Concessioni demaniali: la Plenaria mette fine alle proroghe?”

Concessioni demaniali e procedure ad evidenza pubblica. Proroga sì, proroga no: la palla alla Plenaria.

Concessioni demaniali e procedure ad evidenza pubblica. Proroga sì, proroga no la palla alla PlenariaNegli ultimi mesi diversi TAR sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dell’operato di amministrazioni che, con argomentazioni discordanti, hanno ammesso o rigettato la possibilità – prevista dalla legge italiana, va detto – di una proroga automatica delle concessioni demaniali in luogo di una procedura ad evidenza pubblica.

Il legislatore, infatti, ha previsto – articolo 1 commi 682 e 683 legge 30 dicembre 2018 n. 145 – la proroga in via automatica, al 2033, di quelle concessioni demaniali vigenti al 1° gennaio 2019 – data di entrata in vigore del citato testo normativo: ciò in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 12 della direttiva 2006/123/UE, secondo cui le concessioni devono essere assegnate a seguito di apposita procedura ad evidenza pubblica.

Numerose le pronunce del giudice amministrativo sul tema.

Il TAR Lecce, ad esempio, ha negato la possibilità di disapplicare la norma nazionale: secondo il Collegio (Sez. I, 15.1.2021, n. 73) l’articolo 12 della Direttiva Servizi non sarebbe direttamente esecutivo nell’ordinamento nazionale, con conseguente prevalenza del diritto italiano. Saranno, pertanto, illegittimi tutti quei provvedimenti che neghino la proroga ex lege, sino al 2033, delle concessioni demaniali.

A conclusioni radicalmente opposte è giunto invece il TAR Catania (Sez. III, 15.2.2021, n. 504).

Il Collegio – richiamando quanto sancito dalla CGUE (Sez. V, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15) – ha affermato che l’articolo 12 della Direttiva Servizi non consente la proroga automatica delle concessioni demaniali in assenza di una procedura selettiva. Ammettere una simile possibilità, infatti, farebbe sorgere una disparità di trattamento tra gli operatori economici con conseguente violazione dei principi comunitari di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza.

Gli argomenti appena richiamati sono stati accolti anche dal TAR Toscana (Sez. II, 8.3.2021, n. 363) il quale – richiamando quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 10 del 29 gennaio 2021), con cui è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma regionale che prevedeva il rinnovo automatico delle concessioni demaniali – ha ribadito che la proroga automatica delle concessioni demaniali è in contrasto con il citato articolo 12 della Direttiva Servizi. Secondo il Collegio sarebbe invece necessario procedere ad una selezione pubblica, nel rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e pubblicità.

In un quadro normativo e giurisprudenziale così frammentato, gli stessi giudici di Palazzo Spada hanno recentemente dichiarato (Cons. St, Sez. VI, 9.3.2021 n. 2002) che gli enti preposti al rilascio delle concessioni demaniali non possono, in virtù della normativa disciplinante il settore, procedere al “rilascio in via diretta ma solo all’esito di una selezione tra gli aspiranti concessionari”.

A fronte di tanto, il Presidente del Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria.

Più nello specifico, con il decreto di rimessione, l’Adunanza Plenaria è chiamata a pronunciarsi sui seguenti quesiti:

1) se sia doveroso o meno procedere alla disapplicazione di una normativa interna – quale quella che prevede la proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali – confliggente con il diritto comunitario;

2) se la disapplicazione della normativa interna sia compito di tutte le articolazioni dello Stato, ivi inclusi gli enti territoriali, gli enti pubblici genericamente intesi nonché tutti i soggetti a questi equiparati;

3) se, in adempimento dell’obbligo di disapplicazione laddove confermato, l’amministrazione statale sia tenuta all’annullamento ex officio dell’atto emesso in contrasto con il diritto comunitario (in ossequio a quanto previsto dall’articolo 21-octies della legge 241/1990) ovvero se la sussistenza di un giudicato favorevole sia d’ostacolo all’annullamento d’ufficio.

In ogni caso, risulta essere opportuno (e non più rinviabile) un intervento del legislatore, volto a fornire ad un settore nevralgico dell’economia nazionale una riforma organica della disciplina delle concessioni – ponendo così fine al (mal)costume delle proroghe e degli interventi a singhiozzo.

Decreto Presidente Cons. St., 24.5.2021 n. 160

 


Clausola di esclusiva taxi: AGCM decide sul caso Taxi Torino.

Dopo Roma e Milano, l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) si è pronunciata sulla legittimità della clausola di esclusiva presente nello statuto della cooperativa Taxi Torino in forza della quale sarebbe precluso l’uso simultaneo da parte dei tassisti aderenti alla cooperativa di più servizi di intermediazione e smistamento tra domanda e offerta.

La segnalazione all’AGCM

La decisione origina da una segnalazione effettuata nell’agosto 2017 da una società di intermediazione tra domanda e offerta del servizio taxi tramite app che ha denunciato all’Autorità la presenza di clausole di non concorrenza nello statuto della cooperativa taxi di Torino, unico gestore di servizi di radiotaxi nel comune.

In virtù di tale clausola, aggiunta poco tempo dopo l’ingresso della segnalante nel mercato torinese nello statuto della cooperativa, era vietato l’uso simultaneo da parte dei tassisti aderenti alla cooperativa, e soci della stessa, di più servizi di intermediazione e smistamento tra domanda e offerta nel comune di Torino. La violazione di tale divieto, anche in ragione dell’obbligo di fedeltà del socio alla cooperativa era sanzionata con l’esclusione dello stesso dalla cooperativa.

Simili clausole, a parere della denunciante, avrebbero avuto l’effetto di ostacolare l’ingresso e lo sviluppo nel mercato torinese di ogni altra piattaforma concorrente con la cooperativa.

L’avvio dell’istruttoria e le questioni di rilievo

L’Autorità procedeva quindi ad avviare un’istruttoria volta ad accertare la sussistenza di un abuso di posizione dominante della cooperativa in questione nel mercato taxi a Torino.

Con delibera del 17.5.2021, l’Autorità conferma le violazioni segnalate.

In particolare, uno degli aspetti dirimenti della questione ruota intorno alla definizione del mercato rilevante dei servizi di intermediazione.

Nell’analizzare il mercato di riferimento, l’AGCM osserva come l’attività di raccolta e di smistamento del servizio taxi viene tradizionalmente svolta tramite canali diretti (che prevedono la richiesta diretta da parte dell’utenza al taxi in transito o in sosta sugli appositi posteggi, ovvero la chiamata tramite le apposite colonnine) oppure tramite piattaforme di intermediazione. Queste ultime comprendono non solo i servizi centrali di radiotaxi, ma anche le app e sono i canali maggiormente utilizzati.

Con riferimento alle piattaforme di intermediazione, l’AGCM osserva che, a prescindere dalla tecnologia di dispacciamento utilizzata, tali piattaforme competono tra loro sia dal lato dell’utente finale che dal lato dei tassisti. Con riferimento a questi ultimi, le piattaforme competono tra loro sulla base delle condizioni economiche previste per l’utilizzo delle stesse e dei servizi offerti.

In tal senso, spiega l’Autorità, va tracciata una distinzione tra le piattaforme di intermediazione c.d. “chiuse” e le piattaforme di intermediazione c.d. “aperte”: le prime, per soddisfare tutte le corse richieste, fanno affidamento solo sulla propria rete di tassisti, di dimensione sostanzialmente fissa e vincolata, anche tramite clausole statutarie di non concorrenza; nelle piattaforme di intermediazione “aperte”, invece, i tassisti aderenti possono decidere, in ogni momento, in base all’andamento e alla localizzazione della domanda, quando essere attivi sull’app e mettere a disposizione della piattaforma una quota variabile della propria capacità (in termini di corse). Specifica tuttavia l’AGCM che la condizione necessaria per il funzionamento di una piattaforma “aperta” è che ciascun tassista sia libero di affiliarsi ad essa per essere concretamente in grado di offrire, nei modi e tempi prescelti, una quota della propria capacità, integrando l’offerta proveniente dagli altri canali di raccolta.

L’AGCM ha poi concluso che in base a delle indagini statistiche di mercato che erano state condotte sia sugli utenti finali che sui tassisti, con riferimento al procacciamento delle corse, sia i servizi di radiotaxi che le piattaforme online possono essere considerati servizi sostituibili.

