Appalti pubblici e compensazione prezzi per aumento costi materiali da costruzione: estensione anche al primo semestre 2022

Revisione dei prezzi e aumento costi materiali: istanza entro 15 giorni a pena di decadenza. L’appaltatore “non informato” rischia di non accedere alla compensazione.

Revisione dei prezzi e aumento costi materiali: istanza entro 15 giorni a pena di decadenza. L’appaltatore “non informato” rischia di non accedere alla compensazione.In tema di appalti pubblici, l’aumento dei costi dei materiali da costruzione, che negli ultimi mesi ha raggiunto anche +130% nel caso dell’acciaio, ha portato, dopo numerose segnalazioni (tra le associazioni di categoria, ANCE, ACER e Confartigianato hanno da subito segnalato la criticità) all’approvazione di una norma sulla compensazione contenuta nel decreto Sostegni bis (d.l. 73/2021 convertito in l. 106/2021).

Abbiamo parlato a lungo della questione aumento costi materiali da costruzione e appalti pubblici anche in un video del nostro canale YouTube Punto al diritto.

L’art. 1 septies rubricato “Disposizioni urgenti in materia di revisione dei prezzi dei materiali nei contratti pubblici”, in vigore dal 24 luglio 2021, è stato introdotto in sede conversione del decreto Sostegni bis, per far fronte ai rincari che gli operatori economici stanno subendo e al fine di evitare lo stallo dei cantieri.

Tuttavia, come spesso accade in caso di norme approvate nel periodo estivo, l’appaltatore poco informato e poco attento alla pubblicazione in gazzetta ufficiale di provvedimenti attuativi durante le ferie rischia di non poter accedere alla compensazione.

Ma andiamo con ordine.

La disposizione prevede che per fronteggiare gli aumenti eccezionali dei  prezzi  di  alcuni materiali da costruzione verificatisi tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2021, il  Ministero delle infrastrutture e della mobilità sostenibili debba rilevare,  entro  il 31 ottobre 2021, con decreto, le variazioni  percentuali,  in aumento o in diminuzione, superiori all'8%, verificatesi nel primo semestre dell'anno 2021, dei singoli prezzi  dei  materiali  da costruzione più significativi.

La disposizione si applica ai contratti in corso di esecuzione alla data di entrata  in vigore della legge di conversione del decreto Sostegni bis e dunque ai contratti in esecuzione al 24 luglio 2021.

Per i materiali da costruzione in questione si  procederà dunque a compensazioni, in aumento o in diminuzione,  nei  limiti  di  cui  diremo a breve, anche  in  deroga  a  quanto previsto dall'art. 133, commi 4, 5, 6 e  6-bis,  del  codice  dei contratti pubblici previgente (d.lgs. 163/2006) e in  deroga  all’art. 106,  comma  1,  lettera  a),  del  codice vigente (d.lgs. 50/2016), determinate  al  netto   delle   compensazioni   eventualmente   già  riconosciute o liquidate in relazione  al  primo  semestre  dell'anno 2021, ai sensi del medesimo articolo 106, comma 1, lettera a).

Le stazioni appaltanti  provvederanno  alle  compensazioni  nei limiti del 50% delle risorse appositamente  accantonate  per imprevisti nel quadro economico di ogni intervento,  fatte  salve  le somme relative agli impegni contrattuali  già  assunti,  nonché  le eventuali ulteriori somme a disposizione  della  stazione  appaltante per lo stesso intervento e stanziate annualmente. Possono,  altresì, essere utilizzate le somme derivanti da ribassi d'asta,  qualora  non ne sia prevista una  diversa  destinazione  sulla  base  delle  norme vigenti, nonche' le somme disponibili relative  ad  altri  interventi ultimati di competenza della medesima stazione  appaltante  e  per  i quali  siano  stati  eseguiti  i  relativi  collaudi  ed  emanati   i certificati di  regolare  esecuzione  nel  rispetto  delle  procedure contabili della spesa, nei limiti  della  residua  spesa  autorizzata disponibile alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.

Per i soggetti tenuti all'applicazione  del  codice  dei contratti pubblici (previgente e vigente), con esclusione dei concessionari lavori pubblici che non sono amministrazioni aggiudicatrici, in caso di insufficienza delle risorse delle stazioni appaltante (già provate dagli imprevisti incrementi di costo extra covid-19 come il riconoscimento alle imprese degli oneri di sicurezza),  alla  copertura  degli  oneri  si provvederà accedendo al Fondo per l'adeguamento dei prezzi fino alla concorrenza dell'importo di 100 milioni di  euro, che costituisce limite massimo di spesa, con le modalità indicate nel decreto che sarà adottato dal MIMS “garantendo la parità' di accesso  per  le  piccole,  medie  e  grandi imprese di costruzione, nonché la proporzionalità, per  gli  aventi diritto, nell'assegnazione delle risorse”.

La compensazione è automatica o è prevista un’azione in capo all’appaltatore?

L’art. 1 septies, comma 4, è una norma da portare all’attenzione degli appaltatori.

Secondo tale disposizione, per le variazioni in aumento, l'appaltatore è tenuto a presentare, a pena di decadenza, alla stazione appaltante una istanza  di  compensazione  entro 15 giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta  Ufficiale del decreto attuativo del MIMS.

