale”, ammonendo, poi, che “è invece preclusa la negoziazione di modifiche che non mirino al recupero dell’equilibrio iniziale del contratto (…) ma che si presentino in grado di estendere in modo considerevole l’oggetto dell’appalto ad elementi non previsti, alterare l’equilibrio economico contrattuale originario in favore dell’aggiudicatario”.

Il TAR ha così disposto l'annullamento della decadenza dell’aggiudicazione e l’obbligo della stazione appaltante di esaminare la proposta di rinegoziazione.

(TAR Piemonte, Sez. II, 20.2.2023, n. 180)

 


anac

Tardivo versamento del contributo ANAC: è legittima l’esclusione?

Con la recente pronuncia dello scorso 3 febbraio, il Consiglio di Stato ha affermato che in caso di tardivo versamento del contributo ANAC l’esclusione non è legittima.

Un concorrente partecipava ad una procedura di gara e, non avendo effettuato il pagamento del contributo ANAC, veniva invitato dalla stazione appaltante a regolarizzare tale pagamento in sede di soccorso istruttorio.

La società concorrente provvedeva a regolarizzare il pagamento del contributo ANAC entro il termine massimo concesso dalla stazione appaltante. Tale termine, tuttavia, risultava essere successivo alla scadenza della presentazione delle offerte.

Per tale ragione, la stazione appaltante decideva di escludere la società dalla procedura di gara. Nello specifico, la stazione appaltante evidenziava che l’art. 11 del disciplinare di gara prevedeva, per il caso di mancato pagamento entro il termine di presentazione delle offerte, una espressa comminatoria di esclusione.

La società concorrente impugnava detta esclusione dinanzi al TAR Umbria, il quale, richiamata la lex specialis di gara, confermava la bontà dell’operato della stazione appaltante.

In sede di appello, la società concorrente, nell’evidenziare l’erroneità della sentenza resa dal TAR Umbria, precisava come  la causa di esclusione prevista dal disciplinare di gara esula dal novero delle cause di esclusione previste dalla legge e, come tale, deve essere considerata nulla. Per la società ricorrente, dunque, l’art. 11 del disciplinare di gara non avrebbe dovuto trovare applicazione.

Il Consiglio di stato, ritenuto fondato il motivo, ha accolto il ricorso ed ha annullato l’esclusione.

In particolare, i giudici hanno rilevato che rispetto all’art. 1, comma 67 della l. n. 266/2005, che ha introdotto l'obbligatorietà del versamento del c.d. contributo ANAC, l’art. 11 del disciplinare di gara si rivela più limitante e rigoroso perché l’effetto espulsivo ivi previsto consegue anche al solo tardivo pagamento del contributo, oltre che per il suo omesso pagamento.

In definitiva, dunque, a parere del Consiglio di Stato, l’art. 11 del disciplinare di gara, escludendo rilevanza al soccorso istruttorio e conferendo alla tempistica del pagamento un peso determinante, contrasta con l’art. 83, comma 8,  del d.lgs. 50/2016, il quale prevede che “i bandi e le lettere di invito non possono contenere ulteriori prescrizione a pena di esclusione rispetto a quelle previste dal codice e dal altre disposizioni vigenti” nonché con l’art. 1, comma 67 della l. 266/2005, il quale contempla “l’obbligo di versamento del contributo da parte degli operatori economici quale condizione di ammissibilità dell’offerta nell’ambio delle procedure finalizzate alla realizzazione di opere pubbliche”.

La pronuncia in commento è estremamente importante e si inserisce nel grande dibattito che ruota intorno al contributo ANAC. La giurisprudenza, infatti, è sul punto estremamente discordante e finanche contradditoria.

Basti pensare che solo pochi giorni prima della pubblicazione della sentenza del Consiglio di stato, il TAR Sardegna, nel richiamare precedenti pronunce rese sia dai giudici di merito che dallo stesso Consiglio di Stato, ha addirittura ritenuto inapplicabile il soccorso istruttorio in caso di mancato pagamento del contributo ANAC, se non previsto dal bando.