La cooperativa torinese aveva sostenuto che i canali di intermediazione tramite app e il servizio di radiotaxi sono distinti sia dal punto di vista della loro funzionalità oggettiva (in particolare, le app avrebbero alcune specificità che sono assenti nel caso del radiotaxi, come ad esempio la geolocalizzazione, la possibilità di pagamento tramite app, il rilascio di un documento contabile sulla corsa effettuata, il rating di qualità del tassista, ecc.), sia perché trattandosi di mercati a due versanti, se una parte della clientela considera l’app come lo strumento preferenziale e non fungibile con la chiamata via radio, per entrare in contatto con tale clientela, i tassisti sono indotti ad utilizzare questo strumento di intermediazione. Infine, ad avviso della cooperativa, il mercato delle app ha una dimensione quantomeno nazionale, ove invece il servizio di radiotaxi ha una dimensione locale.

Da ciò, secondo la cooperativa, sarebbe discesa la legittimità delle clausole statutarie in esame.

Più precisamente, l’obbligo statutario di non concorrenza del socio della cooperativa, mira ad evitare che i tassisti associati che aderiscono a piattaforme terze si pongano in un rapporto di concorrenza con la propria cooperativa.

La clausola in questione non avrebbe in alcun modo ostacolato, a parere della cooperativa, la contendibilità del mercato posto che lo statuto prevedeva comunque una clausola di recesso per i tassisti interessati ad ususfruire di altro intermediario.

Sicché, secondo la cooperativa, la presenza della clausola non avrebbe alcun nesso di causalità con lo scarso utilizzo dei tassisti torinesi dell’app della società segnalante: il motivo della scarsa adesione dei tassisti torinesi all’app della nuova società sarebbe l’errata politica commerciale e, in particolare, il criterio di remunerazione del servizio taxi, basato su una commissione percentuale sulla corsa, che sarebbe “del tutto perdente sul piano della concorrenza” rispetto al diverso criterio di remunerazione basato sulla quota fissa, proprio delle cooperative.

Diversamente, invece, la nuova società aveva evidenziato come le piattaforme di raccolta e smistamento della domanda, a prescindere dalla tecnologia di dispacciamento utilizzata, forniscono tutte i medesimi servizi e soddisfano tutte la medesima domanda: a monte, i tassisti sono interessati a contattare il maggior numero di clienti utilizzando diversi canali per massimizzare le chances di acquisizione della clientela; a valle, gli utenti sono interessati a ottenere un taxi, per cui le modalità tecniche di procacciamento vengono ritenute secondarie rispetto alla necessità di procurarsi una corsa.

Per tale ragione, a parere della società denunciante, le clausole statutarie della cooperativa avrebbero ostacolato ingiustamente la possibilità per i tassisti di usufruire di altri servizi di intermediazione: la presenza di un solo intermediario sulla piazza torinese si traduce in un numero minore di possibilità disponibili sul mercato e in una riduzione generale della qualità e dell’innovazione del servizio (che, lo si ricorda, è un servizio pubblico).

L’introduzione e l’applicazione della specifica clausola di esclusione sarebbe stata la causa, quindi, dello scarso utilizzo dell’app della società denunciante. La doppia adesione, ad un radiotaxi e ad una piattaforma aperta consente infatti ai tassisti di massimizzare i profitti, proprio perché se il tassista non sta effettuando una corsa per la cooperativa, ha la convenienza di poter utilizzare un'altra app, a prescindere dalle condizioni applicate.

Partendo proprio dal sufficiente grado di sostituibilità tra radiotaxi e app, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta, l’AGCM ha qualificato come unico il mercato delle piattaforme di intermediazione taxi.

La decisione dell’AGCM

Di qui il carattere abusivo delle condotte tenute dalla cooperativa torinese.

Secondo l’analisi dell’Autorità, la cooperativa Taxi Torino detiene una posizione largamente dominante nel mercato della fornitura di servizi di raccolta e smistamento della domanda di taxi nel comune di Torino. Vincolare dunque i soci, che costituiscono oltre il 90% dei tassisti operanti a Torino, a destinare tutta la propria capacità produttiva alla cooperativa, rappresenta una condotta idonea ad impedire e ostacolare ingiustificatamente l’accesso e lo sviluppo di altre piattaforme di intermediazione nel mercato di riferimento.

Per questi motivi l’AGCM ha ritenuto che i comportamenti posti in essere dalla cooperativa torinese rappresentino una violazione della concorrenza ai sensi dell’art. 102 del TFUE, in quanto idonei a influire sul gioco della concorrenza all'interno del mercato rilevante e produttivi di effetti concreti.

Da ultimo, l’AGCM ha condannato la cooperativa a pagare una sanzione e ad adottare misure idonee a eliminare l’infrazione di cui alle clausole di esclusiva.

La pronuncia esaminata è di particolare rilevanza, specie se si considera che nel mercato dei servizi di intermediazione tramite piattaforme per il servizio taxi, clausole come quelle in esame hanno acquisito una portata particolarmente restrittiva proprio a seguito allo sviluppo delle nuove tecnologie, in grado di fatto di aumentare la concorrenza.

L’attenzione per queste tematiche è oramai al centro del dibattito non solo tra le Authority, come l’AGCM o l’ART (Autorità Regolazione Trasporti), ma anche in giurisprudenza, la quale non appare perfettamente allineata alle decisioni assunte dalle autorità di regolazione citate (il riferimento è alla sentenza del TAR Lazio a seguito di impugnativa dei provvedimenti AGCM in caso analogo su Roma).

Di certo vi è che l’ampiezza e la complessità della tematica esaminata rende più che mai necessario un intervento del legislatore, invero già da tempo invocato e non ancora giunto.

(Provvedimento n. 29644 – Bollettino n. 21/2021)


Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.

Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.

Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.Parlando di clausola sociale nell’ambito degli appalti pubblici viene spontaneo pensare all’obbligo, per l’operatore che subentra nel contratto a seguito di cambio appalto, di riassorbimento dei lavoratori che il gestore uscente impiegava nel servizio. Tale obbligo, come statuito dalla sentenza in commento, non è tuttavia tassativo.

Questi i fatti. All’esito di una procedura di appalto, la commissione di gara aggiudicava in via provvisoria il lotto avente ad oggetto i servizi di portierato, reception, custodia e guardiania – procedendo poi, espletate le prescritte verifiche sulla congruità dell’offerta della provvisoria aggiudicataria – a disporre l’aggiudicazione definitiva.

Ritenendo illegittima la disposta aggiudicazione, l’impresa seconda classificata adiva il TAR. Nel dettaglio, la ricorrente censurava l’operato della stazione appaltante, allorché quest’ultima aveva aggiudicato l’appalto ad un soggetto che non rispettava quanto previsto dall’articolo 50 del Codice dei contratti pubblici, in tema di clausola sociale – disposizione cui faceva specifico riferimento la lex di gara, la quale imponeva che l’appaltatore avrebbe dovuto applicare ai lavoratori da assorbire condizioni contrattuali non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi di lavoro (nel caso di specie il CCNL c.d. multiservizi).

Le argomentazioni proposte, tuttavia, non sono state condivise dal Collegio.

Il TAR Lazio - premesso che la lex specialis di gara non imponeva l’utilizzo di uno specifico CCNL - evidenzia che non è motivo di esclusione l’applicazione del CCNL “servizi fiduciari” – cui ricorreva l’aggiudicataria – in luogo del CCNL “multiservizi”. Nel dettaglio, il Collegio sostiene, facendo propria l’argomentazione resa dall’amministrazione, che il CCNL applicato dall’aggiudicataria prevede espressamente la possibilità di subentro in un contratto in cui il gestore uscente impiegava il personale sotto l’egida di un diverso contratto collettivo.

Non solo. Il CCNL multiservizi contiene, al proprio interno, una specifica “clausola di cedevolezza” in favore di un contratto collettivo connotato da maggiore specificità: detto contratto, in altri termini, prevede che saranno “escluse dalla sfera di applicazione del contratto le eventuali autonome attività, anche per specifici contratti di committenza, ai rapporti di lavoro delle quali si applichino, secondo la vigente normativa, autonomi e specifici c.c.n.l. corrispondenti”.

