Decreto Semplificazioni ed esclusione automatica delle offerte anomale: necessaria la clausola nella lex specialis. Un ulteriore contrasto annunciato.

Poche settimane fa abbiamo commentato sul nostro sito la sentenza del TAR Piemonte del 17.11.2020, n. 736 secondo la quale, tradotto in soldoni, l’esclusione automatica delle offerte anomale nelle gare sotto soglia da aggiudicarsi al prezzo più basso di cui al Decreto Semplificazioni prescinde dall'indicazione in lex specialis di una clausola ad hoc (a differenza di quanto invece prescrive l'art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016) - clicca qui per leggere la notizia.

Qualche settimana dopo (22.1.2021), il TAR Puglia, chiamato a pronunciarsi sulla violazione dell’art. 1 d.l. n. 76/2020, convertito con l. n. 120/2020, che prevede una causa di esclusione automatica  dalla gara delle offerte anomale, torna sull’applicabilità del decreto semplificazioni andando in contrasto con la pronuncia di poco precedente del TAR Piemonte.

In dettaglio, il Collegio, consapevole che il recente Decreto Semplificazioni ha previsto che: “Nel caso di aggiudicazione al prezzo più basso, le stazioni appaltanti procedono all'esclusione automatica dalla gara delle offerte che presentano una percentuale di ribasso pari o superiore alla soglia di anomalia individuata ai sensi dell'articolo 97, commi 2, 2bis e 2ter del D. lgs. n. 50 del 2016, anche qualora il numero delle offerte ammesse sia pari o superiore a cinque”, ritiene in ogni caso pacifico che tale automatismo non era previsto dalla lettera d’invito.

Interessante notare l'interrogativo che si pongono i giudici: possiamo esigere dall’impresa partecipante alla gara un grado di conoscenza della normativa di riferimento, anche quando la stessa non sia stata previamente richiamata nel bando di gara?

E sul punto, rileva il Collegio che la Corte di Giustizia (sentenza 2 giugno 2016, C-27/15, Pippo Pizzo), sia pure su altra questione, ha enunciato il seguente principio di diritto: “Il principio di parità di trattamento e l'obbligo di trasparenza devono essere interpretati nel senso che ostano all'esclusione di un operatore economico da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico in seguito al mancato rispetto, da parte di tale operatore, di un obbligo che non risulta espressamente dai documenti relativi a tale procedura o dal diritto nazionale vigente, bensì da un'interpretazione di tale diritto e di tali documenti nonché dal meccanismo diretto a colmare, con un intervento delle autorità o dei giudici amministrativi nazionali, le lacune presenti in tali documenti. In tali circostanze, i principi di parità di trattamento e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non ostano al fatto di consentire all'operatore economico di regolarizzare la propria posizione e di adempiere tale obbligo entro un termine fissato dall'amministrazione aggiudicatrice”.

In motivazione la sentenza della Corte di Giustizia ha evidenziato che il principio di parità di trattamento impone che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione delle loro offerte e implica, quindi, che tali offerte siano soggette alle medesime condizioni per tutti gli offerenti. Dall'altro lato, prosegue la Corte di giustizia, l'obbligo di trasparenza ha come scopo quello di eliminare i rischi di favoritismo e di arbitrio da parte dell'Amministrazione aggiudicatrice. Tale obbligo implica che tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione siano formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, così da permettere, da un lato, a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l'esatta portata e d'interpretarle allo stesso modo e, dall'altro, all'amministrazione aggiudicatrice di essere in grado di verificare effettivamente se le offerte degli offerenti rispondano ai criteri che disciplinano l'appalto in questione.

Il TAR Puglia richiama anche quanto statuito dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 19/16 che ha aderito al citato orientamento del giudice sovranazionale, rimarcando che i principi di trasparenza e di parità di trattamento richiedono che le condizioni sostanziali e procedurali relative alla partecipazione ad un appalto siano chiaramente definite in anticipo e rese pubbliche, in particolare gli obblighi a carico degli offerenti, affinché questi ultimi possano conoscere esattamente i vincoli procedurali ed essere assicurati del fatto che gli stessi requisiti valgono per tutti i concorrenti.

Ciò anche sulla base dell'ulteriore considerazione che subordinare la partecipazione ad una procedura di aggiudicazione ad una condizione derivante dall'interpretazione del diritto nazionale (o dalla prassi di un'autorità) sarebbe particolarmente sfavorevole per gli offerenti stabiliti in altri Stati membri, il cui grado di conoscenza del diritto nazionale e della sua interpretazione può non essere comparabile a quello degli offerenti nazionali.

Tanto chiarito, reputa il Collegio che, in presenza di una lex specialis che nulla disponeva quanto all’automatismo espulsivo, disporlo in via diretta e immediata significherebbe porre ingiustificati ostacoli al principio di massima partecipazione alle gare, da sempre predicato dal giudice eurounitario.

 

(TAR Puglia Lecce, Sez. II, 22/1/2021, n. 113)


Articolo 54 d.P.R. 1092/1973 militari

Pensioni militari e art. 54. Arrivano le prime sentenze dopo le Sezioni Riunite. 

Sono in aArticolo 54 d.P.R. 1092/1973 militarirrivo le prime sentenze delle sezioni regionali della Corte dei Conti sul diritto al ricalcolo delle pensioni militari ai sensi del d.P.R. 1092/1973 subito dopo la pronuncia delle Sezioni Riunite 4 gennaio 2021, n. 1 e non mancano le sorprese.

Come noto, con la nota sentenza, le Sezioni Riunite della Corte dei Conti hanno fornito una nuova interpretazione dell’art. 54 del d.P.R. 1092/1973. Esse hanno stabilito la inapplicabilità dell’aliquota intera del 44% al 15esimo anno di servizio per coloro che sono andati in pensione con oltre venti anni di contributi. Sotto un altro aspetto, confermando l’errore nel calcolo delle pensioni adottato sino ad oggi dall’INPS, esse hanno individuato nel 2,44% il corretto coefficiente di ricalcolo. Sul punto abbiamo già pubblicato un approfondimento che invitiamo a consultare al seguente link.

A seguito della suddetta pronuncia sono dunque state depositate le prime sentenze a definizione dei giudizi pensionistici pendenti presso le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei Conti e si sono materializzate le prime contraddizioni.

Da una parte infatti la Corte dei Conti della Emilia Romagna, con sentenza del 25.1.2021 ha stabilito il diritto al ricalcolo del pensionato individuando nel 2,44% annuale la corretta aliquota applicabile, aderendo alla interpretazione delle Sezioni Riunite.

Dall’altra, la Corte dei Conti del Veneto, già nota per un orientamento giurisprudenziale piuttosto restrittivo, ha invece sostenuto che per potersi pronunciare sulla applicazione della aliquota del 2,44% necessita avviare un nuovo procedimento amministrativo ex art. 153 c.g.c.

Al riguardo, occorre fare alcune osservazioni circa la ragione della difformità delle suddette pronunce. Infatti, nessuno dei due Magistrati aditi ha dissentito dalla interpretazione fornita dalle Sezioni Riunite. Tuttavia il contrasto si è materializzato sulla possibilità di ottenere già nei giudizi pendenti aventi ad oggetto l’applicazione dell’art. 54 d.P.R. 1092/1973, il ricalcolo con applicazione del coefficiente del 2,44%.

Sul punto, giova evidenziare che a nostro avviso l’interpretazione più corretta è quella fornita dalla pronuncia della Corte dei Conti Emilia Romagna già richiamata.

Infatti, oggetto delle istanze avanzate nei riguardi dell’INPS e dei pedissequi giudizi pensionistici radicati è la domanda di accertamento del diritto al ricalcolo della pensione del militare a causa dell’erronea applicazione della disciplina vigente da parte dell’Ente previdenziale. Non vi è dubbio invero che, a prescindere dalla corretta individuazione della aliquota, la disciplina delle pensioni militari non può trovare fondamento nell’art. 44 d.P.R. 1092/1973 come sostenuto dall’INPS, ma è stabilita dal combinato disposto degli articoli 52 e 54 del medesimo decreto come sancito dalla più volte richiamata pronuncia delle Sezioni Riunite.