Attenzione, dunque, l’appaltatore che non presenta la predetta istanza nei termini descritti non potrà avere diritto ad alcuna compensazione per l’aumento dei costi dei materiali da costruzione.

Il MIMS ha tempo fino al 31 ottobre 2021 per emanare il decreto, ciò significa che potrebbe essere adottato il 10 ottobre come il 1 agosto e da tale data iniziano a decorrere i 15 giorni entro i quali presentare a pena di decadenza l’istanza di compensazione alla stazione appaltante (una nota per il nostro legislatore: sarebbe opportuno parlare di committente e non di stazione appaltante, giacché siamo in esecuzione del contratto e l’appalto è già stato affidato?).

Durante l’estate 2021, gli appaltatori dovrebbero dunque attentamente monitorare la questione facendo attenzione a quando sarà pubblicato il decreto del MIMS.


I contratti attivi e l’emergenza sanitaria. Riduzione dei canoni di locazione commerciale (ristorazione etc.) ad opera della Pubblica amministrazione

I contratti attivi e l’emergenza sanitaria. Riduzione dei canoni di locazione commerciale (ristorazione etc.) ad opera della Pubblica amministrazione.

I contratti attivi e l’emergenza sanitaria. Riduzione dei canoni di locazione commerciale (ristorazione etc.) ad opera della Pubblica amministrazioneNegli ultimi 14 mesi ci siamo spesso interrogati sulla incidenza dell'emergenza sanitaria sui contratti di locazione commerciale (strutture ricettive, ristorazione etc), ne abbiamo parlato a lungo nelle nostre live: il tema dell’Act of God e la riduzione del canone di locazione.

Ho monitorato l'evoluzione della giurisprudenza sulla possibilità di rinegoziare i contratti privati di locazione, da ultimo nella rubrica Sabato Sole (in onda ogni sabato mattina sul profilo instagram rosamariaberloco) di qualche giorno fa ho fatto menzione di una recente ordinanza del Tribunale di Venezia – segnalata da il sole 24 ore con la numero 2539 - che aprirebbe finanche alla "seconda" rinegoziazione (rinegoziato in occasione del primo lockdown, sarebbe possibile rinegoziare di nuovo in ragione delle chiusure disposte nel secondo lockdown).

La questione rileva anche nei rapporti con la Pubblica amministrazione.

È possibile rinegoziare, su richiesta, i contratti di locazione di diritto privato stipulati tra un Comune e le imprese esercenti le attività di somministrazione alimenti e bevande, commerciali e artigianali? Più in particolare, è possibile per i locali comunali locati alle predette attività economiche ridurre il canone per l’emergenza Covdi-19?

Alla domanda risponde la Corte dei Conti in Sezioni riunite di controllo per l’Emilia Romagna con provvedimento del 17.5.2021 n. 7/SSRRCO/QMIG/21.

Una breve premessa sui contratti di locazione tra privati

L’attuale emergenza sanitaria si è abbattuta sulla nostra economia come un ciclone inaspettato. Innumerevoli sono stati gli interventi governativi, adottati per lo più con d.P.C.M., che hanno contribuito a creare scompiglio tra gli operatori di ogni settore per mancanza di coordinamento tra loro. Ricordiamo che lo stato di emergenza, in scadenza il 31.7.2021, potrebbe essere prorogato, si ipotizza fino a dicembre.

La cosiddetta “Decretografia” Conte (come anche la “Dragografia”, visto che l’attuale Governo sembra seguire la medesima linea nella gestione dell’emergenza) ha imposto molto spesso chiusure di attività (strutture ricettive, ristorazione etc.) per poi concedere timide aperture a determinate condizioni di sicurezza.

Si sono susseguite diverse misure restrittive, spesso sotto forma di ordinanze di necessità e urgenza, assunte da regioni, province e comuni: chiusura totale ovvero in determinate fasce orarie, preclusione per la potenziale utenza di raggiungere gli esercizi di ristorazione, limitazione del numero di clienti presenti all’interno dei locali.

In attesa di una ripartenza, diversi atti normativi hanno provveduto a compensare, almeno in parte, i gestori delle attività oggetto di restrizione per la diminuzione del proprio utile di esercizio, con ristori o sostegni. Essi sono stati variamente modulati in strumenti quali il differimento dei tributi, la sospensione temporanea o definitiva della riscossione di entrate pubblicistiche, la corresponsione diretta di misure di ristoro o l’adozione di altre misure compensative.

Come è facile intuire, la situazione descritta, pur se in parte oggetto di ristori e sostegni di varia natura, ha posto il problema di adeguare i rapporti contrattuali, determinanti costi fissi, degli operatori dei settori colpiti dalla contingenza giacché le circostanze sopravvenute in corso di esecuzione del contratto hanno di fatto alterato gli equilibri tra le parti.

L’attuale emergenza sanitaria, oltre che evento imprevedibile, presenta anche il carattere della “straordinarietà”, non essendosi verificato nel nostro Paese in epoca recente.

In tale scenario, diversi sono stati gli interventi del Legislatore.

Una delle disposizioni centrali della normativa emergenziale è data dall’art. 91 del d.l. 18/2020 (cd. Cura Italia) a mente del quale “Il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto (ndr riferito al d.l. 23 febbraio 2020, n. 6) è sempre valutata ai fini dell’esclusione, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1218 e 1223 c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.