In tema di clausola sociale, in definitiva, il Collegio statuisce – facendo proprio l’assunto reso dal Consiglio di Stato (Sez. V, 2.11.2020 n. 6761) – che “l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato (…) con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante atteso che “la clausola non comporta alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il totale del personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria”.

Diversamente opinando, infatti, si verificherebbe una lesione del principio di libera concorrenza – nel senso di scoraggiare la partecipazione alle gare di appalto pubblico – e della libertà d’impresa – diritto, quest’ultimo, costituzionalmente garantito dall’articolo 41 della Carta costituzionale.

(TAR Lazio Roma, Sez. I quater, 12.5.2021, n. 5588)


La mancanza del rapporto di prova alle prescrizioni in materia di criteri ambientali minimi costituisce causa di esclusione dalla gara di appalto pubblico attenzione alla lex specialis.

La mancanza del rapporto di prova alle prescrizioni in materia di criteri ambientali minimi costituisce causa di esclusione dalla gara di appalto pubblico? Attenzione alla lex specialis.

La mancanza del rapporto di prova alle prescrizioni in materia di criteri ambientali minimi costituisce causa di esclusione dalla gara di appalto pubblico attenzione alla lex specialis.La mancanza del rapporto di prova alle prescrizioni in materia di criteri ambientali minimi costituisce causa di esclusione dalla gara di appalto pubblico?

Alla domanda è possibile rispondere incrociando la normativa di settore, i decreti CAM di riferimento e naturalmente la lex specialis di gara.

Nel caso sottoposto di recente al Consiglio di Stato, come vedremo, la mancanza del rapporto di prova, in presenza del requisito richiesto, non implica esclusione; viceversa in altro caso sottoposto al TAR Toscana (sentenza del 20/2/2020), la mancanza del rapporto di prova in questione ha portato all’esclusione del concorrente dalla procedura.

Per inquadrare le vicende non sarà sufficiente leggere le sentenze, ma sarà necessario esaminare il disciplinare e il capitolato tecnico di entrambe le procedure e i relativi decreti CAM.

Partiamo dal caso meno recente. TAR Toscana 225/2020.

Nella vicenda sottoposta al TAR Toscana, il capitolato tecnico prescrive espressamente che “i concorrenti dovranno presentare, nell’offerta tecnica, la documentazione indicata nel suddetto allegato E (criteri ambientali minimi), attestante la conformità dei prodotti offerti alle prescrizioni in materia di criteri ambientali minimi”.

Il richiamato allegato E prevede, quali documenti probatori dell’esistenza delle prescritte specifiche tecniche minime, una serie di rapporti di prova la cui mancanza, in sede di presentazione dell’offerta tecnica da parte del concorrente, costituisce causa di esclusione dalla gara, trattandosi di elementi strettamente inerenti al contenuto dell’offerta tecnica.

Trattasi, quindi, ad avviso del TAR, di requisiti che devono essere esattamente documentati, senza che sussista la possibilità del soccorso istruttorio il quale è circoscritto ad elementi non riguardanti l’offerta tecnica ed economica.

Consiglio di Stato 3166/2021.

Nel caso giunto in Consiglio di Stato, l’aggiudicazione di una gara di appalto per la fornitura di personal computer portatili e tablet a ridotto impatto ambientale veniva annullata in autotutela giacché ad avviso della stazione appaltante la società avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara poiché in sede di «verifica funzionale» della «migliore offerta valida», nell’ambito della documentazione prodotta per attestare la conformità dei dispositivi informatici ai CAM - decreto CAM del 13 dicembre 2013, recante “Criteri ambientali minimi per le forniture di attrezzature elettriche ed elettroniche d'ufficio” -  il rapporto di prova del laboratorio accreditato relativo alle emissioni sonore era stato emesso in data successiva al termine per la presentazione delle offerte.

E ciò contrariamente a quanto prescritto dalla lex specialis e al chiarimento reso dalla stazione appaltante secondo il quale “Al fine del soddisfacimento dei requisiti richiesti dalla lex specialis di gara, le certificazioni ed i rapporti di prova previsti per le apparecchiature dovranno essere stati rilasciati in data anteriore alla data di scadenza dei termini per la presentazione delle offerte”.

Ne seguiva l’incameramento della cauzione provvisoria e la segnalazione dei fatti all’ANAC.

Il successivo ricorso contro l’annullamento dell’aggiudicazione veniva respinto dal TAR Lazio Roma.

Ad avviso del TAR, il Capitolato tecnico, nel descrivere “le caratteristiche tecniche minime” e i requisiti di conformità, stabiliva, tra gli altri, che “le apparecchiature fornite devono assicurare la conformità  ai Criteri Ambientali Minimi per PC Portatili adottati con Decreto 13 dicembre 2013; le specifiche tecniche dovranno essere comprovate secondo quanto prescritto dal citato Decreto CAM in questione (decreto del 13 dicembre 2013).

Con riferimento ai prodotti oggetto di gara, il Disciplinare di gara quanto il Capitolato tecnico stabilivano che “le apparecchiature fornite dovranno avere un livello di potenza sonora emessa (LwAd) non superiore a 40 db(A), in modalità hard disk attivo ovvero accesso ad un disco rigido e LWAd non superiore a 35 db(A) in fase "idle"” e che per la relativa “Verifica … il rispetto dei requisiti relativi alla potenza sonora è comprovato attraverso un rapporto di prova predisposto da un laboratorio di prova accreditato in base alla norma EN ISO 17025”.

Ad avviso del Collegio di primo grado, il rispetto della specifica tecnica di cui si discorre costituisce un requisito tecnico minimo essenziale dei beni oggetto della fornitura che deve essere posseduto già al momento della presentazione dell’offerta con conseguente inidoneità del relativo rapporto di prova al riguardo presentato in quanto emesso ben oltre il termine per la presentazione delle offerte.

L’offerta deve essere conforme alle caratteristiche tecniche stabilite nel relativo Capitolato tecnico “sin dal principio, atteso che difformità, anche parziali, si risolvono in un aliud pro alio” e sono, pertanto, idonee a giustificare l’esclusione del concorrente dalla procedura di selezione.

I prodotti offerti dovevano, quindi, essere conformi alla prescritta caratteristica tecnica relativa alle “emissioni sonore” che doveva essere posseduta, a pena d’esclusione, già all’atto di presentazione della relativa offerta e in tali termini comprovata dalla società concorrente, per essere poi verificata dalla Commissione di gara, prima dell’aggiudicazione, prevendo a tal fine il Disciplinare di gara “il concorrente che abbia effettuato la migliore offerta valida dovrà consegnare, pena l’esclusione, i campioni dei prodotti offerti e la documentazione attestante la loro conformità ai “CAM” tra cui, in particolare, il rapporto di prova di cui al citato decreto ministeriale”, attestante il livello delle relative emissioni sonore.

In altri termini, secondo il TAR, poiché il requisito poteva essere comprovato, come stabilito nei “CAM” e nella lex specialis di gara, solo documentalmente “con un rapporto di prova predisposto da un laboratorio di prova accreditato in base alla norma EN ISO 17025”, anche le relative specifiche certificazioni dovevano sussistere sin dalla presentazione dell’offerta.

La tesi sostenuta dal TAR non convince però il Consiglio di Stato che accoglie il ricorso in appello.

L’appellante evidenzia che:

  • nessuna norma speciale di gara imponeva che il rapporto di prova sulle emissioni sonore fosse anteriore al termine di presentazione delle offerte (fissato per l’11 febbraio 2020), e che pertanto sarebbe illegittimo il chiarimento reso;
  • inoltre la sentenza appellata è errata laddove sovrappone «il possesso del requisito, ossia la conformità ai CAM – requisito che, le macchine offerte hanno pacificamente -, con la comprova del requisito, data dal rapporto di prova».

Ad avviso del Consiglio di Stato, le censure dell’originaria aggiudicataria sono fondate

Il rapporto di prova di un laboratorio accreditato sulla conformità dei dispositivi da fornire ai criteri ambientali minimi costituisce un mezzo per dimostrare che l’offerta presentata in gara risponde ai requisiti tecnici e di qualità previsti dalla stazione appaltante.