Cons. Stato, Sez. III, 3.2.2023, n. 1175

TAR Sardegna, Sez. II, 18.1.2023, n. 14


L'ennesimo decreto che interviene sugli appalti pubblici: il decreto PNRR-ter

L'ennesimo decreto che interviene sugli appalti pubblici: il decreto PNRR-ter

L'ennesimo decreto che interviene sugli appalti pubblici: il decreto PNRR-terIl 25 febbraio 2023 è entrato in vigore il c.d. decreto PNRR-ter (d.l. 13/2023) che introduce rilevanti novità in materia di appalti pubblici.

Il decreto vorrebbe mirare a snellire ed accelerare le procedure previste per la realizzazione degli appalti PNRR e PNC, sul solco della semplificazione già avviata dal legislatore, in particolare con il d.l. 77/2021.

Vediamo le novità più importanti.

L’art. 14, comma 1, lett. d) n. 2 introduce delle importanti novità in tema di appalto integrato, modificando sensibilmente l’art. 48 del d.l. 77/2021 che ne aveva disciplinato l’applicazione in relazione agli interventi PNRR e PNC.

Più precisamente, l’art. 48, comma 5 del d.l. 77/2021 aveva ammesso la possibilità di disporre l’affidamento di progettazione ed esecuzione dei relativi lavori anche sulla base del progetto di fattibilità tecnica ed economica, in deroga alle espresse previsioni di cui all’art. 59 comma 1 del d.lgs. 50/2016.

A corredo, sono state emanate nel luglio 2021 delle apposite Linee guida per la redazione del progetto di fattibilità tecnica ed economica da porre a base dell’affidamento di contratti pubblici di lavori del PNRR e del PNC del MIMS e CSLP (art. 48, comma 7, d.l. 77/2021).

Uno degli aspetti più rilevanti della norma atteneva alla necessità che sul progetto di fattibilità tecnico-economica posto a base di gara vanisse convocata la conferenza dei Servizi di cui all’art. 14 comma 3 L. 241/1990. Alla conferenza avrebbe partecipato anche l’affidatario dell’appalto che, se necessario, avrebbe dovuto adeguare il progetto alle eventuali prescrizioni susseguenti ai pareri resi in conferenza dei servizi.

La disciplina racchiusa nell’art. 48, comma 5 è stata spacchettata i ben 5 commi, i quali specificano e arricchiscono la normativa.

La nuova norma prevede che la conferenza dei servizi indetta è quella c.d. semplificata, secondo le modalità di cui all’art. 14-bis L. 241/1990. La determinazione conclusiva della stessa approva il progetto, determina la dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e tiene luogo di tutti i pareri, nulla osta e autorizzazioni necessari anche ai fini della localizzazione dell'opera, della conformità urbanistica e paesaggistica dell'intervento, della risoluzione delle interferenze e delle relative opere mitigatrici e compensative. Nel corso della conferenza dei servizi, vengono acquisiti altresì le risultanze della valutazione di assoggettabilità alla verifica preventiva dell’interesse archeologico.

Contestualmente alla richiesta di convocazione della conferenza di servizi, la stazione appaltante inoltra all'autorità competente il progetto di fattibilità tecnica ed economica, ai fini dell'espressione della valutazione di impatto ambientale (VIA), unitamente alla documentazione richiesta ai fini dello studio di impatto ambientale.

Il nuovo comma 5-quater dell’art. 48 individua poi una serie di misure volte a mitigare o comunque a imporre dei termini serrati per le amministrazioni che impongo un diniego sulla stessa realizzazione dell’opera. In particolare, si prevede che le determinazioni di dissenso non possono limitarsi a esprimere contrarietà alla realizzazione delle opere, ma devono indicare le prescrizioni e le misure mitigatrici che rendono compatibile l’opera.

Degna di nota è poi l’estensione del meccanismo semplificato della conferenza dei servizi descritto dai nuovi commi 5, 5-bis, 5-ter e 5-quater dell’art. 48 agli interventi relativi alle infrastrutture ferroviarie, edilizia giudiziaria e penitenziaria e alle relative infrastrutture di supporto.