La disposizione individua espressamente il rispetto delle misure di contenimento previste dalla decretazione di urgenza come elemento rilevante ai fini dell’applicazione della disciplina generale codicistica della “forza maggiore”, intesa quale circostanza non imputabile al debitore, idonea a escludere la responsabilità da inadempimento.

Tra le altre, l’art. 216 del d.l. n. 34/2020, in ragione della sospensione delle attività sportive nel periodo dell’emergenza, ha conferito un diritto alla rinegoziazione al concessionario di impianti sportivi pubblici, a pena di recesso dal rapporto in corso.

Tali norme evidenziano la possibile influenza dell’emergenza pandemica sui rapporti sinallagmatici, in quanto evento potenzialmente esulante dall’alea a carico del debitore e del rischio di impresa.

Le prime pronunce in tema di contratti di locazione commerciale colpiti dalla contingenza sanitaria hanno confermato la possibilità di rimodulare (ridurre) i canoni di locazione.

Tra queste si ricorda l’ordinanza del Tribunale di Roma, Sez. VI, 27 agosto 2020, n. 29683 avente ad oggetto un contratto di locazione di immobile commerciale adibito a ristorazione.

In via cautelare, il Tribunale ha infatti disposto la riduzione del canone di locazione del 40% per i mesi di aprile e maggio, e del 20% da giugno 2020 a marzo 2021, oltre alla sospensione della garanzia fideiussoria.

Il Tribunale ha ritenuto che la crisi economica cagionata dalla pandemia e la chiusura forzata delle attività commerciali devono qualificarsi quale “sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale”. In particolare, nel caso delle locazioni commerciali, il contratto è stato stipulato sul presupposto di un impiego dell’immobile per l’effettivo svolgimento di attività produttiva.

L’argomento in questione è stato oggetto di una Relazione della Corte di Cassazione (Cass. Civile, Relazione n. 56 dell’8 Luglio 2020), in cui è dato leggere che, al ricorrere di determinate circostanze, da valutarsi in concreto e caso per caso, sarebbe possibile procedere alla rinegoziazione dei contratti.

La rinegoziazione dei contratti di locazione con la Pubblica amministrazione. La richiesta di un privato di riduzione dei canoni al Comune.

La questione sottoposta alla Corte dei Conti nasce dalla richiesta di parere di un Comune.

Il quesito posto recita: “stante la vigente situazione di difficoltà economica delle attività di somministrazione alimenti e bevande, commerciali e artigianali, conseguente alle misure restrittive imposte dall’emergenza sanitaria, è possibile rinegoziare, su richiesta, i contratti di locazione di diritto privato stipulati tra un Comune e le imprese esercenti le suddette attività” ?

La Corte, premesse talune considerazioni tra quelle sopra esposte a proposito dei contratti di natura privata e più in generale con riferimento alla causa di forza maggiore dell’emergenza sanitaria, afferma che “nella presente sede non deve essere valutato, con l’ottica tipica del giudice civile, se il contraente privato di uno dei rapporti descritti abbia, o meno, diritto alla menzionata rinegoziazione. Il thema decidendum della deliberazione è, piuttosto, valutare se la pubblica amministrazione, in assenza di azione giudiziaria proposta dalla controparte, possa concordare su istanza di quest’ultima e a proprio detrimento una diminuzione della prestazione alla stessa spettante”.

Come è dato leggere nel provvedimento, a favore della possibilità di rimodulazione dei rapporti contrattuali intercorrenti tra enti pubblici e soggetti privati esercenti attività di ristorazione militano argomenti logico-giuridici di non scarsa portata.

Tra questi, il fatto che, anche alle pubbliche amministrazioni sono applicabili i principi del diritto comune dei contratti, desumibili dal dato normativo e, in parte, giurisprudenziale, di più stretta attualità. Nel corso degli ultimi anni, la giurisprudenza ha infatti conferito all’accordo negoziale delle parti un carattere sempre più duttile e flessibile, in modo da consentire l’adeguamento dell’accordo originario in ragione del dato fattuale sopravvenuto.

La richiesta di parere fa riferimento all’art. 1467, comma 3, c.c. che disciplina la reductio ad aequitatem offerta dalla parte nei cui confronti sia domandata la risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta, al fine di evitare la caducazione del vincolo contrattuale.

La norma  si applica:

  • ai “contratti a esecuzione continuata o periodica ovvero a esecuzione differita”;
  • se “la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili”, salvo che la sopravvenuta onerosità rientri nell'alea normale del contratto.

La norma richiede la sopravvenienza di uno squilibrio oggettivo tra le prestazioni dedotte nel sinallagma, non inquadrabile nell’alea normale del contratto, tipicamente ravvisabile nell’aumento del costo della prestazione da eseguire; non sembrerebbe rientrarvi la diminuzione del valore di quella ricevuta, ragion per cui la risposta al parere dovrebbe essere negativa, tuttavia l’evoluzione giurisprudenziale ha attratto all’interno della norma anche l’ipotesi da ultimo descritta.