In ciò il rapporto di prova assolve alla funzione di dimostrare una qualità della fornitura, in mancanza della quale questa è destinata a non essere accettata dall’amministrazione, in una gara da aggiudicare con il criterio del massimo ribasso, quale quella oggetto del presente giudizio, avente ad oggetto prodotti dalle caratteristiche tecniche e funzionali predefinite.

L’errore commesso dalla sentenza di primo grado è consistito nel sovrapporre il profilo sostanziale relativo alle emissioni sonore e alla loro conformità con i criteri ambienti minimi, non posto in discussione, con quello probatorio.

In effetti a ben vedere, il decreto CAM di riferimento, afferma nel paragrafo relativo alle condizioni di esecuzione che  per ogni criterio ambientale minimo è indicata una verifica ossia la documentazione a riprova della conformità del prodotto al requisito richiesto (pag. 10 decreto CAM).

In coerenza con le descritte caratteristiche del rapporto di prova, di mezzo per la dimostrazione di qualità preesistenti della fornitura offerta, la normativa di gara non esigeva che questo fosse anteriore al termine di presentazione delle offerte. Nessuna causa di esclusione si configura pertanto per il fatto che quello esibito dall’originaria aggiudicataria fosse posteriore alla presentazione delle offerte.

Un simile requisito non può inoltre essere introdotto mediante chiarimenti, come avvenuto nel caso di specie, perché in questo modo si introdurrebbe una regola innovativa rispetto alla normativa di gara, in difformità alla funzione tipica del chiarimento (da ultimo espressa da Cons. Stato, III, 15 febbraio 2021, n. 1322; V, 16 marzo 2021, n. 2260).

L’innovatività si manifesta nel caso di specie nel fatto che il rapporto di prova, che come rilevato costituisce il mezzo per accertare un elemento del prodotto e la sua conformità a caratteristiche qualitative predefinite, viene così elevato da mezzo a fine, per cui ad esso si attribuisce un rilievo ai fini della selezione delle offerte di cui invece è privo.

In altri termini, secondo l’argomentare dell’amministrazione, il rapporto di prova sarebbe elemento dell’offerta, che per ragioni di par condicio competitorum deve essere formato prima della presentazione di quest’ultima nel termine previsto dalla normativa di gara.

Deve invece ribadirsi in contrario che quale mezzo di prova la sua funzione è di descrivere caratteristiche qualitative del prodotto già esistenti, e che secondo le scansioni della procedura di gara, quali definite dal relativo disciplinare, esso era destinato a rilevare una volta che la selezione delle offerte si era conclusa, nella fase di verifica tecnica prodromica all’aggiudicazione di cui al disciplinare di gara.

(Cons. St., Sez. V, 19/04/2021, n. 3166; TAR Lazio, Sez. II, 12/03/2021, n. 3061; TAR Toscana, Sez. III, 20/02/2020, n. 225)


Aumento costi causa covid-19 e anticipazione del prezzo negli appalti pubblici tra facoltà della stazione appaltante e “vorrei ma non posso” del Legislatore.

Aumento costi causa covid-19 e anticipazione del prezzo negli appalti pubblici: tra facoltà della stazione appaltante e “vorrei ma non posso” del Legislatore.

Aumento costi causa covid-19 e anticipazione del prezzo negli appalti pubblici tra facoltà della stazione appaltante e “vorrei ma non posso” del Legislatore.I temi aumento dei costi (extra covid-19) e anticipazione del prezzo negli appalti pubblici sono temi caldi in questo momento storico.

La normativa emergenziale che ha cercato di far fronte alle circostanze sopravvenute in relazione all’esecuzione e alla stipula dei contratti di appalto pubblico comincia a trovare una propria interpretazione anche a livello giurisprudenziale.

Una recente sentenza del TAR Milano ha fatto chiarezza su alcune delle norme maggiormente significative, coniate dal legislatore proprio per cercare di contenere lo shock economico e patrimoniale delle imprese. Tra queste:

  • L’art. 207 del D.L. n. 34/2020, convertito con modifiche dalla L. n. 77/2020, che ha innalzato la percentuale dell’anticipazione del prezzo dal 20% al 30%;
  • L’art. 91 del D.L. n. 18/2020, che all'art. 3 del D.L. n. 6/2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 13/2020, che ha inserito il comma 6-bis, secondo cui “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 del codice civile, della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”;
  • L’art. 8, comma 4, lett. b) del D.L. n. 76/2020, convertito con modifiche dalla L. n. 120/2020 che prevede il riconoscimento, per i lavori in corso di esecuzione al 16.7.2020, dei maggiori costi derivanti dall’adeguamento e dall’integrazione del piano di sicurezza e coordinamento ai fini del rispetto delle misure di contenimento dettate dalla normativa emergenziale, da rimborsarsi in occasione del primo SAL successivo all’approvazione dell’aggiornamento del piano di sicurezza e coordinamento recante la quantificazione degli oneri aggiuntivi.

La controversia sottoposta all’attenzione del TAR Milano origina nell’ambito di una gara per la realizzazione di una scuola, per cui la società ricorrente era risultata aggiudicataria nel febbraio 2020, ben prima del lockdown disposto causa covid-19.

Nelle more della stipula del contratto, la società aveva richiesto di inserire nella bozza del contratto la previsione di cui all’art. 207 del D.L. n. 34/2020, e dunque l’anticipazione del prezzo del contratto pari al 30%, nonché il riconoscimento di ulteriori costi per la sicurezza, così come previsti dall’art. 8, comma 4 lett. b) del D.L. n. 76/2020.

Nel novembre 2020, periodo in cui come è noto si è registrato un significativo aumento dei costi, in particolare, dell’acciaio, non essendo intervenuta la stipula del contratto, la ricorrente aveva proceduto a comunicare alla stazione appaltante lo scioglimento del vincolo contrattuale ex art. 32 comma 8 d.lgs. 50/2016, proprio in considerazione dell’alterazione economico-finanziaria derivante dall’emissione dei nuovi provvedimenti per contenere l’aumento dei contagi da covid-19.

In conseguenza di ciò, la stazione appaltante aveva revocato in autotutela l’aggiudicazione, procedendo altresì ad incamerare la cauzione provvisoria, a richiedere il rimborso delle spese per la pubblicazione e ad inoltrare una segnalazione all’ANAC.

Il ricorso della ricorrente si incentra proprio sull’asserita illiceità dell’operato dell’amministrazione, la quale non ha dato seguito alla richiesta dell’aggiudicataria di inserire nel contratto le nuove previsioni sancite dalla normativa emergenziale, ossia l’innalzamento dell’anticipazione dal 20% al 30% e il riconoscimento di ulteriori costi per la sicurezza.

Sul punto il TAR Milano ha stabilito che la corresponsione dell’importo dell’anticipazione del prezzo al 30% non si configura come un diritto dell’operatore economico, bensì come una facoltà esercitabile esclusivamente dalla stazione appaltante.

Secondo il Collegio, dunque, il testo dell’art. 207 sarebbe chiaro nell’attribuire discrezionalità alla stazione appaltante, posto che l’importo percentuale di anticipazione “può essere incrementato (e non deve)…nei limiti e compatibilmente con le risorse annuali stanziate per ogni singolo intervento a disposizione”.

Ad avviso di chi scrive, l’interpretazione fornita dal TAR, sebbene in linea con il dato letterale della norma (si poteva fare di più), sembrerebbe confermare il “vorrei ma non posso” che ha ispirato il legislatore nella redazione della normativa emergenziale ossia il rilancio dell’economia e delle imprese.

Il TAR, nel confermare la legittimità dell’operato della stazione appaltante, che aveva proceduto con la revoca dell’aggiudicazione solo a fronte della richiesta (legittima) di scioglimento del vincolo contrattuale, ha sottolineato come la ricorrente non fosse stata in grado di provare in che modo la mancata tempestiva disponibilità delle maggiori somme avesse di fatto reso antieconomica la stipulazione del contratto.

Il tutto secondo i giudici ha a che vedere con la mancata prova del danno subito dall’impresa.