L’art. 14 del d.l. 13/2023 contiene poi una serie di misure di semplificazione per l’affidamento dei contratti pubblici PNRR e PNC e in materia di procedimenti amministrativi, ivi inclusi i procedimenti di esproprio.

Ulteriori novità sono poi contenute nell’art. 17 in tema di accordi quadro e convenzioni con le centrali di committenza (Consip o soggetti aggregatori). Per tali contratti in scadenza al 30 giugno 2023, l’art. 17 comma 1 impone una proroga ex lege sino all’indizione di una nuova procedura, e comunque non oltre il 31 dicembre 2023. In ogni caso, tale proroga non può eccedere il 50% del valore iniziale della convenzione o dell’accordo quadro.

Il medesimo articolo dedica poi una particolare disciplina alle convenzioni quadro e agli accordi quadro aventi ad oggetto l’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, nonché agli accordi quadro nel settore sanitario gestiti da Consip.

L’art. 18, invece, mira a semplificare gli acquisti di beni e servizi informatici strumentali alla realizzazione PNRR e in materia di procedure di e-procurement e acquisto di beni e servizi informatici.

Sono poi previste una serie di misure di favore per gli appalti nel settore dell’edilizia scolastica. Si segnala, in particolare, l’art. 24 che, al comma 2, apporta delle modifiche al d.l. 76/2020, innalzando la soglia per l’affidamento diretto per servizi e forniture, compresi i servizi di ingegneria e architettura, a 215.000 euro, anche senza previo consulto di più operatori.

Si tratta di un decreto molto complesso e articolato, ricco di rinvii e proroghe all’evidenza poco intellegibili.

Il dubbio, tuttavia, risiede nell’opportunità di strutturare una modifica normativa di tale impatto alla vigilia di un nuovo codice dei contratti.

(d.l. 24 febbraio 2023 n. 13)


concessione

Concessioni balneari: il campo di applicazione della proroga disposta dalla l. 145/2018 secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione

Le sezioni unite della Corte di Cassazione tornano sul tema del campo di applicazione della proroga disposta dalla l. 145/2018 delle concessioni demaniali marittime, le c.d. concessioni balneari.

La questione giuridica sottoposta all’attenzione della Corte è essenzialmente la seguente: a quali concessioni si applica la proroga disposta dall'art. 1, commi 682 e 683, l. 145/2018?

Nel caso di specie sono fondamentali i fatti e gli atti intercorsi.

Nel 2007 la ricorrente aveva ottenuto in concessione un’area destinata a parcheggio, spiaggia attrezzata e con realizzazione di un chiosco, sulla quale era stata avviata un’attività stagionale di stabilimento balneare.

Negli anni successivi, la ricorrente aveva ottenuto il rinnovo annuale della concessione fino al 2014, anno in cui la Regione aveva limitato il rinnovo, in quanto era emersa l’esigenza di procedere all’individuazione del concessionario con procedure comparative.

La determina era stata impugnata dalla ricorrente innanzi al TAR Puglia, sede di Lecce. In quella sede, la ricorrente aveva altresì chiesto il riconoscimento della proroga fino al 31 dicembre 2020 in forza dell’art. 1, comma 18, d.l. 194/2009, come modificato dall’art. 34 duodecies, d.l. n. 179/2012.

Il giudizio, sospeso dal TAR in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia sulle norme citate, si estingueva per mancata riassunzione.

Nel 2019 la ricorrente chiedeva al comune il rilascio di un provvedimento di proroga della concessione per ulteriori 15 anni ai sensi dell’art. 1, commi 675- 682 della L. 145/2018.

Tale richiesta veniva negata dall’amministrazione comunale per carenza dei presupposti oggettivi e formali: secondo il comune, la concessione di cui era titolare la ricorrente non era riconducibile a quella demaniale marittima oggetto di proroga.

Il diniego veniva così impugnato innanzi al TAR Puglia, sede di Lecce il quale, tuttavia, confermava l’operato dell’Amministrazione.