Ne consegue che la domanda di accertamento del diritto al ricalcolo sulla base della corretta normativa presuppone la successiva corretta individuazione della aliquota applicabile in funzione di tali norme (44% ovvero 2,44%) la quale dovrebbe essere stabilita dal Giudice adito.

Per tale ragione, pur ritenendo che l’art. 54 d.P.R. 1092/1973 possa ancora essere interpretato estensivamente con applicazione dell’aliquota del 44%, riteniamo la pronuncia della Corte dei Conti Emilia Romagna citata più conforme ai principi ispiratori del giudizio pensionistico in quanto idonea a garantire il  esonerando il pensionato già gravato da ingiuste decurtazioni della propria pensione da ulteriori aggravi procedimentali.

Avv. Rosamaria Berloco

Avv. Michele Trotta


Facciamo chiarezza sulla localizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi. La disciplina degli impianti di produzione di energia elettrica nucleare.

Facciamo chiarezza sulla localizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi. La disciplina degli impianti di produzione di energia elettrica nucleare.

Facciamo chiarezza sulla localizzazione del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi. La disciplina degli impianti di produzione di energia elettrica nucleare.Negli ultimi giorni la pubblicazione di Sogin S.p.A. dell’avviso concernente l’“avvio della procedura per la localizzazione, costruzione ed esercizio del Deposito Nazionale dei rifiuti radioattivi e Parco Tecnologico, ex D.lgs. n. 31/2010” ha suscitato non poche polemiche e indignazione tra l’opinione pubblica.

L’interrogativo che ci si è posti è quello relativo al motivo per il quale improvvisamente in Italia si è tornati a discutere di un tema, quello degli impianti di energia nucleare e dei rifiuti radioattivi e la loro localizzazione, che molti pensavano fosse ormai definitivamente archiviato e che ha sempre originato un vivace dibattito ideologico, sia a livello politico, sia a livello amministrativo.

Il tema, infatti, pone una riflessione congiunta su molteplici aspetti della vita quotidiana: lo sviluppo economico ed energetico del Paese, la difesa dell’ambiente, la tutela della salute e, non da ultimo, la pianificazione sociale delle generazioni future.

Certamente, il legislatore nazionale, nel rispetto degli accordi internazionali circa l’uso pacifico dell’energia nucleare, ha dovuto fronteggiare la questione energetica, specie all’indomani della dismissione degli impianti esistenti ma non più in uso e che costituiscono un problema non più differibile.

Nel frattempo, si è dovuto rimediare all’incapacità pregressa e individuare dei siti idonei ove poter costruire l’importante complesso impiantistico e poter correttamente gestire i rifiuti cd. radioattivi che rappresentano, certamente, un’ulteriore problema di non facile soluzione.

Sul piano legislativo, con il d.lgs. 31/2010, il legislatore nazionale ha introdotto una speciale disciplina per la localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare.

Si tratta di una disciplina, poi successivamente riformata, che attualmente prescrive un iter complesso per il rilascio dell’autorizzazione propedeutica alla costruzione ed esercizio dell’impianto che stabilisce:

  • il soggetto pubblico protagonista dell’iniziativa ed attuatore dell’investimento, Sogin, nonché le autorità preposte al controllo dell’operato svolto;
  • gli aspetti tecnici dell’investimento, distinguendo il Deposito nucleare dal Parco Tecnologico;
  • la procedura preliminare di individuazione dei siti potenzialmente idonei alla localizzazione dell’impianto;
  • la fase consultiva delle Autorità pubbliche (Ministeri, Regioni, Province, Comuni e popolazione) interessate all’investimento;
  • la fase informativa/divulgativa dei “vantaggi” del realizzando investimento, comprese le ricadute economiche nel territorio;
  • ed infine, la vera e propria fase di autorizzazione alla costruzione ed esercizio dell’impianto presso il sito prescelto.

La pubblicazione dell’avviso relativo all’avvio della procedura per la localizzazione, costruzione ed esercizio del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi e del Parco Tecnologico costituisce, quindi, il primo tassello verso la realizzazione dell’investimento infrastrutturale – energetico, un investimento certamente importante da un punto di vista economico ed ambientale.

Sul piano normativo, la pubblicazione della Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (CNAPI) rappresenta il primo step della procedura di autorizzazione prevista dal d.lgs. 31/2010 e segna l’avvio della localizzazione del sito che ospiterà l’impianto.

La Carta, in realtà, contiene l’elenco dei 67 luoghi potenzialmente idonei (che non sono tutti equivalenti tra di essi ma presentano differenti gradi di priorità a seconda delle caratteristiche) ad ospitare il Deposito Nazionale ed il Parco Tecnologico; con la pubblicazione si dà avvio alla fase di consultazione dei documenti, all’esito della quale si terrà, successivamente, il seminario nazionale per il dibattito pubblico vero e proprio.

Durante il dibattito è prevista la partecipazione di enti locali, associazioni di categoria, sindacati, università ed enti di ricerca, durante il quale saranno approfonditi tutti gli aspetti, inclusi i possibili “benefici” economici e di sviluppo territoriale connessi alla realizzazione delle opere.

L’iniziativa e la gestione è stata affidata ex lege alla società pubblica Sogin S.p.A., definita ai sensi dell’art. 26 quale “soggetto responsabile degli impianti a fine vita, del mantenimento in sicurezza degli stessi, nonché della realizzazione e dell’esercizio del Deposito Nazionale e del Parco Tecnologico”.

Le aree interessate dalla Carta sono il risultato di un complesso processo di selezione effettuato su scala nazionale svolto da Sogin in conformità ai criteri di localizzazione stabiliti dall’ISIN, ovvero l’ente preposto al controllo dell’operato svolto dalla società pubblica, che ha permesso di scartare le aree che non soddisfacevano determinati requisiti di sicurezza per la tutela dell’uomo e dell’ambiente.

A fronte di tale primo screening di aree potenzialmente idonee, la disciplina normativa prevede che i soggetti portatori di interessi qualificati possano formulare osservazioni e proposte tecniche: si tratta, in tal caso, dei cd. “enti esponenziali”, titolari di una posizione giuridica differenziata e portatori di interessi collettivi, rappresentativi del territorio secondo la classificazione operata dalla giurisprudenza amministrativa.

Visto l’attuale caos che caratterizza la questione, abbiamo realizzato un paper di approfondimento con il quale si vuol illustrare il quadro normativo vigente, ponendo l’attenzione, tra gli altri, sugli strumenti giuridici che possono consentire a chiunque sia titolare di un interesse legittimo di poter esprimere le proprie osservazioni relativamente all’attuale fase di individuazione delle aree potenzialmente idonee ad ospitare il complesso industriale.

Cliccando qui sarà possibile scaricare il Paper deposito nazionale rifiuti radioattivi

 


Legge regionale Puglia 13/2001, art. 23, comma 2: questione di legittimità costituzionale su efficacia riserve condizionata a costituzione cauzione.

Legge regionale Puglia 13/2001, art. 23, comma 2: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale su efficacia riserve condizionata a costituzione cauzione.

Legge regionale Puglia 13/2001, art. 23, comma 2: questione di legittimità costituzionale su efficacia riserve condizionata a costituzione cauzione. Con ordinanza 5 gennaio 2021, n. 25, la Corte di Cassazione ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità sull’efficacia delle riserve condizionata alla costituzione di una cauzione di cui all’articolo 23, comma 2, della legge regionale Puglia n. 13/2001 - da leggersi in combinato disposto con quanto statuito dall’articolo 27, comma 3 della legge medesima.

L’art. 23, comma 2, della predetta legge regionale Puglia afferma che “Qualora, a seguito dell’iscrizione delle riserve da parte dell’impresa sui documenti contabili, l’importo economico variasse in aumento rispetto all’importo contrattuale, l’impresa è tenuta alla costituzione di un deposito cauzionale a favore dell’amministrazione pari allo 0,5% dell’importo del maggior costo presunto, a garanzia dei maggiori oneri per l’amministrazione per il collaudo dell’opera. Tale deposito deve essere effettuato in valuta presso la tesoreria dell’ente o polizza fidejussoria assicurativa o bancaria con riportata la causale entro quindici giorni dall’apposizione delle riserve. Decorso tale termine senza il deposito delle somme suddette, l’impresa decade dal diritto di far valere, in qualunque termine e modo, le riserve iscritte sui documenti contabili. Da tale deposito verrà detratta la somma corrisposta al collaudatore e il saldo verrà restituito all’impresa in uno con il saldo dei lavori”.