Con riferimento ai maggiori costi derivanti dall'adeguamento e dall'integrazione del piano di sicurezza e coordinamento, i giudici hanno ritenuto non applicabile al caso di specie il comma 4 dell’art. 8 del decreto Semplificazioni poiché la norma subordina il riconoscimento di maggiori costi “ai lavori in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore” del D.L. n. 76/2020, e cioè, al 16.7.2020, mentre in questo caso la richiesta della società ricorrente faceva riferimento a lavori non ancora iniziati.

Con riferimento infine alla clausola di esonero di responsabilità di cui al comma 6-bis della L. n. 13/2020, idonea, a parere della ricorrente, a paralizzare ogni pretesa azione risarcitoria della stazione appaltante, nonché l’illegittimità di tutti i provvedimenti consequenziali, i Giudici si sono espressi ponendo al centro della propria decisione l’elemento probatorio.

Il Collegio ha riscontrato che la ricorrente si era limitata a richiamare, del tutto genericamente, lo stato di emergenza sanitaria, senza fornire alcun dato obiettivo da cui potersi desumere, in conseguenza dell’emergenza covid-19, un peggioramento della propria condizione patrimoniale idonea a precluderle l’esecuzione del contratto.

Precisa il Collegio, che in ossequio al principio generale secondo cui ciascuna delle parti ha l’onere di provare i fatti che allega e dai quali pretende di far derivare conseguenze giuridiche a suo favore, l’art. 3, comma 6-bis della L. n. 13/2020 impone alla parte che ne invoca l’applicazione l’onere di provare l'eccessiva onerosità sopravvenuta che ha alterato il rapporto di proporzionalità tra le reciproche prestazioni.

In definitiva, il TAR Milano ha ritenuto ingiustificato il rifiuto alla stipula del contratto della società ricorrente e, dunque, corretto l’operato della stazione appaltante che aveva proceduto a revocare l’aggiudicazione e a porre in essere i relativi atti consequenziali.

(TAR Lombardia Milano, Sez. I, 27.4.2021, n. 1052)


Irregolarità contributive e violazioni gravi e definitivamente accertate repetita iuvant

Appalti pubblici e irregolarità contributive. Violazioni gravi e definitivamente accertate: repetita iuvant

Irregolarità contributive e violazioni gravi e definitivamente accertate repetita iuvantTorniamo a parlare di irregolarità contributive negli appalti pubblici. Il TAR si interroga sulla legittimità di un’esclusione comminata per una violazione di importo di poco superiore a 500€, rispondendo – ancora una volta – al quesito: quando una violazione può dirsi grave e definitivamente accertata – così da determinare l’esclusione di un operatore economico dalla procedura di gara?

Questi i fatti, in estrema sintesi. Disposta l’aggiudicazione provvisoria, l’amministrazione procedeva alla revoca della stessa in quanto, eseguiti i controlli di rito, riscontrava, in capo al primo graduato, una irregolarità contributiva. Avverso tale provvedimento l’operatore adiva una prima volta il TAR, ottenendo l’annullamento della descritta determina. Nelle more dell’appello, tuttavia, la stazione appaltante – su suggerimento dell’avvocatura dello Stato – richiedeva all’Agenzia delle Entrate se risultassero, in capo a detto operatore, “debiti tributari risultanti da atti, da contestazioni in corso e da quelle già definite per le quali i debiti non sono stati soddisfatti”. Emergeva, da tale richiesta, l’esistenza di una violazione, definitivamente accertata, di importo di poco superiore ad € 500, oltre a due violazioni non definitivamente accertate, rispettivamente, di € 3.560,58 e di € 6.607,67 – sicché l’amministrazione, sentito il parere dell’Avvocatura, riteneva non vi fossero i presupposti per disporre l’aggiudicazione in favore dell’operatore in questione.

Ritenendo tale conclusione ingiusta, l’operatore adiva nuovamente il TAR. Nel giudizio che ne derivava, il ricorrente – premesso che l’unica violazione definitivamente accertata era di poco superiore ad € 500 - sosteneva che l’operato dell’amministrazione fosse carente sotto il profilo motivazionale – la determina di esclusione non era motivata in quanto la stazione appaltante si limitava a fare proprio il parere rilasciato in merito dall’Avvocatura, secondo cui mancavano “i presupposti per procedere all’aggiudicazione definitiva, alla luce del principio di continuità del possesso dei requisiti di partecipazione alle procedure di affidamento”.

Nell’accogliere il ricorso, il Collegio statuisce che:

  1. ai sensi dell’articolo 80, comma 4, Codice, l’esclusione di un operatore economico è sottesa alla presenza di violazioni, gravi e definitivamente accertate, derivanti dal mancato rispetto di obblighi di pagamento di imposte tasse e contributi;
  2. una violazione può dirsi grave e definitivamente accertata ove essa sia, allo stesso tempo, di importo superiore ad € 5.000 e sia cristallizzata in un provvedimento giudiziale o amministrativo non più impugnabile;
  3. per costante giurisprudenza – ex multis Cons. St., A.P., 8/2012 – l’amministrazione non può sindacare il contenuto delle dichiarazioni di regolarità contributiva fornite dai partecipanti alle gare di appalto – tale incombente spettando, infatti, all’Agenzia delle Entrate;
  4. non può applicarsi, in questa sede, l’articolo 80, comma 4, Codice, nella formulazione conseguente alle modifiche apportate dall’articolo 8, comma 5, lett. b) e comma 6, decreto semplificazioni, in quanto la procedura oggetto del presente contenzioso si è interamente svolta prima dell’entrata in vigore della richiamata disposizione normativa;
  5. in ogni caso, l’esclusione in conseguenza del “nuovo” articolo 80, comma 4, non sarà mai automatica, dovendo la stazione appaltante valutare, in maniera discrezionale e caso per caso, se si debba procedere all’esclusione dell’operatore che si sia reso responsabile di irregolarità contributive.

Da quanto sopra, quindi, conclude il Collegio che “non sussistono i presupposti normativamente previsti perché possa ritenersi integrata la fattispecie escludente della grave violazione fiscale, giacché l’unico debito a carico della ricorrente, accertato in via definitiva dall’Agenzia delle Entrate, è di gran lunga inferiore alla soglia minima di rilevanza, fissata per relationem nella sua entità dal prefato art. 80, comma 4, del D.lgs. n. 50/2016”.

(TAR Puglia Lecce, Sez. II, 7.5.2021 n. 681)


Appalto pubblico. Mancata allegazione dichiarazione di impegno a costituire RTI: corretto escludere?

Mancata allegazione dichiarazione di impegno a costituire RTI corretto escludereÈ legittima nell'appalto pubblico l’esclusione motivata, da un lato, con la mancata produzione della dichiarazione di impegno a costituire un RTI da parte degli operatori partecipanti, dall’altro con la mancata indicazione delle percentuali di esecuzione che avrebbero svolto, rispettivamente, la mandataria e la mandante? È questo il quesito cui fornisce risposta, con la pronuncia in commento, il TAR marchigiano.

Questi i fatti, in estrema sintesi. Due imprese – che partecipavano in forma associata (mediante RTI) ad una procedura per la fornitura e la manutenzione evolutiva, correttiva ed ordinaria di un impianto di telefonia – venivano escluse in quanto non inserivano nella busta della documentazione amministrativa la dichiarazione di impegno a costituire un RTI nel caso in cui fossero risultati aggiudicatari.

Ritenendo l’esclusione illegittima, il concorrente estromesso adiva il TAR argomentando che:

- l’esclusione era disposta per il solo fatto che le imprese costituenti il raggruppamento non avevano prodotto – come dichiarato dalla stazione appaltante nel relativo provvedimento – “la dichiarazione di impegno a costituire il raggruppamento di concorrenti, così come prescritto al p.to 14 del Disciplinare di gara 05.01.2021”;

- la mancata produzione della dichiarazione in questione è una carenza meramente formale, sicché la stazione appaltante avrebbe dovuto consentirne la regolarizzazione mediante ricorso all’istituto del soccorso istruttorio, atteso che tale carenza non ingenerava incertezze riguardo alla provenienza dell’offerta e alla serietà della medesima;

- la volontà del concorrente di partecipare alla gara mediante un RTI, peraltro, emergeva in maniera chiara ed inequivoca dalla documentazione inserita all’interno della busta c.d. amministrativa – tra i vari documenti da cui emergeva tale volontà, è sufficiente ricordare il DGUE ed il PassOE;

- la stazione appaltante era consapevole del fatto che le imprese escluse avevano intenzione di partecipare alla gara d’appalto con la costituzione di un RTI: la prova è nella circostanza che la determina di esclusione veniva inviata sia alla mandataria che alla mandante;

- ne deriva, essendo pacifica la natura meramente formale della carenza citata, che la stazione appaltante avrebbe dovuto attivare il soccorso istruttorio – così consentendo all’operatore economico partecipante di sanare la richiamata carenza documentale.