Secondo i giudici, infatti, essendosi estinto il precedente giudizio avverso il provvedimento di rinnovo della concessione, “la proroga prevista dal d.l. n. 194/2009 non era mai stata applicata per l’efficace apposizione di un termine annuale ai rinnovi concessi, riconosciuti solo per motivi di opportunità, neppure potendosi qualificare l’assegnazione dell’area in termini di concessione demaniale marittima, da cui l’inapplicabilità di quanto stabilito dalla legge n. 145/2018”.

La decisione veniva confermata dal Consiglio di Stato che, pur ritenendo che il provvedimento concessorio avesse ad oggetto un bene demaniale marittimo, escludeva la sussistenza dei requisiti oggettivi per il riconoscimento della proroga prevista dall’art. 1, commi 682 e 683, della l. 145/2018.

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, tutti i provvedimenti concessori di cui aveva beneficiato la ricorrente avevano durata stagionale e definitiva, tanto che le istanze presentate erano per il rinnovo della concessione.

La proroga disposta dalla l. 145/2018 non comportava l’applicazione della proroga a tutte le concessioni in atto a quella data: destinanti della proroga erano unicamente quelle che già avevano fruito della precedente ed erano vigenti alla data del 1° gennaio 2019.

La ricorrente, in quanto titolare di concessioni di durata annuale (o stagionale) e non di “concessioni di lunga durata (con scadenza fino al 31 dicembre 2012, più volte prorogato fino al 31 dicembre 2018)”, non aveva fruito, né poteva fruire, della proroga fino al 31 dicembre 2020 prevista dal d.l. 194/2009, e, quindi, cessata la concessione alla data del 31 dicembre 2018, non poteva neppure fruire della (nuova) proroga prevista dalla l. n. 145/2018, entrata in vigore dal 1° gennaio 2019.

Avverso la sentenza del Consiglio di Stato la ricorrente ha promosso ricorso in Cassazione per eccesso di giurisdizione. Secondo la ricorrente, infatti, il Consiglio di Stato, nel limitare l’applicabilità dell’art. 1, comma 683, l. 145/2018 alle sole “concessioni di lunga durata”, ha introdotto un requisito non previsto da alcuna norma di legge.

In sede di giudizio, la ricorrente ha altresì chiesto il rinvio del giudizio in attesa della decisione della Corte di Giustizia sulla rimessione operata dal TAR Puglia, sede di Lecce con l’ordinanza n. 743/2022 circa la validità della direttiva Bolkestein e della sua natura self-executing, sul requisito dell’interesse transfrontaliero, nonché sul requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale: tale rinvio, tuttavia, non è stato concesso.

Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso, ritenendolo infondato.

Secondo la Corte, il percorso argomentativo seguito dal Consiglio di Stato sarebbe stato corretto e logico.

L’art. 1, comma 683, richiama il d.l. n. 194 del 2009 prevedendo che “le concessioni di cui al comma 682, vigenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 31 dicembre 2009, n. 194”; a sua volta, il comma 682 dispone che “Le concessioni disciplinate dal comma 1 dell'articolo 01 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.

La circostanza che l’art. 1, comma 683, richiami il d.l. n. 194 del 2009 e non indichi meramente una data, fa sì che il campo di applicazione della proroga non è generalizzato, ma circoscritto al campo di applicazione della norma richiamata.

Secondo la Corte, dunque, è coerente e logica “l’opzione esegetica del Consiglio di Stato per cui l’indicazione del dettato normativo non poteva equivalere alla sola indicazione della data «perché se ciò avesse voluto fare, sarebbe bastato indicare la data del 30 dicembre 2009 senza alcun richiamo al decreto legge n. 194 del 2009», e ciò, tanto più, che proprio il decreto legge n. 194/2009, come pure esplicitato dal giudice amministrativo, all’art. 1, comma 18, si riferiva alla proroga – fino al 2020 - del termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore della disciplina (e rilasciate a seguito di una procedura amministrativa attivata prima del 31 dicembre 2009) in scadenza entro il 31 dicembre 2018.