L'art. 27, comma 3, prevede, invece, che “Le procedure in atto per le opere pubbliche in corso di esecuzione sono adeguate a quelle previste nella presente legge in tutti i casi in cui queste ultime non alterino i rapporti contrattuali in atto tra ente appaltante e impresa”.

Nei fatti, l’appaltatore, nelle more dell’esecuzione, apponeva riserve sui registri contabili, con le quali denunciava inadempimenti contrattuali in capo all’amministrazione - inadempimenti che avevano condotto a ritardi nell’esecuzione delle opere oggetto del contratto di appalto.

Dette riserve, tuttavia, non venivano prese in considerazione dall’amministrazione in quanto, medio tempore, era entrata in vigore la legge regionale Puglia n. 13/2001, il cui articolo 23, comma 2 – da leggersi in combinato disposto con il successivo articolo 27, comma 3 – sottoponeva l’apposizione di riserve ad una condizione, non soddisfatta nella specie (ossia l’obbligo di prestare cauzione entro 15 giorni dalla loro apposizione, pena la decadenza dall’apposizione delle medesime).

Nel giudizio d’appello, l’esecutore lamentava che tale disposizione costituisse una alterazione in suo danno dei rapporti contrattuali originariamente pattuiti – interveniva, infatti, sul quadro normativo, modificando le prescrizioni contenute nel contratto originariamente stipulato. Sennonché la Corte d’Appello rigettava tale interpretazione, limitandosi ad evidenziare – per quanto qui di interesse – che con il termine “alterazione” dovesse intendersi “una modifica delle originarie pattuizioni contrattuali e non anche una mera integrazione delle originarie pattuizioni”.

Per tale motivo, conclude il Collegio, trova luogo “la conseguente applicabilità dell’art. 23, comma secondo, della legge regionale Puglia 11 maggio 2001, n. 13, che prevedeva l’imposizione della cauzione, con conseguente decadenza dell’appellante dal diritto di iscrivere le riserve (…)”.

Giudizio in Cassazione

Il giudizio di legittimità ruota essenzialmente intorno all’interpretazione fornita dalla Corte di Appello – e censurata dall’esecutore - del disposto di cui all’articolo 23, comma 2 legge regionale Puglia n. 13/2001 - da leggersi, come detto, in combinato disposto con il successivo articolo 27, comma 3.

Premessa l’inammissibilità di una clausola con la quale si introducono nel contratto modificazioni in peius per una sola delle parti – ossia la previsione della decadenza dal diritto di iscrivere riserve in assenza della prestazione di cauzione nei 15 giorni successivi detta iscrizione (ciò in ragione dell’importanza delle riserve, elemento essenziale del contratto tanto che viene imposta la forma scritta) - il ricorrente lamenta che, ove l’amministrazione avesse voluto impiegare una simile clausola, non avrebbe dovuto imporre la cauzione.

La decisione della stazione appaltante interviene su un tema (quello delle riserve) che è espressione di una struttura privatistica del rapporto – e non di poteri d’imperio dell’amministrazione - sicché non può applicarsi, secondo il ricorrente, quanto previsto dall’art. 27, comma 3 - disposizione che fa specifico riferimento alle “procedure in atto” (e non ai rapporti di natura privatistica, quale quello in esame, che sono disciplinati dalla norma contrattuale del capitolato d’appalto).

Il fatto di trovarsi dinanzi ad una procedura amministrativa (e non di fronte ad una mera integrazione), conclude il ricorrente, comporterebbe la contrarietà dell’interpretazione fornita dalla Corte d’Appello non solo ai principi generali di legge - in quanto lo ius superveniens si estenderebbe, accogliendo tale interpretazione, a rapporti già costituiti ed efficaci sulla base di altre disposizioni - ma anche al principio di irretroattività della legge (art. 11 Preleggi) - per cui i contratti andranno interpretati ed eseguiti sulla base della legge vigente al momento della loro stipulazione.

I profili di incostituzionalità rilevati dalla Suprema Corte

Chiarito il quadro fattuale e normativo, è ora possibile esaminare la pronuncia resa dalla Suprema Corte.

Ad avviso della Cassazione, è pacifico che “la questione prospettata importi, innanzi tutto, la necessità di verificare la legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 2, della legge regionale Puglia 11 maggio 2001, n. 13, recante “Norme regionali in materia di opere e lavori pubblici”, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera l) della Costituzione, che stabilisce che lo Stato ha legislazione esclusiva nell’ambito dell’ordinamento civile”.

Invero, la Corte ritiene rilevante la questione di legittimità costituzionale della norma appena richiamata, atteso che il giudice di legittimità dovrà necessariamente servirsene al fine di risolvere la questione oggetto del giudizio e che la decadenza dall’iscrizione delle riserve è stata disposta in applicazione del succitato art. 23, comma 2.

Tale ultimo assunto è motivato dal fatto che l’art. 23 citato è applicabile, come vedremo a breve, al caso in esame, in ragione di quanto specificamente statuito sul punto dall’art. 27, comma 3 della legge regionale Puglia 13/2001 - disposizione, quest’ultima, secondo cui “Le procedure in atto per le opere pubbliche in corso di esecuzione sono adeguate a quelle previste nella presente legge in tutti i casi in cui queste ultime non alterino i rapporti contrattuali in atto tra ente appaltante e impresa”.

In dettaglio, ad avviso della Corte, la questione di costituzionalità non è manifestamente infondata in quanto:

a) i lavori pubblici rientrano “nell’ambito della potestà legislativa esclusiva statale o concorrente, ovvero ancora residuale delle regioni” (come affermato da Corte Costituzionale, 1.10.2003, n. 203);

b) non si configura né una materia riconducibile ai lavori pubblici nazionali né una che possa afferire ai lavori pubblici di interesse regionale: laddove, però, la competenza legislativa sia concorrente o residuale, l’attività legislativa delle Regioni sul punto deve comunque rispettare i principi fondamentali all’uopo ricavabili dal codice civile;

c) poiché, quindi, detta materia (quella degli appalti pubblici) è esercizio di amministrazione attiva e di cura degli interessi pubblici, è pertanto evidente che essa finirà per intrecciarsi, giocoforza, con materie attribuite in via esclusiva alla competenza statale – quali ad esempio l’ordinamento civile con riferimento all’esecuzione dei contratti.

Per tutti questi motivi, concludono i giudici di Piazza Cavour, “ai fini dell’inquadramento delle norme censurate in questa sede nell’ambito materiale del diritto civile indicato dall’art. 117, comma 2, lettera l), Costituzione, deve aversi riguardo al loro contenuto”.

La Corte – nel giungere finalmente al cuore della questione – statuisce che:

1) l’art. 23, comma 2, legge regionale Puglia 13/2001è una disposizione che contiene, quindi, profili concernenti l’ordinamento civile che è materia che ricomprende al suo interno la disciplina sulla stipulazione e l’esecuzione dei contratti” - contratti, questi ultimi, che, sebbene caratterizzati da elementi di palese derivazione pubblicistica, conservano in ogni caso la loro originale natura privatistica (e sono quindi, come già detto, disciplinati dalle norme contenute nel codice civile);

2) è pacifico che l’attività contrattuale della pubblica amministrazione ha struttura bifasica: “nella seconda fase, che ha inizio con la stipulazione del contratto, l’amministrazione si pone in una posizione di tendenziale parità con la controparte ed agisce non nell’esercizio di poteri amministrativi, bensì nell’esercizio della propria autonomia negoziale” (cfr. Corte Costituzionale, 23.10.2007, n. 401);

3) dalla sussistenza di un potere di autonomia negoziale – e non, come ci si aspetterebbe da un’amministrazione pubblica, un potere autoritativo – consegue che “la norma censurata, poiché disciplina aspetti afferenti a rapporti che presentano prevalentemente natura privatistica, pur essendo parte di essi una pubblica amministrazione, ed attengono alla fase di esecuzione del contratto, deve essere ascritto all’ambito materiale dell’ordinamento civile”.