A questo proposito, la Corte afferma che in giurisprudenza, proprio in considerazione della non ricorrente sussistenza di entrambi i presupposti normativi in contratti di significativa importanza e anche in ragione della mancanza di una definizione di “eccessiva onerosità sopravvenuta” da parte de legislatore, sono stati individuati ulteriori strumenti di riequilibrio del rapporto.

Il riferimento è all’articolo 1664 c.c., in materia di revisione del prezzo nei contratti di appalto privato, nonché all’art. 106 nel Codice dei contratti pubblici.

Ma ulteriori sono gli strumenti idonei a fondare l’obbligo di rinegoziazione, in presenza di mutate condizioni di mercato. Il punto di partenza di tale operazione è rappresentato, ad avviso della Corte, dall’art. 1175 c.c., che nei rapporti obbligatori impone alle parti il dovere di rispettare “le regole della correttezza” e dall’art. 1375 c.c., che contempla l’esecuzione del rapporto contrattuale “secondo buona fede.

L’eccezionale impatto della pandemia e della conseguente crisi dei consumi infatti sembra stiano già imprimendo una accelerazione all’accoglimento, anche a livello giurisprudenziale, di istanze dirette a far scaturire dai menzionati principi generali un obbligo diffuso di rinegoziazione, sotto pena di intervento del giudice.

Di tanto vi è conferma nell’ordinanza del Tribunale di Roma sopra citata (n. 29683/2020) che ha accolto la richiesta di riduzione dei canoni poiché, proprio dalla clausola generale di “buona fede e correttezza”, deriva un obbligo delle parti di contrattare al fine di addivenire ad un nuovo accordo volto a riportare in equilibrio il contratto entro limiti dell’alea normale”. E ancora, una simile clausola ha proprio la “funzione di rendere flessibile l’ordinamento, consentendo la tutela di fattispecie non contemplate dal legislatore”.

Appare dunque meritevole di apprezzamento l’opzione di rinegoziazione avanzata dal Comune perché diretta a perseguire la salvaguardia del rapporto contrattuale in corso e a soddisfare ragioni di indubbio interesse pubblicistico, evitando tra l’altro azioni giudiziarie del privato.

Del resto la risoluzione del contratto potrebbe esplicare, per la Pubblica amministrazione concedente, effetti particolarmente sfavorevoli.

Difatti, caduto il vincolo contrattuale con l’attuale contraente, l’utilizzazione del bene ritornato nella disponibilità dell’ente, in astratto potrebbe essere gestita direttamente da quest’ultimo per finalità di interesse pubblico, ovvero essere nuovamente affidata nel rispetto dei principi di trasparenza e concorrenzialità. Tuttavia, in una situazione economica oggettivamente non favorevole, appare inverosimile che la medesima amministrazione possa riuscire a gestirlo percependo un corrispettivo più elevato rispetto a quello conseguito con il precedente conduttore dell’immobile.

In conclusione, pur ritenendo ammissibile la rinegoziazione e quindi una riduzione del canone dei locali comunali, l’Amministrazione deve rispettare una serie di cautele.

Ribadito che il factum principis della chiusura dell’esercizio commerciale per ragioni sanitarie e diminuzione della propensione al consumo non sempre può essere ricondotto all’ipotesi di “prestazione eccessivamente onerosa” legittimante la risoluzione del contratto e idonea a legittimare la rinegoziazione, e che alla modifica del rapporto contrattuale non può essere attribuita una finalità, per quanto lodevole, di ristoro delle perdite subite dal gestore (funzione eventualmente svolta da altri istituti di sostegno), l’ente locale dovrà attentamente valutare se i provvedimenti restrittivi e le mutate condizioni generali di mercato abbiano, o meno, determinato una significativa diminuzione del valore di mercato del bene locato, tale da rendere lo iato particolarmente significativo, rispetto al corrispettivo pattuito nell’accordo originario.

Va rammentato che anche laddove operi iure privatorum nella fase attuativa del rapporto negoziale, la Pubblica amministrazione è tenuta al perseguimento dell’interesse pubblico.

Innanzitutto, il principio di efficiente gestione delle risorse patrimoniali di pertinenza della pubblica amministrazione comporta, da un lato, che esse siano attribuite secondo i citati principi di trasparenza e concorrenzialità, dall’altro, che, in ogni caso, gravi sull’ente pubblico titolare un obbligo di valorizzarle nella misura massima possibile.

Quanto al primo aspetto, rileva l’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 59/2010, di attuazione della direttiva 2006/123/CE relativa ai servizi nel mercato interno che impone, laddove risorse naturali naturalmente limitate (come appunto i beni pubblici) condizionino l’esercizio di una determinata prestazione di servizi, l’obbligo di selezione comparativa e imparziale tra i diversi aspiranti.

Un accoglimento indiscriminato delle richieste di rinegoziazione dei privati, potrebbe porsi in contrasto con il principio di selezione comparativa del contraente. Infatti, il privato conduttore di un bene di titolarità di un ente locale potrebbe protrarre indebitamente il proprio rapporto contrattuale con la P.A. a condizioni significativamente diverse rispetto a quelle iniziali. L’eventuale accoglimento di tali richieste dovrà quindi rispettare, salva la variazione del prezzo, gli elementi essenziali dell’accordo originario, soprattutto in relazione alla durata

Quanto al secondo aspetto, rileva l’art. 58 del d.l. n. 112/2008, convertito dalla l. n. 133/2008, che ha disciplinato in modo dettagliato la valorizzazione del patrimonio immobiliare delle regioni e degli enti locali. I relativi proventi, infatti, affluiscono al bilancio dell’ente quali entrate, con la conseguenza che la gestione profittevole dei propri beni rientra tra le modalità con cui tali soggetti finanziano i rispettivi interventi di interesse generale.