Costituendosi, la stazione appaltante ribatteva che l’omissione della dichiarazione in questione non aveva valenza meramente formale: in tale dichiarazione, infatti, le parti dovevano indicare, le quote di prestazioni che, in caso di aggiudicazione, sarebbero state eseguite, rispettivamente, dalla mandataria e dalla mandante (indicazione, questa, che è parte integrante dell’offerta, quindi non sanabile mediante soccorso istruttorio – come affermato dall’Ad. Plen., nn. 22 e 26 del 2012).

Nell’accogliere il ricorso, il Collegio statuiva che:

  1. la circostanza – indicata nella lex di gara – che la dichiarazione di impegno a costituire l’RTI (in caso di partecipazione in forma associata) doveva essere inserita nella busta contenente la documentazione amministrativa indicava che la stazione appaltante, implicitamente, ammetteva la sanabilità, mediante soccorso istruttorio, delle omissioni o incompletezze della documentazione ivi inserita;
  2. è la stessa commissione di gara, peraltro, a riconoscere che, dalla documentazione inserita nella busta amministrativa, emerge in maniera inequivoca che dette imprese intendevano partecipare alla procedura mediante RTI;
  3. la censura circa la mancata indicazione delle quote di esecuzione delle lavorazioni veniva mossa, osserva il TAR, dalla resistente solo al momento della costituzione in giudizio – nel provvedimento di esclusione si faceva solamente riferimento alla mancata produzione della dichiarazione di impegno;
  4. l’indicazione delle parti del servizio che saranno eseguite dai singoli operatori costituenti il RTI è elemento che attiene – ex articolo 48 Codice – all’offerta: per tale ragione, è nulla – ex articolo 83, comma 8 penultimo ed ultimo periodo, Codice – la lex di gara, nella parte in cui prevede che le quote di esecuzione dovessero essere contenute nella domanda di partecipazione e nella documentazione ad essa afferente.

Conclusivamente, il Collegio osserva che:

“- la dichiarazione di impegno a costituire l’a.t.i. era acquisibile mediante attivazione del soccorso istruttorio, visto che dal complesso della documentazione amministrativa presentata e verificata dal seggio di gara emergeva in modo inequivoco la volontà (…) di partecipare in a.t.i.;

- l’indicazione delle parti della fornitura e del servizio di rispettiva competenza delle due imprese è stata invece resa in seno all’offerta tecnica (…) per cui da un lato non può dirsi che si sia in presenza di una situazione di incertezza circa il contenuto e/o la serietà dell’offerta, dall’altro lato non vi era al riguardo alcunché da sanare o regolarizzare”.

(TAR Marche Ancona, Sez. I, 30.4.2021, n. 375)


Articolo 106 tra quinto d’obbligo come fattispecie autonoma e aumento costi di filiera Covid-19

Art. 106 tra quinto d’obbligo come fattispecie autonoma e aumento costi di filiera Covid-19

Articolo 106 tra quinto d’obbligo come fattispecie autonoma e aumento costi di filiera Covid-19L’art. 106 del d.lgs. 50/2016, che oggi rileva in relazione al quinto d’obbligo come fattispecie autonoma e all'aumento costi di filiera Covid-19, ha destato perplessità tra gli operatori del settore sin dalla sua entrata in vigore per la formulazione poco chiara e a tratti contraddittoria che lo caratterizza.

Di recente l’ANAC, con il Comunicato del Presidente del 23 marzo 2021, ha avuto modo di fornire alcune indicazioni interpretative del comma 12 dell’art. 106, che ha ad oggetto le modifiche contrattuali fino alla concorrenza del c.d. quinto d’obbligo.

Il comma 12 dell’art. 106, infatti, individua un importo massimo coincidente con il quinto del valore dell’appalto (cd. quinto d’obbligo), al di sotto del quale la committente può imporre all’appaltatore l’esecuzione di sopravvenute lavorazioni alle stesse condizioni previste nel contratto originario e, dunque, già stabilite in fase di aggiudicazione. La norma specifica che in questo caso l’appaltatore non può far valere il diritto alla risoluzione del contratto.

In base ai principi e alle regole proprie dell’evidenza pubblica, le stazioni appaltanti possono ampliare l’oggetto del contratto o cambiare il contraente solo previa indizione di una gara.

Di qui la necessità di considerare le ipotesi previste dall’art. 106 come tassative.

Come si è accennato in apertura, l’art. 106, comma 12 (quinto d’obbligo), è stato di recente oggetto di un intervento chiarificatorio da parte dell’ANAC.

La questione dirimente attiene alla possibilità di considerare il c.d. quinto d’obbligo come ipotesi autonoma e ulteriore di modifica contrattuale rispetto ai casi previsti dai commi 1 e 2 dell’art. 106 e, in caso positivo, alla possibilità di accedere a tale istituto anche a prescindere dalla ricorrenza dei presupposti ivi individuati.

L’ANAC ritiene che la possibilità di modificare il contratto senza necessità di ricorrere a una nuova procedura nei modi previsti dall’art. 106, comma 12, debba essere applicata nei soli casi specificamente e tassativamente indicati. Di conseguenza, specifica l’Autorità, la previsione del comma 12 non può configurare una fattispecie autonoma di modifica contrattuale, ma deve essere intesa “come volta a specificare che, al ricorrere di una delle ipotesi previste dai commi 1, lettera c) e 2 dell’articolo 106, qualora la modifica del contratto resti contenuta entro il quinto dell’importo originario, la stazione appaltante potrà imporre all'appaltatore l'esecuzione alle stesse condizioni previste nel contratto originario senza che lo stesso possa far valere il diritto alla risoluzione del contratto”.

Contrariamente ad alcuni indirizzi giurisprudenziali, l’Autorità ritiene di aderire ad una interpretazione restrittiva e comunitariamente orientata della norma in esame.

La giurisprudenza amministrativa tende a tenere distinte le ipotesi di modifiche contrattuali presenti nei commi 1 e 2 dell’art. 106 (a titolo esemplificativo, art. 106, comma 1, lett. c) dove la necessità di modifica è determinata da circostanze impreviste e imprevedibili) da quella sancita dal comma 12.

Per fare qualche esempio, nella sentenza TAR Lazio n. 13539/2020, il giudice ha sottolineato che sussiste una vera e propria distinzione tra le ipotesi previste dall’art. 106. In particolare, il TAR ha sottolineato che la differenza tra l’ipotesi descritta al comma 1, in particolare dalla lett. c) e il comma 12, “è data dal fatto che mentre nel caso della lett. c) è necessario comunque un accordo delle parti per modificare l’oggetto del contratto (fermo restando che la modifica non deve alterare “la natura generale del contratto”), l’applicazione del comma 12, con l’aumento o la diminuzione delle prestazioni “fino a concorrenza del quinto dell'importo del contratto”, è solo la conseguenza dell’esercizio di un diritto potestativo dell’Amministrazione, che può infatti “imporre all'appaltatore l'esecuzione alle stesse condizioni previste nel contratto originario”; per cui in tal caso l'appaltatore non può far valere il diritto alla risoluzione del contratto”.

Pare mostrarsi dello stesso avviso anche il TAR Campania che, con sentenza n. 5595/2020, ha specificato che l’ipotesi contemplata dal comma 12 riguarda esclusivamente le circostanze sopravvenute nel corso dell’esecuzione del rapporto (non potendo “in alcun modo essere utilizzata per rimediare ad errori originari compiuti dalla stazione appaltante in sede di valutazione del fabbisogno ovvero per eludere gli obblighi discendenti dal rispetto delle procedure ad evidenza pubblica attraverso un artificioso frazionamento del contenuto delle prestazioni”).