Vale infine richiamare quanto affermato in merito dalla Corte Costituzionale, la quale in una recente pronuncia (sentenza del 9.7.2019, n. 166) statuiva che “Le disposizioni dello stesso codice che regolano gli aspetti privatistici della conclusione ed esecuzione del contratto sono invece riconducibili all’ordinamento civile; esse, poi, recano principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e norme fondamentali di riforma economico-sociale", sicché “è palese che una Regione, nell’esercizio della propria competenza residuale, non può derogare a tassative e ineludibili disposizioni riconducibili a competenze esclusive statali”.

Tanto sopra chiarito e argomentato, la Corte di Cassazione conclude che “la sussistenza di aspetti di specialità, rispetto a quanto previsto dal codice civile, nella disciplina della fase di stipulazione ed esecuzione dei contratti di appalto, non è di ostacolo al riconoscimento della legittimazione statale di cui all’art. 117, comma 3, lettera l), Cost.” - il cui, ovvio, corollario è che “Si tratta, in conclusione, di un ambito di competenza esclusiva dello Stato, poiché viene in rilievo l’esigenza (…) di assicurare (…) l’uniformità di trattamento su tutto il territorio nazionale, della disciplina della fase dell’esecuzione del contratto di appalto”.

(Corte cass., Sez. I, ord. 5.1.2021, n. 25)


Ricalcolo pensione militare

Pensioni militari e art. 54. Dalle Sezioni Riunite della Corte dei Conti ok al ricalcolo parziale. Il commento. 

La sentenza delle SRicalcolo pensione militareezioni Riunite della Corte dei Conti in merito all’applicazione alle pensioni militari dell’art. 54 d.P.R. 1092/1973 era attesa da tempo ed è stata depositata il 4 gennaio 2021. Con tale pronuncia le Sezioni Riunite hanno sancito il diritto al ricalcolo delle pensioni militari con sistema misto prevedendo l’applicazione dell’aliquota annua del 2,44% in luogo della più bassa aliquota del 2,2% sino ad oggi applicata dall’INPS.

Si tratta di una parziale vittoria per tutti coloro che in questi anni hanno adito il Giudice delle pensioni per vedersi riconosciuto il diritto al ricalcolo della pensione illegittimamente decurtata dall’INPS sulla base di una errata interpretazione della disciplina prevista dal d.P.R.1092/1973. Al fine di comprendere la reale portata applicativa dei principi di diritto sanciti dalla pronuncia in commento è utile ricostruire il ragionamento della Corte dei Conti alla luce della vicenda giudiziaria che ha coinvolto migliaia di pensionati.

La vicenda è nota e ha visto impegnati noi di Legal Team per il riconoscimento dei diritti dei militari in pensione rientranti nel sistema misto all’applicazione di un’aliquota di rendimento annua conforme ai dettati normativi previsti dal d.P.R. 1092/1973. Al riguardo, come correttamente ricostruito dalle Sezioni Riunite, si erano sviluppati diversi orientamenti di cui si richiamano i due principali.

Una prima interpretazione, sposata tradizionalmente dall’INPS, prevede che al militare che cessa dal servizio con più di 20 anni di servizio utile sia applicato in via analogica l’art. 44 d.P.R. 1092/1973 previsto per il personale civile dello Stato con una aliquota di rendimento annua del 2,33% per ogni anno di servizio sino al 15° anno e dell’1,8% dal 15° anno in poi. Secondo tale impostazione, in sostanza, la disposizione più favorevole prevista dall’art. 54 del medesimo decreto troverebbe applicazione solamente per coloro che sono cessati dal servizio entro il 20° anno di contribuzione e l’aliquota del 44% sarebbe riconosciuta solamente al compimento del 20° anno.

Un secondo orientamento prevede l’applicazione dell’aliquota del 44%, espressamente prevista dall’art. 54 d.P.R. 1092/1973, alla maturazione dei 15 anni di servizio a prescindere dal servizio maturato al momento del congedo. In tal senso, le anzianità inferiori al 15° anno sarebbero valorizzate al 2,33% l’anno per poi essere valutate al 44% in corrispondenza del 15° anno e restare ferme sino al 18° anno, a partire dal quale la pensione viene calcolata con il sistema contributivo. Tale interpretazione è stata suffragata da una giurisprudenza maggioritaria delle sezioni di merito anche a seguito dei numerosi ricorsi introdotti dal nostro studio.

A seguito dei suddetti contrasti giurisprudenziali sono quindi state investite le Sezioni Riunite della Corte dei Conti le quali hanno, con l'occasione, ridefinito il sistema di calcolo della quota retributiva dei pensionati militari rientranti nel sistema misto optando per una soluzione intermedia.

La sentenza si è soffermata anzitutto sulla portata applicativa dell’art. 54 d.P.R. 1092/1973 stabilendo che l’aliquota fissa del 44% tra il 15° e il 20° anno di contribuzione è subordinata alla maturazione, alla data di cessazione del servizio, “di una anzianità di servizio non inferiore a 15 anni e non superiore a 20 anni”. Sicché l'articolo suddetto non potrebbe trovare applicazione per coloro che siano cessati dal servizio con più di venti anni di contributi.

Essa ha tuttavia affermato la illegittimità del sistema di calcolo attuato dall’INPS chiarendo che non l’art. 44 d.P.R. 1092/1973 non può disciplinare le pensioni del personale militare in quanto espressamente rivolto ai dipendenti civili dello Stato.

Sulla base delle suddette premesse, la Corte dei Conti si è dunque soffermata sulla individuazione della corretta aliquota da applicare al personale militare in regime pensionistico di tipo misto, ricavando una regola unitaria atta a disciplinare la quota retributiva dei trattamenti di quiescenza del suddetto personale.

Al riguardo le Sezioni Riunite hanno osservato che il previgente sistema individuava nell’80% l’aliquota massima di rendimento raggiungibile al compimento dei 40 anni di anzianità e fissava a 20 anni lo spartiacque dell’intero sistema: al compimento del 20° anno veniva riconosciuto il 44% dei contributi (con una aliquota annuale del 2,2%) e nei successivi l’1,8%.

Secondo la Corte tale sistema, tuttavia, contrariamente a quanto sostenuto dall'INPS, è stato definitivamente superato dalla legge n. 335/1995, la quale fissa a 18 anni e non più a 20 anni il nuovo spartiacque. Sicché, conclude il Collegio, alla luce della riforma introdotta dalla citata legge, occorre applicare un correttivo prevedendo che il 44% di aliquota venga riconosciuto al compimento del numero di anni che la legge 335/1995 fissa per essere assoggettati al sistema misto: vale a dire 18 anni. Corollario ne è che l’aliquota annuale di rendimento è fissata al 2,44% ricavato dal rapporto 44/18.

In conclusione, la pronuncia delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti ha dunque sancito che, pur non trovando applicazione l’art. 54 d.P.R. 1092/1973 per coloro che siano cessati dal servizio con oltre venti anni di contributi, l’INPS dovrà in ogni caso provvedere al ricalcolo di tutte le pensioni militari rientranti con il sistema misto alle quali andrà applicata l’aliquota annua del 2,44% in luogo più bassa aliquota del 2,2% precedentemente adottata dall’Istituto.

SCOPRI QUI SE HAI DIRITTO e ti diremo gratuitamente se puoi aderire all’azione. 

questo link tutte le informazioni sul ricorso per il ricalcolo della pensione militare aliquota 44%.

Corte dei Conti, Sezioni Riunite, 4 gennaio 2021, n. 4


Formulario rifiuti, omessa o incompleta compilazione casella di competenza del destinatario: no a responsabilità del produttore.

Formulario rifiuti, omessa o incompleta compilazione casella di competenza del destinatario: no a responsabilità del produttore.

Formulario rifiuti, omessa o incompleta compilazione casella di competenza del destinatario: no a responsabilità del produttore.La Suprema Corte affronta, con una recente pronuncia, il tema della omessa o incompleta compilazione nei formulari rifiuti della casella di competenza del destinatario chiedendosi se sussiste o meno la responsabilità del produttore.