A fronte della riduzione del corrispettivo per il godimento concesso al privato, l’ente dovrebbe reperire altrove le risorse per finanziare le proprie attività istituzionali, realizzando una specifica variazione del bilancio.

Al fine di perseguire le più volte rappresentate esigenze di correttezza e trasparenza, la valutazione di tutti gli elementi menzionati dovrà essere esternata nella motivazione dei provvedimenti amministrativi.

Orbene, conclude la Corte, gli enti locali, in presenza di una richiesta di riduzione del corrispettivo dei contratti di locazione di diritto privato stipulati con imprese esercenti attività di ristorazione (ma lo stesso dicasi più i generale per le attività di somministrazione di bevande e alimenti, commerciali e artigianali), motivata dai plurimi provvedimenti di chiusura al pubblico emanati nel corso dell’emergenza COVID-19, e dalla conseguente crisi economica, possono assentirvi, in via temporanea, all’esito di una ponderazione dei diversi interessi coinvolti, da esternare nella motivazione del relativo provvedimento, in particolare considerando elementi quali:

  1. la significativa diminuzione del valore di mercato del bene locato;
  2. l’impossibilità, in caso di cessazione del rapporto con il privato, di utilizzare in modo proficuo per la collettività il bene restituito, tramite gestione diretta ovvero locazione che consenta la percezione di un corrispettivo analogo a quello concordato con l’attuale gestore o, comunque, superiore a quello derivante dalla riduzione prospettata;
  3. la possibilità di salvaguardia degli equilibri di bilancio dell’ente, e nello specifico la mancanza di pregiudizio alle risorse con cui la medesima amministrazione finanzia spese, di rilievo sociale, del pari connesse alla corrente emergenza epidemiologica, anche alla luce della diminuita capacità di entrata sempre correlata alla situazione contingente.

(Corte dei Conti, Sezioni Riunite, Emilia Romagna n. 7/SSRRCO/QMIG/21 del 17.5.2021)


Subappalto, terna dei subappaltatori e verifiche art. 80: la sospensione della norma si applica anche alle gare in corso?

Subappalto, terna dei subappaltatori e verifiche art. 80: la sospensione della norma si applica anche alle gare in corso?

Subappalto, terna dei subappaltatori e verifiche art. 80: la sospensione della norma si applica anche alle gare in corso?La sospensione della norma relativa all’obbligo di indicare la terna dei subappaltatori – e di effettuare verifiche ex art. 80 d.lgs. 50/2016 anche in capo ai subappaltatori - da parte del decreto Sblocca Cantieri si applica anche alle gare in corso al momento in cui la norma è stata sospesa? 

Una recente sentenza del TAR Lazio esprime un principio che potrebbe essere utile a comprendere finanche l’ambito di applicazione delle ultime modifiche apportate in tema di subappalto (percentuale 50%) ad opera del decreto Semplificazioni (d.l. 77/2021 non ancora convertito in legge).

Parliamo di una procedura aperta bandita il 7.11.2018, quindi periodo antecedente all’entrata in vigore del decreto Sblocca Cantieri del 2019.Alla gara partecipa una società che nominava come subappaltatore un Consorzio, nell’ambito della terna (all’epoca era vigente l’obbligo relativo alla terna dei subappaltatori).

In vista dell’aggiudicazione (settembre 2020, quindi momento in cui lo Sblocca Cantieri era già in vigore) la stazione appaltante esaurita la fase di valutazione delle offerte chiede all’operatore un aggiornamento delle dichiarazioni rese in gara.Ebbene, la consorziata del Consorzio facente parte della terna dei subappaltatori, fa presente di aver subito nelle more della procedura una modifica del legale rappresentante e al contempo dichiarava in capo allo stesso sentenze di condanna che di fatto configuravano una causa di esclusione obbligatoria ai sensi del predetto art. 80.

Il Consorzio indicato in terna comunica immediatamente alla stazione appaltante di aver provveduto a escludere dalla propria compagine (consorzio) il soggetto colpito dalla causa di esclusione obbligatoria, confermando di possedere i requisiti generali di partecipazione (in capo alla rimanenza dei soci).

La stazione appaltante tuttavia conferma l’esclusione dalla gara nei confronti dell’operatore per due motivi:

1. la consorziata (suo legale rappresentante) colpita dalla causa di esclusione obbligatoria veniva esclusa ai sensi dell’art. 80, d.lgs. 50/2016;

2. l’operatore veniva escluso perché l’art. 80 estenderebbe la causa di esclusione anche al subappaltatore.

Si apre così il giudizio innanzi al TAR per l’impugnativa del provvedimento di esclusione, sentenza non appellata, e il TAR annulla il provvedimento di esclusione accogliendo i motivi del ricorrente.