La ricostruzione compiuta dal Consiglio di Stato, inoltre, secondo la Cassazione, ha una finalità sistematica, “mirata a non ampliare l’ambito dei provvedimenti concessori destinati ad essere beneficiari di proroga: solo quelli in essere e solo quelli già oggetto di proroga sono destinatari delle ulteriori misure di estensione temporale”.

Come precisato anche nell’interpretazione delle norme operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 213 del 18 luglio 2011, chiamata a valutare la legittimità costituzionale di alcune disposizioni regionali in tema di proroga automatica di concessioni demaniali, le disposizioni con cui sono state previste le proroghe hanno «carattere transitorio, in attesa della revisione della legislazione in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento, sulla base di una intesa da raggiungere in sede di Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui al citato art. 37, secondo comma, cod. nav. La finalità del legislatore è stata, dunque, quella di rispettare gli obblighi comunitari in materia di libera concorrenza e di consentire ai titolari di stabilimenti balneari di completare l’ammortamento degli investimenti nelle more del riordino della materia, da definire in sede di Conferenza Stato-Regioni».

Il logico corollario, pertanto, era nel senso che la proroga ivi prevista si riferiva solo alle concessioni nuove e in corso e non a quelle scadute. In coerente sviluppo, dunque, è la prospettiva del Consiglio di Stato con riguardo alla portata del successivo intervento del 2018.

La Cassazione ha pertanto escluso che i giudici amministrativi avessero travalicato i limiti esterni della giurisdizione amministrativa, affermando, al contrario, come gli stessi abbiano esercitato un’attività ermeneutica che rientra tra i propri compiti.

Per la Cassazione, dunque, i giudici del Consiglio di Stato si sono limitati a interpretare norme esistenti e non anche a crearne di nuove.

Cass. Civ., Sez. Un., 14 febbraio 2023, n. 4591


Aggiudicazione non impugnabile dal partecipante definitivamente escluso: la pronuncia della CGUE

Aggiudicazione non impugnabile dal partecipante definitivamente escluso: la pronuncia della CGUECon ordinanza n. 25/2022, il TAR Lombardia ha chiesto alla CGUE di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto dell’Unione europea delle disposizioni nazionali che non consentono, a chi è stato definitivamente escluso da una procedura di gara, di impugnare il diniego di annullamento di aggiudicazione.

L’annullamento dell’aggiudicazione, nello specifico, era stato richiesto da un soggetto escluso dalla gara per assenza di requisiti. Quest’ultimo aveva contestato l’aggiudicazione in quanto a seguito della gara e dell’aggiudicazione, l’AGCM  - prima  - e il giudice amministrativo -  dopo - avevano accertato che l’aggiudicatario e tutti i concorrenti partecipanti alla gara, utilmente graduati, avevano realizzato delle intese anticoncorrenziali e, dunque, avevano commesso un grave illecito professionale.

Il giudice amministrativo, chiamato a decidere sulla sanzione inflitta dall’AGCM alle imprese partecipanti, aveva ritenuto le condotte anticoncorrenziali idonee a “controllare e orientare il prezzo di aggiudicazione delle commesse pubbliche dei servizi”.

Nonostante il pronunciamento del giudice amministrativo, tuttavia, l’amministrazione – pur informata di tale pronuncia – aveva negato la richiesta di annullamento dell’aggiudicazione avanzata dal concorrente escluso in quanto, a suo dire, le condotte censurate non erano tali da costituire gravi illeciti professionali, sanzionabili con l’esclusione ai sensi dell’art. 80, comma 5, d.lgs. 50/2016.

Nel giudizio di rinvio, pertanto, il TAR Lombardia si interroga, sulla portata applicativa di quanto previsto dall’art. 1, par. 3, direttiva 89/665/CEE.