Secondo il recente Comunicato dell’ANAC invece, considerare il comma 12 come un’ipotesi autonoma andrebbe in contrasto proprio con il comma 1, lettera c) dell’art. 106, che prevede la possibilità di modifica per fatti imprevisti e imprevedibili senza limiti di importo per i settori speciali e con limiti superiori (50%) per i settori ordinari, sia rispetto al comma 1, lettere a) ed e) del medesimo articolo. Come ricorda l’Autorità, tale ultima disposizione consente di prevedere, già nei documenti di gara, la possibilità di una futura modifica contrattuale senza limiti di importo, utilizzabile, ad esempio, nei casi in cui non sia possibile stimare con certezza il fabbisogno futuro.

A corroborare la tesi dell’Autorità, militerebbe il fatto che a considerare il comma 12 come ipotesi autonoma si rischia il cumulo delle diverse ipotesi di modifica contrattuale, con il superamento dei limiti di importo previsti dall’art. 106 e il conseguente illegittimo ampliamento delle ipotesi derogatorie della normativa europea e nazionale in materia di affidamenti pubblici.

È evidente la peculiarità della questione e la sua attualità.

Pur trattandosi di un Comunicato – dalla valenza non vincolante - l’interpretazione fornita dall’ANAC è destinata a creare un forte dibattito che inevitabilmente coinvolgerà non solo la giurisprudenza, ma anche il legislatore. La stessa ANAC dà infatti conto nel proprio Comunicato di aver avanzato al Governo delle proposte di modifica dell’art. 106, al fine di semplificare e razionalizzare la normativa.

L’art. 106 rappresenta una norma fondamentale anche laddove si consideri l’attuale scenario caratterizzato dalla pandemia da Covid-19 (ne discutiamo sin dai primi giorni della dichiarata emergenza sanitaria il che ha portato alla pubblicazione si un testo tecnico operativo sul tema nel giugno 2020 - clicca qui se vuoi saperne di più).

L’evento pandemico può infatti soddisfare una delle condizioni previste dal comma 1, lett. c), dell’art. 106, secondo cui i contratti di appalto possono essere modificati senza una nuova procedura di affidamento, a patto che ricorrano contestualmente due condizioni, ossia la presenza di circostanze impreviste e imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice o per l’ente aggiudicatore e che la modifica non vada ad alterare la natura generale del contratto.  Si noti che tra le circostanze imprevedibili la norma contempla il c.d. factum principis, o se vogliamo l’act of god (clicca qui per la live), ossia la sopravvenienza di nuove disposizioni legislative, regolamentari o provvedimenti di autorità o enti preposti alla tutela di interessi rilevanti. In tal senso, l’ultimo anno caratterizzato dalla cd. “Decretografia Conte” prima, e dai provvedimenti del Primo Ministro Draghi poi, può rappresentare senz’altro una fattispecie rientrante nella lett. c).

 


Collegio Consultivo Tecnico criticità del nuovo istituto che nuovo non è. La natura di lodo contrattuale delle determinazioni.

Collegio Consultivo Tecnico: criticità del nuovo istituto che nuovo non è. La natura di lodo contrattuale delle determinazioni.

Collegio Consultivo Tecnico criticità del nuovo istituto che nuovo non è. La natura di lodo contrattuale delle determinazioni.All’indomani dell’entrata in vigore del decreto Semplificazioni, ha fatto molto discutere il ritorno del Collegio Consultivo Tecnico in una nuova sostanziale veste. L’istituto infatti non è nuovo.

Evoluzione dell’istituto

L’art. 207 del d.lgs. 50/2016 nella formulazione originaria (ante correttivo 2017) lo prevedeva già come istituto attribuendo alla proposta del Collegio Consultivo Tecnico la natura di transazione.

Tuttavia, dopo appena un anno dall’entrata in vigore, la norma relativa al Collegio Consultivo Tecnico è stata abrogata dal d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56.

Poi è stato reintrodotto in sede di conversione del d.l. 32/2019 (decreto Sblocca Cantieri) come istituto facoltativo a tempo fino all’entrata in vigore del regolamento unico (che avrebbe dovuto vedere la luce entro il mese di ottobre 2019) specificando che la proposta del Collegio Consultivo Tecnico non ha natura di transazione, salva diversa volontà delle parti (ne avevamo parlato anche qui).

Il decreto sblocca cantieri prevedeva che fino all’entrata in vigore del regolamento unico le parti contraenti possono nominare tale collegio, prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre novanta giorni da tale data, con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto stesso.

L’art. 6 del d.l. 76/2020 (decreto Semplificazioni) nell’abrogare le previsioni del decreto Sblocca Cantieri riporta in vita un Collegio Consultivo Tecnico in forma totalmente differente: le determinazioni del Collegio hanno infatti natura di lodo contrattuale di default.

A dimostrazione del quadro normativo «convulso» che caratterizza oggi l’intero settore dei contratti pubblici, va evidenziato che la disciplina del Collegio Consultivo Tecnico non è stata ricollocata in una norma del Codice dei contratti pubblici - d.lgs. 50/2016 - ma consegnata a norme a tempo del d.lgs. 76/2020: infatti la previsione sul Collegio Consultivo Tecnico è applicabile fino al 31.12.2021.

Il Collegio Consultivo Tecnico è un istituto di matrice internazionale, le ICC Disputes Board Rules (introdotte dall’International Chamber of Commerce) contengono all’art. 4 la disciplina del DRB.

Esso emette raccomandazioni circa le controversie che siano eventualmente insorte tra le parti. Le parti non sono tenute ad attenersi alle indicazioni del DRB, ma devono manifestare il loro eventuale dissenso con una comunicazione scritta da inoltrare all’altra parte entro 30 giorni dalla ricezione della raccomandazione stessa, altrimenti le indicazioni del DRB diventano vincolanti, non solo in relazione alla specifica controversia risolta, ma anche per il futuro.

La natura di lodo contrattuale ex art. 808 ter c.p.c. del Board italiano si allontana dalla esperienza internazionale del Dispute Board, ove le determinazioni, vincolanti o meno per le parti, oltre ad essere sempre ricorribili mediante azione giudiziaria – come essenziale elemento di garanzia per tutti gli interessi in gioco - possono avere valenza propedeutica rispetto al giudizio ordinario o arbitrale.

Fonti e soft law

In relazione alle fonti del Collegio Consultivo Tecnico, oltre agli artt. 5 e 6, d.l. 76/2020, è possibile annoverare provvedimenti dalla valenza interpretativa e non vincolante (soft law) quali:

  • ANAC, Delibera 9.3.2021 n. 206;
  • Linee guida per l’omogenea applicazione da parte delle s.a. delle funzioni del CCT, approvate dal Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici il 21.12.2020;
  • Testo scritto Presidente ANAC in occasione dell’audizione presso le Commissioni Lavori pubblici, Senato;
  • Istruzioni tecniche, linee guida, note e modulistica ANCI ottobre 2020;
  • Supporto giuridico MIT agosto 2020;
  • Indicazioni ITACA dicembre 2020 recepite con atti deliberativi di Giunta da diverse Regioni quali ad esempio Toscana Basilicata Veneto;
  • Parere Comitato Tecnico Appalti Pubblici, Fondazione Ordine Ingegneri Provincia di Roma del 3.2.2021 n. 7.

Ambito di applicazione

Collegio Consultivo Tecnico: criticità del nuovo istituto che nuovo non è. La natura di lodo contrattuale delle determinazioni.Limitatamente al Collegio obbligatorio, la norma del decreto Semplificazioni prevede le modalità di costituzione del Collegio Consultivo Tecnico senza fare però alcun riferimento alle conseguenze di un ritardo o di una mancata costituzione.

Ove il Collegio non venga istituito per mancato accordo o avvenga in ritardo non è prevista infatti una sanzione ma l’art. 6, co. 3, prevede che: «L’inosservanza delle determinazioni del Collegio Consultivo Tecnico viene valutata ai fini della responsabilità del soggetto agente per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali»

Per l’operatore economico si traduce in inosservanza dell’obbligo di leale collaborazione idoneo a giustificare la risoluzione del contratto.

Sull’ampiezza delle funzioni del Collegio Consultivo Tecnico, è stata da più parti evidenziato che l’accordo bonario ha già ad oggetto il tema delle riserve.