Quest'ultimo, nel censurare l’operato dell’amministrazione, sostiene che il legislatore, con la disposizione del decreto Sblocca Cantieri, non solo aveva previsto che gli operatori economici non fossero tenuti ad indicare la terna dei subappaltatori fino al 31.12.2021, ma anche che le stazioni appaltanti fossero esonerate dall’obbligo di effettuare le verifiche in merito alla possibile sussistenza di cause di esclusione in capo ai subappaltatori per quel che riguarda la fase di gara (obbligo che, invece, permaneva per quel che riguarda la successiva fase esecutiva).

Nell’accogliere il ricorso, il Collegio, a una interpretazione basata sul principio del tempus regit actum preferisce una interpretazione euro-orientata dell’articolo 1, comma 18, d.l. 32/2019 – come sancito dall’Adunanza Plenaria, secondo la quale “il giudice (…) se ha un dubbio sull’interpretazione del diritto nazionale è tenuto ad interpretare la disciplina interna in senso conforme alla lettera e allo scopo di quella europea al fine di conseguire il risultato da essa perseguito” (così Cons. St., Ad. Plen., 4.11.2016, n. 23).

Da ciò deriva, quindi, la necessità di definire il campo di applicazione dell’articolo 1, comma 18, decreto Sblocca Cantieri– ossia rispondere all’interrogativo: “la norma trova applicazione solo alle le gare bandite dopo la sua entrata in vigore?”.

Il nostro Paese ha subito una procedura di infrazione che prevede che la nostra disciplina in materia di contratti pubblici avente ad oggetto il subappalto in particolare non è conforme alle direttive comunitarie.

Secondo il TAR, il legislatore risponde, seppur provvisoriamente, alla procedura di infrazione proprio con la norma del decreto Sblocca Cantieri (una risposta definitiva potrebbe arrivare con la conversione del decreto Semplificazioni 77/2021).

La ratio della disposizione del decreto Sblocca Cantieri, ad avviso del TAR, è porre rimedio alla procedura di infrazione. Pertanto, essa dovrebbe avere immediata applicazione anche con riferimento alle gare che sono in corso al momento della sua entrata in vigore.

La pronuncia è importante per diversi motivi, giacché il principio espresso (ratio della norma come risposta alla procedura di infrazione) potrebbe costituire una risposta finanche all’interrogativo “la disciplina transitoria fino al 31.10.2021 che prevede il limite del 50% del subappalto è applicabile anche alle procedure bandite prima dell’entrata in vigore delle modifiche?”.

Conclude il TAR affermando che la norma contenuta nell’art. 1, comma 18, del decreto Sblocca Cantieri (d.l. 32/2019) trova applicazione anche nelle gare bandite prima della sua entrata in vigore in quanto soluzione ermeneutica conforme al diritto comunitario.

(TAR Lazio Roma, Sez. II, 18.5.2021, n. 5837)


La storia infinita del subappalto negli appalti pubblici tra giurisprudenza e decreto semplificazioni limite sì, limite no.

La storia infinita del subappalto negli appalti pubblici tra giurisprudenza e decreto semplificazioni: limite sì, limite no.

La storia infinita del subappalto negli appalti pubblici tra giurisprudenza e decreto semplificazioni limite sì, limite no. Torniamo a parlare dell’istituto del subappalto negli appalti pubblici, limite sì, limite no: tema particolarmente caro al nostro Legislatore, il quale, quasi a emulare il romanzo fiabesco “La storia infinita” di Michael Ende, tenta di trovare una soluzione “al male” arrecato dalla UE con la procedura di infrazione contro l’Italia.

Giuristi e operatori ricorderanno molto bene le numerose modifiche subite dall’art. 105, d.lgs. 50/2016, e altrettanto bene ricorderanno la tarantella – ad oggi ancora “in ballo” – sulla percentuale massima di prestazioni subappaltabili, (40% - 30%).

Come noto, l’art. 105, co. 2, stabilisce che “il subappalto è il contratto con il quale l’appaltatore affida a terzi l’esecuzione di parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto di appalto. (…) l’eventuale subappalto non può superare la quota del 30 per cento dell’importo complessivo di lavori, servizi o forniture (…)”.

Il limite del 30%, fino a due anni fa, costituiva la regola generale.

Con il decreto Sblocca Cantieri, n. 32/2019, convertito in l. 55/2019, il Legislatore interviene innalzando il limite della quota subappaltabile fino al 31.12.2020 determinandola nel 40% del valore complessivo dell’appalto.

Con il decreto “Milleproroghe 2021” (art. 13) viene prorogato il limite del 40 % dello Sblocca cantieri sino al 31.12.2021.

A questo punto, con il decreto Semplificazioni n. 77/2021 (in attesa di conversione), il Legislatore, ancora una volta, rivede l’istituto del subappalto con una disciplina transitoria ed una a regime:

  • dal 1.6.2021 al 31.10.2021, il subappalto è consentito fino al 50% dell’importo complessivo del contratto di lavori, servizi e forniture (periodo transitorio);
  • dal 1.11.2021 non è previsto alcun limite per il ricorso al subappalto. La stazione appaltante dovrà operare una valutazione “gara per gara”, sull’eventuale limitazione dell’istituto (cd liberalizzazione del subappalto a regime).