Un caso diverso rispetto a quelli in riferimento ai quali la Corte di Cassazione è intervenuta in passato e che riguardavano incompletezze dei formulari all'atto della partenza, quindi imputabili al produttore in quanto soggetto tenuto a redigere e sottoscrivere i documenti a quell'atto e quindi direttamente sanzionabile per dette incompletezze.

Vale ricordare infatti, a titolo esemplificativo, che:

  • sussiste la pari e diretta responsabilità del trasportatore, anch'egli obbligato a verificare i dati dei rifiuti in partenza e a redigere, pro parte, il formulario (Cass., n. 20862/2009 e Cass. 34031/2019, in relazione all’art. 193, d.lgs. 152/2006 sostanzialmente riproduttivo di quanto previsto nel decreto Ronchi – d.lgs. 22/1997);
  • l'omessa indicazione, imputabile al produttore del peso dei rifiuti poi verificato a destino - con conseguente elusione della normativa, che ha la funzione di consentire un esatto controllo sulla natura e sulla quantità dei rifiuti trasportati, cosi da garantire una completa tracciabilità di tale attività - non può intendersi supplita dall'avvenuta accettazione per intero del carico da parte del destinatario, inidonea al fine di ritenere comunque ricostruibile l'informazione omessa (Cass., n. 34038/2019).

In dettaglio, accadeva che i formulari di 169 trasporti di rifiuti speciali non pericolosi prodotti da una società mancavano dei dati obbligatori della casella 11, riservata al destinatario. A seguito di tale accertamento, la Provincia emetteva a carico della suddetta società produttrice e del relativo rappresentante legale una ordinanza di ingiunzione per il pagamento della sanzione prevista per concorso con il destinatario e con il trasportatore nell'illecito di cui all’art. 52, comma 3, del decreto Ronchi, applicabile ratione temporis.

L'impugnazione proposta avverso tale ordinanza di ingiunzione dalla produttrice respinta dal Tribunale di primo grado.

In secondo grado, l’appellante eccepiva, tra le altre, che nella sostanza era da applicarsi l’art. 52, comma 4, e non il comma 3, con conseguente riduzione della sanzione giacché le indicazioni erano formalmente incomplete o inesatte ma i dati riportati nella comunicazione al catasto, nei registri di carico e scarico, nei formulari di identificazione dei rifiuti trasportati e nelle altre scritture contabili tenute in base a legge consentivano di ricostruire le informazioni dovute.

Eccezione che veniva accolta dalla Corte di Appello.

La questione finisce in Cassazione su iniziativa della Città Metropolitana (già Provincia) e, in via incidentale, della società produttrice.

Ad avviso della Corte, tra le questioni pregiudiziali poste in ricorso incidentale - pregiudiziali rispetto a quelle sollevate con il ricorso principale - fondata e assorbente è quella relativa alla dedotta insussistenza dei presupposti del concorso nella consumazione dell'illecito di indicazione di dati incompleti nei 169 formulari, commesso dalla società destinataria dei rifiuti, omettendo di compilare la casella 11 dei formulari.

La Corte di Appello ha aderito, erroneamente ad avviso della Suprema Corte, alla tesi sostenuta dalla Provincia affermando che la relativa sanzione “può essere comminata anche al produttore che, come nel caso, abbia conferito incarico al vettore in caso di trasporto con uso di formulario contenente dati incompleti”.

Ai sensi dell’art. 15 del d.lgs. 22/1997: “1.Durante il trasporto i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione dal quale devono risultare, in particolare, i seguenti dati: a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore; b) origine, tipologia e quantità del rifiuto; c) impianto di destinazione; d) data e percorso dell'istradamento; e) nome ed indirizzo del destinatario.

  1. Il formulario di identificazione di cui al comma 1 deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal detentore dei rifiuti, e controfirmato dal trasportatore. Una copia del formulario deve rimanere presso il detentore e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore il quale provvede a trasmetterne una al detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni (...)
  2. Il modello uniforme di formulario di identificazione di cui al comma 1 è adottato entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto”.

Il modello è stato adottato con decreto del ministero dell'ambiente n. 145/1988 ed è riportato nell'allegato B dello stesso decreto.

Il modello si articola in cinque sezioni contenenti 11 caselle.

Le caselle da uno a dieci, che compongono le prime quattro sezioni, devono essere compilate dal produttore o detentore dei rifiuti e dal vettore e recano le indicazioni identificative del produttore o detentore dei rifiuti, i dati relativi ai rifiuti, le indicazioni concernenti il vettore, nonché (casella 10) il nome del conducente del mezzo di trasporto, i dati identificativi del mezzo, la data e l'ora di partenza.

La casella 9 contiene la firma del produttore o del detentore e quella del vettoreper l'assunzione della responsabilità delle informazioni riportate nel formulario”.

La sezione quinta, con la casella 11, è riservata al destinatario ed è da lui sottoscritta.

Il destinatario vi deve indicare se il carico di rifiuti è stato accettato o respinto e, nel primo caso, la quantità di rifiuti ricevuta, nonché la data e l'ora del ricevimento.

L'art. 52, comma 3, del predetto decreto Ronchi stabilisce che “Chiunque effettua il trasporto di rifiuti senza il prescritto formulario di cui all'art. 15 ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire tre milioni a lire diciotto milioni” mentre il comma 4 prevede che “se le indicazioni di cui ai commi 2 e 3 sono formalmente incomplete o inesatte ma contengano tutti gli elementi indispensabili per ricostruire le informazioni dovute per legge si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da lire cinquecentomila a lire tremilioni”.

L'art. 52 prevede dunque due ipotesi di illecito.

La prima è quella di effettuazione di trasporto di rifiuti senza il prescritto formulario, la seconda è quella di indicazione nel formulario di dati incompleti o inesatti.

L'affermazione della Corte di Appello pare riferita alla prima ipotesi che però non è quella a cui è riferita la contestazione effettuata dalla Provincia a carico della società produttrice.

Di certo l'affermazione non è logicamente riferibile alla seconda ipotesi e non vale a giustificarne l'avvenuta contestazione. L'incompletezza relativa alla casella 11 è imputabile al destinatario dei rifiuti posto che quella casella è espressamente riservata al destinatario e deve essere da lui compilata al termine del trasporto (il produttore dei rifiuti dovendo redigere le caselle da uno a dieci del formulario ed essendo responsabile, in prima persona, solo della completezza di queste caselle).

Quanto al concorso di persone, l'applicazione della sanzione si estende dall'autore dell'infrazione a coloro che abbiano comunque dato un contributo causale, pure se esclusivamente sul piano psichico, alla realizzazione della infrazione (Cass. n. 13134/2015).

Nel caso in esame, non essendo stato contestato dalla Provincia alla società produttrice il concorso psichico nella condotta omissiva consumata dalla destinataria al momento della ricezione dei carichi (ed essendo non prospettabile, prima ancora che non contestato, il concorso materiale in un'omissione commessa dalla destinataria all'arrivo dei carichi, in luogo diverso e in tempo successivo rispetto a quelli in cui ha operato la società produttrice, alla partenza dei carichi, l'applicazione della sanzione non è giustificata e si porrebbe inoltre in contrasto con il principio per cui “in tema di illeciti amministrativi, posto che è configurabile un apporto esterno alla consumazione dell'illecito anche mediante azioni od omissioni, che, pur senza integrare la condotta tipica di esso, ne rendano possibile o ne agevolino la consumazione, la condotta omissiva può assumere rilevanza quale elemento concorrente nell'illecito altrui solo nel caso in cui si ponga in violazione di uno specifico obbligo di garanzia” (Cass., Sez. II, n. 28929/2011).

Conclude al Corte affermando il principio secondo cui l'omessa o incompleta compilazione dei formulari di accompagnamento di cui al decreto Ronchi - ed oggi all'analogo art. 139, d.lgs. 152/2006 - e al d.M. 145/1998, per la parte relativa alla casella di competenza del destinatario, non dà luogo a responsabilità del produttore ai sensi dell’art. 52 del decreto Ronchi - ed oggi art. 258, d.lgs. 152/2006 - salva l'eventualità di suo specifico concorso.