La norma del decreto Semplificazioni non delinea la tipologia delle controversie, ma se questo organismo è teso alla “rapida risoluzione delle controversie e delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili di insorgere nel corso dell’esecuzione del contratto”, le riserve ricadono senz’altro nelle sue competenze, dato che incidono anch’esse sull’esecuzione dei lavori e senza limiti di percentuale, come previsto per l’accordo bonario.

In relazione ai contratti in corso rientrano quindi anche le riserve già iscritte in registro di contabilità?

Ad avviso di chi scrive non v’è ragione di credere il contrario in assenza di un chiaro riferimento normativo in tal senso. Per il Collegio Superiore dei Lavori Pubblici vale il medesimo ragionamento anche se già formulate, e di percentuale rilevante rispetto al valore del contratto (purché non soggette ad altri accordi bonari o transazioni in corso).

La natura delle determinazioni

A mente dell’art.6, co. 3, decreto Semplificazioni, le determinazioni del Collegio Consultivo Tecnico hanno la natura di lodo contrattuale previsto dall’art. 808 ter c.p.c., salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse.

È chiara la natura di lodo contrattuale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c. che di default assumono le determinazioni del Collegio.

Tali provvedimenti del Collegio Consultivo Tecnico hanno valenza negoziale e di fatto integrano le pattuizioni del contratto siglato tra le parti. A rafforzare questa tesi vale quanto previsto dalla norma «l’inosservanza delle determinazioni è valutata ai fini della responsabilità per danno erariale e costituisce, salvo prova contraria, grave inadempimento degli obblighi contrattuali».

La valenza della decisione costituisce il fulcro dell’istituto, che lo differenzia dagli altri strumenti previsti per la soluzione anticipata delle controversie, accordo bonario in primis che, proprio per la mancata vincolatività nei confronti delle parti, è venuto a perdere sempre più affidabilità.

Le integrazioni operate sul contratto dalle determinazioni implicano la modifica dell’accordo, indi il mancato rispetto naturalmente si traduce in violazione del contratto.

L’osservanza delle determinazioni da parte della s.a. costituisce causa esclusione da responsabilità per danno erariale, salvo il dolo.

Si deroga dunque allo storico divieto gravante sulla P.A. di avvalersi dell’arbitrato irrituale o libero per la risoluzione delle controversie derivanti dai contrati di appalto pubblico (Cass. civ., 7759/2020; Cass. civ., 28533/2018; normativa comunitaria).

Secondo la giurisprudenza citata, la formazione della volontà contrattuale della P.A. non può essere delegata a terzi estranei giacché il perseguimento dell’interesse pubblico verrebbe affidato a soggetti sottratti a ogni controllo.

Al riguardo, vale chiarire che con l’arbitrato rituale, le parti hanno inteso demandare agli arbitri una funzione sostitutiva di quella del giudice: deroga alla competenza del giudice ordinario che ha natura eccezionale. Con l’arbitrato irrituale, le parti hanno inteso demandare agli arbitri la soluzione di determinate controversie in via negoziale come apprezzamenti tecnici (Trib. Catania, Sez. IV, 4.3.2020, n. 883; Cass. civ., Sez. II, 28.6.2000, n. 8788).

A sostegno e a favore della scelta operata dal legislatore (natura di lodo contrattuale) si potrebbe rilevare che il procedimento ne gioverebbe in termini di celerità.

Di contro, non può sottacersi che:

- impugnazione del lodo irrituale si ha solo in casi limitati (vizi di cui all’art. 808 ter c.p.c.: es. vizi di nomina o mancanza requisiti);

- non sembrano impugnabili per motivi di fatto e di diritto con una forte compressione del diritto di difesa.

Le determinazioni del CCT hanno la natura di lodo contrattuale previsto dall’art. 808 ter c.p.c., salva diversa e motivata volontà espressamente manifestata in forma scritta dalle parti stesse.

La norma non chiarisce in quale momento debba essere manifestata tale motivata volontà.

Nel silenzio della norma, appare ragionevole ritenere che tale volontà sia da definirsi prima della formalizzazione delle determinazione

 

 

 

 

 


Affitto di ramo d’azienda e irregolarità contributive: cause di esclusione anche per l’affittuario?

Affitto di ramo d’azienda e irregolarità contributive: cause di esclusione anche per l’affittuario?

Affitto di ramo d’azienda e irregolarità contributive: cause di esclusione anche per l’affittuario?Può l’affittuario essere gravato dalle cause di esclusione (nella specie, irregolarità contributive) ex art. 80, d.lgs. 50/2016 pendenti sull’affittante, in caso di affitto del ramo d’azienda?

All’esito di un appalto per l’affidamento di lavori di un polo scolastico, accadeva che veniva revocata l’aggiudicazione disposta nei confronti dell’impresa prima classificata (che veniva, contestualmente, esclusa dalla gara) – revoca motivata con la sussistenza di gravi irregolarità fiscali e contributive in capo all’impresa cedente il ramo d’azienda, tenuto conto dell’esistenza di elementi di continuità tra impresa cedente e cessionaria.

Avverso tale provvedimento veniva adito il TAR. Nello specifico, la ricorrente lamentava che:

- la stazione appaltante agiva in violazione del principio di tassatività delle cause di esclusione: ai sensi dell’articolo 80 Codice dei contratti pubblici, tali cause devono riferirsi all’impresa concorrente ovvero a soggetti ben determinati – e non, quindi, a soggetti terzi, quale può essere l’affittante il ramo d’azienda (tenuto altresì conto del fatto che, per espressa clausola del contratto d’affitto, non è previsto subingresso dell’affittante nei rapporti dell’affittuario stesso);

- è errato estendere al concorrente cause di esclusione imputabili a terzi soggetti: l’articolo 80, infatti, definisce le cause di esclusione come tipiche e di stretta interpretazione – sicché queste ultime non sarebbero suscettibili di estensione analogica dall’affittante all’affittuario.

Da parte sua, la stazione appaltante si limitava – costituendosi – ad evidenziare, da un lato, che in capo all’impresa cedente vi erano gravi irregolarità fiscali e contributive; dall’altro fa riferimento alla consolidata giurisprudenza in tema di cessione di ramo d’azienda, riassumibile nel brocardo “ubi commoda, ibi incommoda” fatto proprio dall’Adunanza Plenaria (sentenza 4 maggio 2012, n. 10).

Il Collegio rigetta il ricorso. Posto che sono dati incontestati sia l’avvenuto affitto di ramo d’azienda sia la sussistenza in capo al cedente di irregolarità contributive e fiscali, punto dirimente della controversia è accertare la rilevanza delle citate irregolarità che si traducono in cause di esclusione ex articolo 80, comma 4, nei confronti dell’affittuario del ramo d’azienda.

Il TAR evidenzia la rilevanza di tale circostanza, affermando che:

  1. il contratto tra le parti rientra nello schema tipico della cessione di ramo d’azienda, il che è sintomatico della continuità – tenuto conto del fatto che vengono trasferiti tanto la disponibilità dell’azienda, quanto i requisiti di ordine tecnico-organizzativo;
  2. chiarita la sussistenza della continuità aziendale, da ciò deriva – quale conseguenza – la trasmissione all’affittuario sia dei requisiti posseduti dall’affittante ai fini della partecipazione alla gara, sia delle conseguenze negative (ossia le irregolarità citate) in virtù del richiamato principio “ubi commoda, ibi incommoda”. Diversamente opinando, il contratto di affitto di ramo d’azienda costituirebbe un comodo mezzo per aggirare gli obblighi imperativi ed inderogabili di cui al Codice degli Appalti.

Né può pervenirsi a conclusioni diverse, sostiene il Collegio, laddove si valorizzasse “la clausola contenuta nel contratto d’affitto alla stregua della quale tutti i debiti sorti anteriormente alla stipula del contratto d’affitto resterebbero a carico del locatore, sia per il principio di c.d. relatività del contratto di cui all’art. 1372 c.c. che soprattutto per l’indisponibilità della normativa imperativa di diritto pubblico che disciplina la partecipazione alle procedure di affidamento degli appalti pubblici”.

(TAR Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 12.4.2021, n. 381)