Preliminarmente, la Corte di Giustizia ha ricordato che la direttiva 89/665/CEE – di coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione di appalti pubblici di forniture e di lavori – prevede, all’art. 1, par. 3, che “Gli Stati membri garantiscono che le procedure di ricorso siano accessibili, secondo modalità che gli Stati membri possono determinare, per lo meno a chiunque abbia o abbia avuto interesse a ottenere l’aggiudicazione di un determinato appalto pubblico di forniture o di lavori e che sia stato o rischi di essere leso a causa di una violazione denunciata. In particolare gli Stati membri possono esigere che la persona che desideri avvalersi di tale procedura abbia preventivamente informato l’autorità aggiudicatrice della pretesa violazione e della propria intenzione di presentare un ricorso”.

Tale disposizione è applicabile al vigente codice dei contratti pubblici in conseguenza della modifica apportata all’art. 1, par. 1, della stessa dall’art. 46, direttiva 2014/23/UE: l’art. 1, par. 1, direttiva 89/665/CEE, nella sua nuova formulazione, stabilisce che “La presente direttiva si applica agli appalti di cui alla direttiva 2014/24/UE”.

La norma, dunque, sancisce l’obbligo, per gli Stati membri, di agevolare la proposizione di ricorsi giurisdizionali da parte di chi abbia interesse a vedersi aggiudicata una gara d’appalto. Tale obbligo, tuttavia, non significa che chiunque potrà legittimamente impugnare, in ogni caso, davanti all’organo giurisdizionale una gara d’appalto: condizione necessaria affinché un’impugnazione possa essere proposta è che tale provvedimento sia in qualche modo lesivo per il soggetto che vorrebbe impugnarlo.

Se, in linea di mero principio, la partecipazione ad una gara costituisce condizione sufficiente, per l’operatore partecipante, per presentare ricorso avverso l’aggiudicazione, la mancata presentazione dell’offerta da parte dell’operatore medesimo – perché escluso per assenza dei requisiti di partecipazione – lo priva del diritto ad impugnare l’aggiudicazione disposta nel procedimento in questione. Ciò in quanto egli non rientra nel novero dei soggetti cui può applicarsi il citato art. 1, par. 3.

Con riferimento, ora, al caso di specie, la stessa Corte di Giustizia ha ricordato che “qualora, prima dell’adozione della decisione di aggiudicazione di un appalto pubblico, un offerente sia stato definitivamente escluso dalla partecipazione alla procedura di aggiudicazione dell’appalto stesso con una decisione dell’amministrazione aggiudicatrice confermata da una decisione giurisdizionale che ha acquisito autorità di cosa giudicata (…) l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 non osta a che a tale offerente sia negato l’accesso a un ricorso contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi”.

In altri termini, l’operatore definitivamente escluso dalla procedura di gara è, sostanzialmente, indistinguibile da quel partecipante che avrebbe potuto presentare un’offerta (ma non lo ha fatto): ne deriva, pertanto, che ambo i soggetti non rientrano nel novero di quelli indicati dall’art. 1, par. 3, essendo entrambi soggetti non aventi interesse ad impugnare l’aggiudicazione.

E’ dunque il carattere non definitivo della esclusione a comportare la legittimazione ad agire dell’offerente avverso la disposta aggiudicazione.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte di Giustizia ha concluso che “l’articolo 1, paragrafo 3, della direttiva 89/665 deve essere interpretato nel senso che esso non osta alla normativa di uno Stato membro che non consente a un operatore, al quale sia impedito di partecipare a una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico per il motivo che egli non soddisfa una delle condizioni di partecipazione previste dal bando di gara di cui trattasi, e il cui ricorso contro l’inclusione di tale condizione in detto bando di gara sia stato respinto con una decisione passata in giudicato, di contestare il rifiuto dell’amministrazione aggiudicatrice interessata di annullare la decisione di aggiudicazione di tale appalto pubblico a seguito della conferma, con decisione giurisdizionale, che tanto l’aggiudicatario quanto tutti gli altri offerenti avevano partecipato a un accordo costitutivo di una violazione delle regole di concorrenza nello stesso settore interessato dalla procedura di aggiudicazione di detto appalto pubblico”.