(Cass. civ., Sez. Trib. 15/12/2020, n. 28569)


Gli appalti di lavori di bonifica di ex discariche: la gestione dei rifiuti, il trasporto a discarica come subappalto e la sottoscrizione della proposta migliorativa.

Appalti di lavori di bonifica di ex discariche: la gestione dei rifiuti, il trasporto a discarica come subappalto e la sottoscrizione della proposta migliorativa.

Gli appalti di lavori di bonifica di ex discariche: la gestione dei rifiuti, il trasporto a discarica come subappalto e la sottoscrizione della proposta migliorativa.Il Consiglio di Stato affronta alcuni aspetti, i quali assumono una portata di carattere generale nell’ambito della disciplina ambientale, che nella specie rilevano negli affidamenti di appalti pubblici aventi ad oggetto i lavori di bonifica e di messa in sicurezza di ex discariche di rifiuti solidi urbani, chiedendosi in primis se il trasporto a discarica rappresenti un subappalto.

Il caso sottoposto all’esame del Consiglio di Stato verte, in particolare, sull’aggiudicazione dell’appalto di lavori effettuato dalla stazione appaltante in favore di un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI), affidamento che, secondo la tesi esposta dall’operatore secondo classificato, sarebbe illegittimo per plurime violazioni di legge.

Il Giudice di primo grado, accogliendo il ricorso principale proposto dal secondo graduato, disponeva l’annullamento dell’aggiudicazione sul rilievo della mancata sottoscrizione dell’offerta tecnica migliorativa da parte di tecnico abilitato.

Avverso tale pronuncia, il RTI proponeva appello, invocando l’integrale riforma della sentenza.

Ritenendolo infondato, il Consiglio di Stato rigetta il gravame, confermando la validità della statuizione di primo grado con argomentazioni puntuali sotto il profilo logico e giuridico.

Il trasporto a discarica come subappalto

Il primo aspetto affrontato dal Giudice amministrativo di secondo grado riguarda la presunta violazione della legge di gara commessa, secondo la prospettazione del RTI appellante, dall’operatore secondo classificato, a suo dire erroneamente non escluso dalla stazione appaltante stante la mancata indicazione del subappalto ex art. 105 codice dei contratti pubblici per l’attività di trasporto dei rifiuti.

In particolare, l’impresa seconda classificata avrebbe dovuto essere esclusa dalla competizione per non aver dichiarato il ricorso al subappalto per quanto concerne il trasporto dei rifiuti in discarica: secondo la tesi dell’appellante “la designazione di un’altra impresa per tale attività costituirebbe un subappalto non dichiarato di una categoria prevalente (OG 12) e tale mancanza non sarebbe suscettibile di soccorso istruttorio”.

Il Consiglio di Stato ritiene l’assunto palesemente infondato ed evidenzia che l’impresa era comunque in possesso del requisito di iscrizione all’Albo Nazionale Gestori Ambientali, nonché dell’autorizzazione specifica per gli automezzi adibiti al trasporto dei rifiuti; in quanto tale, essa era quindi idonea allo svolgimento in proprio del servizio di trasporto in discarica del materiale di risulta.

Il ragionamento deduttivo operato dal Giudice amministrativo muove dalla seguente considerazione: “La designazione di altra impresa per il trasporto dei rifiuti (…) non rientrava (…) nella previsione del Disciplinare di cui parte appellante invoca l’applicazione: detta previsione, come si evince dal suo tenore testuale, richiedeva la preventiva dichiarazione, a pena di esclusione, soltanto per il diverso caso di subappalto necessario, per l’ipotesi in cui l’operatore economico intendesse subappaltare lavori/servizi appartenenti alle categorie a qualificazione obbligatoria (OG12) per le quali non fosse stato autonomamente in possesso della corrispondente qualificazione”.

Condividendo le argomentazioni del TAR, il Consiglio di Stato giunge a precisare che “l’appalto in parola ha ad oggetto esclusivamente lavori e che, di conseguenza, l’affidamento a soggetti terzi del servizio di trasporto a discarica, non attenendo alle prestazioni oggetto di gara, non integrava affatto un subappalto”.

Secondo il Collegio, la questione non era da ricondursi ad un’ipotesi di subappalto, semmai alla diversa fattispecie del cd. subcontratto: “il conferimento in discarica non configurava, infatti, un segmento delle prestazioni oggetto del contratto, ma un servizio collaterale prestato dal terzo in una fase ormai finale delle opere di cui all’appalto (…) l’affidamento a terzi veniva dunque a configurare un’ipotesi di subcontratto, dal quale sorgeva unicamente l’obbligo di comunicazione alla Stazione appaltante ai sensi dell’art. 105, comma 2, del D.lgs. n. 50/2016, in base al quale <<L’affidatario comunica alla stazione appaltante, prima dell’inizio della prestazione, per tutti i sub-contratti che non sono sub-appalti, stipulati per l’esecuzione dell’appalto, il nome del sub-contraente, l’importo del sub-contratto, l’oggetto del lavoro, servizio o fornitura affidati>>”.

La sottoscrizione dell’offerta tecnica migliorativa da parte di tecnico abilitato

Un altro aspetto certamente meritevole di attenzione esaminato dal Consiglio di Stato riguarda la possibilità che l’offerta migliorativa di un appalto di opere pubbliche avente ad oggetto lavori di realizzazione e bonifica di discarica comunale potesse essere sottoscritta da un architetto redattore: l’ipotesi è espressamente esclusa dal Giudice poiché, trattandosi di interventi di tipo impiantistico o di bonifica, dette proposte migliorative sono da ricondursi “nella competenza esclusiva di un ingegnere abilitato, e non possono rientrare anche nella competenza di un architetto abilitato, secondo quanto stabilito dal R. D, 23 ottobre 1925, n. 2537 Regolamento per le professioni di ingegnere ed architetto”.

(Cons. St., Sez. V, 15/12/2020, n. 8027)


Decreto semplificazioni: rileva la determina a contrarre ai fini dell’applicabilità. Un contrasto annunciato.

Decreto semplificazioni: rileva la determina a contrarre ai fini dell’applicabilità. Un contrasto annunciato.

Decreto semplificazioni: rileva la determina a contrarre ai fini dell’applicabilità. Un contrasto annunciato. Poche settimane fa abbiamo commentato sul nostro sito la sentenza del TAR Umbria del 4.12.2020, n. 559 secondo la quale, tradotto in soldoni, non rileva ai fini della applicabilità del decreto Semplificazioni la determina a contrarre (clicca qui per leggere la notizia).

Poche settimane dopo (22.12.2020), il TAR Campania, chiamato a pronunciarsi sulla illegittimità di un provvedimento di esclusione, motivato dalla presentazione della cauzione in misura inferiore a quanto richiesto dalla stazione appaltante e dalla mancata tempestiva risposta alla richiesta di chiarimenti all’esito di soccorso istruttorio, torna sull'applicabilità del decreto semplificazioni andando in contrasto con la pronuncia di poco precedente del TAR perugino.

Nella specie, l'impresa esclusa ha sostenuto che, in base alla nuova disciplina introdotta dal d.l. 70/2016 (decreto Semplificazioni), per concorrere in gare per appalti sotto soglia non è più richiesta la cauzione, a meno che essa non venga motivatamente ed espressamente richiesta nella lettera di invito, la quale però, nel caso in esame, non conterrebbe tale previsione.

Ad avviso del Collegio campano, tali assunti non possono essere condivisi in quanto la norma richiamata non è ratione temporis applicabile nel caso in esame.

Infatti, l’art. 1, comma 4, d.l. 76/2020 (decreto Semplificazioni), quale risultante dalla conversione con legge n. 120/2020, così dispone: «Per le modalità di affidamento di cui al presente articolo la stazione appaltante non richiede le garanzie provvisorie di cui all'articolo 93 del decreto legislativo n. 50 del 2016, salvo che, in considerazione della tipologia e specificità della singola procedura, ricorrano particolari esigenze che ne giustifichino la richiesta, che la stazione appaltante indica nell'avviso di indizione della gara o in altro atto equivalente. Nel caso in cui sia richiesta la garanzia provvisoria, il relativo ammontare è dimezzato rispetto a quello previsto dal medesimo articolo 93».