Non può sottacersi che il subappalto è da sempre motivo di conflitto tra l’Europa e l’Italia.

Difatti, la Commissione europea con lettera di messa in mora inviata il 24.1.2019 ha avviato la procedura di infrazione contro l’Italia (alla quale seguono le note pronunce della Corte di Giustizia UE del 2019), sottolineando la circostanza che la disciplina del subappalto italiana si pone in contrasto con la normativa comunitaria e i principi eurocomunitari.

In particolare, per quanto riguarda i limiti quantitativi, la Commissione osserva che “nelle direttive 2014/23/UE, 2014/24/UE e 2014/25/UE non vi sono disposizioni che consentano un siffatto limite obbligatorio all’importo dei contratti pubblici che può essere subappaltato. Al contrario, le direttive si basano sul principio secondo cui occorre favorire una maggiore partecipazione delle piccole e medie imprese (PMI) agli appalti pubblici, e il subappalto è uno dei modi in cui tale obiettivo può essere raggiunto. Conformemente a tale approccio, l’art. 63, paragrafo 2, della direttiva 2014/24/UE consente alle amministrazioni aggiudicatrici di limitare il diritto degli offerenti di ricorrere al subappalto, ma solo ove siffatta restrizione sia giustificata dalla particolare natura delle prestazioni da svolgere”.

Nello scenario appena descritto, si registrano pronunce giurisprudenziali spesso discordanti sulla legittimità del predetto limite quantitativo.

Difatti, il TAR Lazio (sentenza del 15.12.2020, n. 13527) si esprime in modo diametralmente opposto a quanto affermato dal Consiglio di Stato (sentenza del 17.12.2020, n. 8101) a distanza di soli due giorni:

  • il TAR ritiene legittimo il limite quantitativo per il ricorso al subappalto;
  • il Consiglio di Stato ribadisce la necessità di adeguare la normativa nazionale alla disciplina europea, secondo la quale deve prevalere il principio di massima partecipazione delle piccole e medie imprese, e quindi, il massimo utilizzo possibile dello strumento del subappalto.

La decisone del TAR Lazio

In particolare, il TAR Lazio conferma la legittimità del limite quantitativo previsto dall’art. 105, co. 2, d.lgs. 50/2016 – individuato nella misura del 40% fino al 31.12.2021.

Nel caso di specie, la ricorrente lamenta l’illegittimità della lex specialis che fissava nel 30% il limite al subappalto. Secondo la ricorrente, tale previsione contrastava con:

  • il decreto Sblocca Cantieri, che aveva portato la quota subappaltabile al 40%;
  • le pronunce della CGUE.

Il Collegio prende le mosse dalle indicazioni rese in ambito comunitario e nel rigettare il ricorso afferma che la pronuncia della Corte, “pur avendo censurato il limite al subappalto previsto dal diritto interno nella soglia del 30%, non esclude la compatibilità con il diritto dell’Unione di limiti superiori”, nel senso che la Corte ha sì “considerato in contrasto con le direttive comunitarie in materia il limite fissato”, ma non esclude “invece che il legislatore nazionale possa individuare comunque, al fine di evitare ostacoli al controllo dei soggetti aggiudicatari (ndr. di evitare infiltrazioni mafiose), un limite al subappalto proporzionato rispetto a tale obiettivo”, cosicché “non può ritenersi contrastante con il diritto comunitario l’attuale limite pari al 40%” previsto dall’art. 1, comma 18, della legge n. 55/2019.

A fronte di siffatte considerazioni, il TAR rigetta il ricorso affermando che è legittimo prevedere limiti al subappalto (inferiori al 40%).

La pronuncia del Consiglio di Stato

A distanza di qualche giorno rispetto alla pronuncia del TAR Lazio, il Consiglio di Stato è chiamato a pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto l’affidamento di una concessione di servizi pubblici di ristorazione da parte di un Comune.

In particolare, la seconda classificata deduce l’illegittimità dell’aggiudicazione, poiché l’aggiudicataria aveva espresso la volontà di subappaltare a terzi in misura eccedente il limite del 30% dell’importo complessivo dell’appalto.

Ebbene, i Giudici di Palazzo Spada, in netto contrasto con l’orientamento espresso dal TAR Lazio, affermano che “(…) la norma dei contratti pubblici che pone limiti al subappalto deve essere disapplicata in quanto incompatibile con l’ordinamento euro – comunitario, come affermato dalla Corte di Giustizia (Corte di Giustizia U.E., Sezione Quinta, 26 settembre 2019, C-63/18; Id., 27 novembre 2019, C-402/18; in termini Consiglio di Stato, sez. V, 16 gennaio 2020, n. 389, che ha puntualmente rilevato come i limiti ad esso relativi (30 per cento) secondo la formulazione del comma 2 della disposizione richiamata applicabile ratione temporis, (…) deve ritenersi superato per effetto delle sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea”.

Tanto è stato confermato anche di recente, con sentenza del 31.5.2021, ove il Consiglio di Stato afferma che "va data continuità all’indirizzo giurisprudenziale secondo cui la norma del Codice dei contratti pubblici che pone limiti al subappalto deve essere disapplicata in quanto incompatibile con l’ordinamento euro-unitario, come affermato dalla Corte di Giustizia nelle pronunce Sezione Quinta, 26 settembre 2019, C-63/18, e 27 novembre 2019, C-402/1".