(CGUE, Sez. X, 9.2.2023, C-53/2022)


garanzia

La durata del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta: 5 mesi sono sufficienti?

offertaQual è la durata del procedimento di verifica dell’anomalia dell'offerta? Può la stazione appaltante procedere all’esclusione di un partecipante ad una gara d’appalto all’esito di un subprocedimento di verifica dell’anomalia durato oltre 5 mesi?

A tale quesiti ha fornito una risposta una recente pronuncia del TAR Campania.

Nei fatti accadeva, in estrema sintesi, che, all’esito di una procedura di gara per l’aggiudicazione del servizio di logistica integrata, un operatore economico, dopo aver ottenuto il massimo punteggio per l’offerta tecnica ed economica, veniva escluso dopo che era stato espletato il procedimento di verifica di anomalia dell’offerta.

In particolare, l’esclusione veniva disposta dall’amministrazione dopo ben 5 mesi dall’avvio del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che era stato caratterizzato da numerosi chiarimenti richiesti dall’amministrazione all’operatore.

Avverso l’esclusione, l’operatore formulava istanza di annullamento in autotutela. A fronte di ciò, l’amministrazione formulava istanza di parere di precontenzioso ex art. 211, d.lgs. 50/2016, in riscontro alla quale l’ANAC invitava l’amministrazione a procedere alla verifica delle singole voci di costo indicate nell’offerta economica.

Esperito tale ulteriore istruttoria, la stazione appaltante, tuttavia, confermava il provvedimento di esclusione.

L’operatore impugnava così il provvedimento di esclusione, lamentando l’illegittimo comportamento tenuto dall’amministrazione. A parere del ricorrente, sarebbe stata ravvisabile un’irregolarità formale del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che si era indebitamente protratto per un periodo di tempo eccessivamente lungo, pari ad oltre 5 mesi.

La censura così formulata non ha trovato accoglimento.

Secondo il Collegio, il fatto che il subprocedimento di verifica dell’anomalia si sia protratto per oltre 5 mesi non è un elemento sintomatico della legittimità o meno del provvedimento conclusivo del procedimento (nel caso di specie, la determina di esclusione).

Sottolinea il TAR, infatti, che le maggiori occasioni di dialogo e confronto tra il ricorrente e la stazione appaltante sull’offerta economica rappresentano potenzialmente un vantaggio per il ricorrente la cui offerta è sottoposta a stringente scrutinio, il quale ha occasione di “provare” l’affidabilità della propria offerta.

In altri termini, è ben possibile – come accaduto nel caso di specie – che la stazione appaltante, ricevute le prime giustificazioni dal concorrente, non sia messa nelle condizioni di superare i dubbi sorti in merito all’attendibilità dell’offerta su cui sta operando la verifica dell’anomalia, motivo per cui è perfettamente legittimo che la stessa richieda ulteriori chiarimenti al partecipante soggetto alla verifica medesima.

La richiesta di plurimi e successivi chiarimenti all’operatore economico rappresenta una condotta che, nelle stesse parole dei giudici viene definita come “doverosa”, attesa la ratio e la finalità propria dell’art. 97 d.lgs. 50/2016.

Come precisato dalla giurisprudenza, richiamata anche nella motivazione dal TAR, sebbene l’ulteriore fase di confronto procedimentale a seguito della presentazione dei primi giustificativi non sia più obbligatoria, la stazione appaltante sarà comunque legittimata “alla richiesta di ulteriori chiarimenti o a una audizione quando le circostanze lo richiedano per l’incompletezza delle giustificazioni” (in questi termini, cfr. TAR Lazio Roma, Sez. I bis, 4.1.2021, n. 11).

Il Collegio ha così rigettato il ricorso, ritenendo che il motivo di impugnazione così articolato si traduceva, nel caso di specie, “in una critica indiscriminata e meramente formalistica dell’operato della stazione appaltante non sorretto da una qualsivoglia (condivisibile) concretezza”, atteso che non era stato dimostrato in che modo la lamentata irregolarità del sub-procedimento di anomalia aveva pregiudicato l’esito del procedimento.

TAR Campania Napoli, Sez. IV, 7.2.2023, n. 867