La norma, entrata in vigore il 17.7.2020, non è temporalmente applicabile alla fattispecie in esame, in cui la determina a contrarre è stata emessa nel gennaio 2020; peraltro, l’applicabilità di tale disciplina era stata espressamente esclusa dalla stazione appaltante con una comunicazione sul portale Me.Pa., a seguito della richiesta di chiarimenti di uno dei concorrenti. Ne consegue che nel caso in esame la cauzione è dovuta nell’integrale importo.

Quanto statuito dal TAR Campania, a differenza della pronuncia del TAR Umbria, appare certamente in linea, come anticipato qui, con quanto affermato dall'ANAC con Delibera n. 840 del 21.10.2020: “In materia di contratti pubblici sotto soglia, la previsione di carattere temporaneo di cui all’art. 1, comma 3, del D.L. n. 76/2020 (convertito con modificazioni con la L. n. 120/2020), che ha esteso l’applicabilità del meccanismo di esclusione automatica delle offerte anomale in presenza di cinque offerenti (in luogo di dieci, di cui all’art. 97, comma 8, del D.Lgs. n. 50/2016), si applica agli affidamenti diretti e/o alle procedure negoziate (di cui all’art. 1, comma 2, del cit. D.L.) la cui determina a contrarre o atto equivalente è stata adottata dal 17 luglio 2020 al 31 dicembre 2021. Tale disposizione non trova, invece, applicazione nelle procedure di gara pendenti alla data di entrata in vigore del Decreto“.

(TAR Campania Salerno, 22/12/2020, n. 2015)


Con quali modalità va comunicata la richiesta di soccorso istruttorio pec o non pec

Con quali modalità va comunicata la richiesta di soccorso istruttorio: pec o non pec?

Con quali modalità va comunicata la richiesta di soccorso istruttorio pec o non pecParte della recente giurisprudenza ha rilevato che non sussiste, in capo alla stazione appaltante, un obbligo di comunicare la richiesta di soccorso istruttorio a mezzo pec né tale obbligo è previsto dai principi regolatori della materia, in quanto i partecipanti ad una gara d’appalto pubblico sono operatori professionali per i quali la gestione di una gara a mezzo di una piattaforma dedicata è mezzo adeguato.

Tuttavia, le modalità di comunicazione della richiesta di integrazione documentale sembrano essere ancora oggi oggetto di dibattito giurisprudenziale.

Nel caso sottoposto al TAR Lazio, un concorrente veniva escluso dalla procedura perché non aveva riscontrato la richiesta di soccorso istruttorio, formulata dalla stazione appaltante,  entro il termine perentorio di 10 giorni assegnato a pena di esclusione ai sensi dell’articolo 83, comma 9, d.lgs. 50/2016. La richiesta di soccorso non era stata inviata all’indirizzo pec del concorrente, ma “caricata” nella c.d. “Area Comunicazioni” della piattaforma telematica della gara; la stazione appaltante ha poi inviato una mail ordinaria (c.d. di cortesia) all’indirizzo di posta elettronica ordinaria del concorrente, indicato nella domanda di partecipazione alla gara, con cui questi veniva informato della presenza della predetta richiesta nella c.d. “Area Comunicazioni”.

La società impugna così innanzi al TAR (pende appello innanzi al Consiglio di Stato) il provvedimento di esclusione sostenendo, in particolare, che la richiesta di soccorso istruttorio non era stata accompagnata da una comunicazione idonea ad attribuire conoscenza o conoscibilità alla medesima richiesta quale la pec come si prevede per l’esclusione. Evidenziava, inoltre, di non avere avuto contezza della richiesta di soccorso istruttorio poiché non avrebbe né visionato in tempo utile la c.d. “Area Comunicazioni”, né ricevuto in tempo utile la mail ordinaria con la quale la stazione appaltante la informava del caricamento del documento contenente la richiesta di soccorso istruttorio nella c.d. “Area Comunicazioni” dal momento che la mail ordinaria sarebbe stata archiviata in via automatica dal gestore della propria casella postale nella c.d. cartella “posta indesiderata”.

A seguito di ordinanza resa in giudizio, il Collegio acquisiva dalla stazione appaltante, al fine del decidere, una relazione, accompagnata dalla documentazione pertinente, attraverso cui venivano chiariti:

1) le modalità di trasmissione al concorrente della richiesta di soccorso istruttorio tramite la piattaforma telematica impiegata;

2) in che modo è avvenuta l’individuazione e la scelta della casella di posta elettronica ordinaria del concorrente dove è stata trasmessa la mail ordinaria volta a notiziarlo dell’avvenuta trasmissione della richiesta di soccorso istruttorio tramite la piattaforma telematica;

3) la prova dell’invio della mail, avente ad oggetto la richiesta di soccorso istruttorio, alla casella di posta elettronica ordinaria del concorrente, con annesse ricevute telematiche di ricezione, o di consegna, oppure di lettura, della mail da parte del destinatario.

All’esito della disamina di quanto sopra, il TAR accoglie il motivo di ricorso, con conseguente annullamento del provvedimento di esclusione, in relazione alla doglianza secondo cui le “modalità comunicative” della richiesta di soccorso, rappresentate dal caricamento della nota nell’”Area Comunicazioni” e nell’invio della mail ordinaria, costituiscono entrambe una modalità che non garantisce alcuna certezza in ordine al fatto che il concorrente ne abbia effettivamente e tempestivamente preso visione, in funzione del riscontro da fornire ex lege nel termine perentorio di dieci giorni. Quindi tali modalità si sono rivelate inidonee alla legale conoscenza della richiesta istruttoria avuto riguardo alle conseguenze escludenti che discendono automaticamente dalla mancata evasione, nel termine prescritto dalla legge, della richiesta di regolarizzazione per cui è controversia.

Ad avviso del Collegio, è vero che il Codice degli appalti non predetermina una specifica forma telematica di comunicazione della richiesta di soccorso istruttorio, a differenza di quanto prevede per il provvedimento di esclusione dalla gara (da comunicarsi tramite pec). Ma non è altrettanto vero che l’assenza di una forma espressa di comunicazione dell’atto contenente la richiesta di soccorso istruttorio non significa che per esso possa predicarsi una qualunque forma di comunicazione.

Spetterà alla stazione appaltante, nell’esercizio della propria discrezionalità amministrativa, scegliere la forma telematica più idonea di comunicazione, in relazione alla tipologia o al contenuto del provvedimento da comunicare, nel rispetto pur sempre dei principi imperativi posti dall’ordinamento a tutela del destinatario che si pongono quali limiti esterni all’esercizio della stessa discrezionalità.

Nel caso di specie, la legge di gara non ha previsto una specifica forma di comunicazione per la richiesta di soccorso istruttorio. Difatti, sebbene il bando di gara stabiliva che “le eventuali richieste di chiarimenti, documenti, certificazioni, dovranno di regola essere effettuate utilizzando il Sistema ovvero l’Area Comunicazioni”, non può ritenersi che tra le “richiese di chiarimenti” ivi contemplate rientri anche quella relativa al soccorso istruttorio.

Nel silenzio del legislatore e nel vuoto della legge di gara, spetta all’interprete individuare quale debba essere la forma di comunicazione della richiesta di soccorso istruttorio rispettosa dei principi imperativi posti dall’ordinamento a tutela del destinatario.

La giurisprudenza sul tema si è schierata su due filoni contrapposti, evidenziando da un lato la necessità di comunicare via pec la richiesta di soccorso istruttorio e dall’altro lato ritenendo tale forma di comunicazione non necessaria.

L’orientamento favorevole alla necessità che la richiesta di soccorso debba essere trasmessa mediante pec pone l’accento sulla “potenzialità lesiva” dell’atto che giustificherebbe l’applicazione analogica della disciplina prevista dall’articolo 76, comma 6, d.lgs. 50/2016, per il provvedimento di esclusione.

Un diverso orientamento ritiene invece che, in mancanza di una disposizione espressa e avendo la richiesta di soccorso “capacità lesiva ipotetica e meramente potenziale”, essa non rientra nel novero degli atti lesivi per i quali si prevede la comunicazione mediante pec come appunto avviene per l’esclusione dalla gara[3].

La questione dunque non ha ancora trovato una soluzione univoca in giurisprudenza.

Il Collegio è dell’avviso che la forma di comunicazione della richiesta di soccorso istruttorio vadano individuate sulla base della natura e del regime giuridico dell’atto oggetto di comunicazione.

Alla luce dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’azione amministrativa, dei principi di trasparenza, di parità di trattamento e di proporzionalità nell’affidamento dei contratti pubblici e dei principi di collaborazione e di buona fede nei rapporti con l’amministrazione (in particolare oggi con la codificazione del dovere di reciproca collaborazione tra le parti ad opera del decreto Semplificazioni – d.l. 76/2020 convertito in l. 120/2020), la richiesta di soccorso istruttorio deve essere comunicata con forme telematiche tali da garantire con ragionevole certezza che la comunicazione sia giunta presso il domicilio elettronico del destinatario in modo da poter desumere che questi possa averne avuto contezza, salvo fornire idonea prova contraria.

In caso di infruttuoso decorso del termine di dieci giorni, l’esclusione ha un contenuto vincolato in quanto l’effetto espulsivo è collegato direttamente all’infruttuoso decorso del termine assegnato dalla stazione appaltante in favore del concorrente per sovvertire la valutazione preliminare negativa sui requisiti di partecipazione.

Il soccorso istruttorio ha quindi tra i sui possibili, ma concreti, esiti quello dell’esclusione dalla gara che si attualizza a causa del mancato compimento di un’attività di cui è onerato il destinatario che, pur essendo stato messo in grado di provvedervi, non lo ha fatto.

Ciò comporta che il destinatario della richiesta di soccorso (atto unilaterale intrusivo sfavorevole) per poter beneficiare, o meno, degli effetti che da esso derivano deve necessariamente essere messo in grado di conoscere la presenza di una richiesta di soccorso istruttorio (quale contenitore e non quale contenuto) e, quindi, specularmente per attivare il maccanismo messo a punto nella norma, occorre avere contezza che la richiesta sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario.

Nel caso sottoposto al TAR, è emerso che la presenza della richiesta di soccorso istruttorio nella c.d. “Area Comunicazioni”, è stata comunicata dalla stazione appaltante tramite l’invio di una email all’indirizzo di posta elettronica ordinaria indicato nel DGUE del concorrente.

La email ordinaria tuttavia non è stata consegnata nella cartella della “posta in arrivo” del destinatario in quanto il sistema di gestione della mail l’ha archiviata nella cartella spam del concorrente, come dimostrato in giudizio.

L’episodio della cattura della mail nella cartella c.d. spam del destinatario si sarebbe potuto facilmente scongiurare ove la comunicazione fosse stata accompagnata da forme idonee a garantire che la stessa giungesse nella cartella della “posta in arrivo” del destinatario.

Sarebbe bastato prevedere ad esempio l’invio di una comunicazione elettronica (nella forma prescelta dalla stazione appaltante) accompagnata dalla trasmissione di una ricevuta di ricezione o di lettura che avrebbe consentito al sistema di gestione della mail di non riconoscere la comunicazione come posta indesiderata; in questo modo sarebbe stata ragionevolmente garantita la conoscibilità, da parte del destinatario, della presenza della richiesta di soccorso istruttorio nella c.d. “Area Comunicazioni”.

(TAR Lazio Roma, Sez. II, 16/10/2020, n. 10550)


White list e appalto pubblico è necessaria l’iscrizione in una specifica sezione

White list e appalto pubblico: è necessaria l’iscrizione in una specifica sezione?

White list e appalto pubblico è necessaria l’iscrizione in una specifica sezioneÈ sufficiente, ai fini della partecipazione ad una gara di appalto pubblico, l’iscrizione nella white list o si rende necessaria la tassativa appartenenza ad una specifica sezione della stessa? La pronuncia in commento affronta l’argomento e cerca di fornire risposta al quesito così formulato.

Una Stazione Appaltante indiceva una gara di appalto, da espletarsi in forma telematica, con la quale intendeva procedere all’affidamento, suddiviso in quattro lotti, del servizio di raccolta differenziata, trasporto e conferimento di indumenti ed accessori di abbigliamento per una durata di 24 mesi.

Accadeva però che una delle partecipanti – ritenendo illegittima l’aggiudicazione così disposta – proponeva ricorso innanzi al TAR, eccependo la violazione dell’articolo 80 Codice nonché la violazione dell’articolo 1 commi 52, 53 e 54 della Legge 190/2012 (c.d. Codice antimafia).

Nello specifico, la ricorrente sosteneva l’illegittimità dell’aggiudicazione in ragione del fatto che l’aggiudicataria andava esclusa dalla gara in quanto non in possesso, come richiesto dal disciplinare, dell’iscrizione nella sezione seconda della White list – articolo 1 comma 53 lettera b (“Trasporto, anche transfrontaliero, e smaltimento di rifiuti per conto di terzi”) – risultando invece iscritta nella sezione ottava della stessa  - lettera h) del medesimo comma (“Autotrasporto per conto di terzi”).

La ricorrente lamentava, altresì, l’illegittimità dell’aggiudicazione per violazione dell’articolo 80 Codice: l’aggiudicataria avrebbe consapevolmente fornito una falsa rappresentazione della realtà nel momento in cui indicava, nella documentazione di gara, di essere iscritta nella sezione seconda della White list laddove invece essa era iscritta nella sezione ottava della stessa.

Le argomentazioni proposte dalla ricorrente, tuttavia, non convincono il Collegio, che rigetta il ricorso, precisando che:

- le White List (articolo 1 comma 52 L. 190/2012) consistono in elenchi, istituiti presso ogni Prefettura, di fornitori e prestatori di servizi, non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa e operanti nei settori indicati dal comma 53 della medesima disposizione, che i diversi soggetti pubblici che stipulano, approvano o autorizzano contratti devono consultare per acquisire la comunicazione e l’informazione antimafia liberatoria;

- l’iscrizione nella White List (articolo 1 comma 52 bis) ha valenza liberatoria a prescindere dalla specifica sezione in cui l’impresa risulti iscritta: l’iscrizione alla White List implica, per chi si iscrive, che questi abbia positivamente superato il sistema organico dei controlli (il che rende irrilevante la sezione in cui l’operatore economico risulti iscritto);

- il disciplinare di gara, nel caso che occupa, non prevede l’obbligo di iscrizione in una specifica sezione della White list ma fa riferimento, in maniera del tutto generica, alle attività di trasporto di rifiuti – espressione atecnica che non coincide con quanto stabilito nell’elenco inserito nel comma 53 citato; ciò è ulteriormente provato dall’esame del fac-simile della domanda, da cui emerge come, ai fini della partecipazione, non era prescritto l’obbligo di iscrizione in una sezione specifica della Lista, in quanto la mera iscrizione era elemento sufficiente ad integrare il requisito richiesto;

- non è condivisibile l’assunto per il quale l’aggiudicataria avrebbe violato il disposto di cui all’articolo 80 Codice, in quanto una dichiarazione è da ritenersi falsa ai sensi della citata disposizione nel solo caso in cui la dichiarazione sia rivolta a fornire, in maniera consapevole, una descrizione non rispondente al vero della situazione rappresentata.

Conclude, quindi, il Collegio che “l’aggiudicazione non può ritenersi viziata per violazione del Bando di gara e delle norme della Legge n. 190/2012, in quanto l’esame complessivo dei documenti di gara redatti dalla stessa stazione appaltante conduce ad escludere la necessità della iscrizione in una specifica sezione della White List”.

E ancora: “non è affatto plausibile che l’aggiudicataria abbia intenzionalmente reso una dichiarazione non veritiera, posto che una simile valutazione deve essere necessariamente parametrata con il contenuto dell’obbligo dichiarativo sulla medesima incombente”.

(TAR Lazio Roma, Sez. II ter, 9/11/2020, n. 11587)