Alla luce di quanto sopra, si può desumere che il quadro normativo “convulso” tenderà a fomentare il dibattito giurisprudenziale, a spese, ovviamente, degli operatori del settore.

Attendiamo a questo punto la legge di conversione del decreto Semplificazioni bis con la consapevolezza che il dibattito sarà ancora più acceso.

(TAR Lazio Roma, Sez. III quater, 15.12.2020, n. 13527)

(Cons. St., Sez. V, 17.12.2020, n. 8101)

(Cons. st., Sez. V, 31.5.2021, n. 4150)

 


L’appaltatore può iscrivere riserve oltre il 20% dell’importo contrattuale La Corte Costituzionale sulla corretta interpretazione dell’art. 240 bis del d.lgs. 1632006.

L’appaltatore può iscrivere riserve oltre il 20% dell’importo contrattuale? La Corte costituzionale sulla corretta interpretazione dell’art. 240 bis del d.lgs. 163/2006.

L’appaltatore può iscrivere riserve oltre il 20% dell’importo contrattuale La Corte Costituzionale sulla corretta interpretazione dell’art. 240 bis del d.lgs. 1632006.A mente dell’art. 240 bis, comma 1, ultimo inciso, come modificato dal d.l. 70/2011, l'importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al 20% dell'importo contrattuale. La Corte costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla corretta interpretazione della norma.

Con ordinanza del 13.5.2019, il Tribunale ordinario di Lecco ha sollevato una questione di legittimità costituzionale sulla predetta disposizione.

La questione, sebbene riferita ad un articolo del codice previgente, è importante da un lato perché attuale (numerosi sono ancora oggi gli appalti pubblici in corso di esecuzione soggetti alla disciplina previgente)  dall’altro per i principi espressi che di certo tornano e torneranno utili in futuro.

Partiamo dal caso concreto: nel giudizio di primo grado, la società ha chiesto il riconoscimento di sei riserve iscritte nei registri di contabilità e confermate in sede di sottoscrizione del conto finale per un ammontare complessivo di € 470 mila circa nell’ambito di un contratto di appalto di lavori dell’importo di € 560 mila circa. Il Comune non aveva attivato l’accordo bonario.

Il Tribunale osserva che, all’esito di CTU relativa alle riserve iscritte, risulterebbero fondate pretese per euro 110 mila circa, ossia per una cifra inferiore al 20% dell’importo contrattuale.

Tuttavia – prosegue il Tribunale – poiché quanto dovrebbe riconoscersi all’impresa si ricava da riserve registrate dopo che ne erano state iscritte altre per un ammontare che aveva già raggiunto il limite del 20% dell’importo contrattuale, sarebbe preclusa la possibilità di accertare nel merito quelle annotate successivamente al superamento della soglia imposta dalla norma censurata.

Il giudice rimettente interpreta l’art. 240 bis del d.lgs. 163/2006 nel senso che l’appaltatore può legittimamente iscrivere riserve fino al 20% dell’importo contrattuale, pertanto, sarebbero ammissibili, nel caso di specie, le prime tre riserve e il giudice non potrebbe valutare nel merito le altre che, viceversa, sembrerebbero fondate.

La Corte Costituzionale non condivide.

Il testo dell’art. 240-bis, comma 1, nel prevedere che «l’importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al 20% dell’importo contrattuale», non rende esplicito se il limite escluda la possibilità di far valere quelle iscritte oltre la soglia o se riguardi l’entità delle pretese annotate che, nel complesso, possono essere riconosciute.

La prima interpretazione, sostenuta dal rimettente, non risulta pienamente coerente con la collocazione sistematica della disposizione e, soprattutto, ove accolta, paleserebbe una irragionevolezza della norma, il che avrebbe dovuto suggerire al rimettente di non respingere – come invece ha ritenuto di fare, in maniera esplicita e argomentata – la richiamata interpretazione alternativa, già sostenuta da altri giudici di merito (si vedano Tribunale ordinario di Roma, 11 dicembre 2020, n. 17666 e 23 gennaio 2017, n. 1085; Tribunale ordinario di Milano, 25 marzo 2020, n. 2207).

Sotto il profilo sistematico, la norma censurata si inserisce nella Parte IV del codice dei contratti pubblici, che non regola l’esecuzione dell’appalto e l’iscrizione delle riserve, bensì il «Contenzioso» e si colloca nel contesto di un articolo che disciplina – come precisa la rubrica – la «Definizione delle riserve».

In particolare, occorre partire dalla prima parte del comma 1 secondo cui “Le domande che fanno valere pretese già oggetto di riserva non possono essere proposte per importi maggiori rispetto a quelli quantificati nelle riserve stesse” il che vuol dire che possono essere proposte, e di conseguenza potenzialmente accolte, le domande che non superino gli importi «quantificati nelle riserve stesse».

Da qui, è naturale ritenere che anche la seconda parte della disposizione, nel fissare la soglia, si riferisca alle riserve che possono essere proposte e potenzialmente definite, in via bonaria o giudiziale.

Entro la soglia del 20% dell’importo contrattuale, qualunque pretesa dell’appaltatore può essere riconosciuta, in via bonaria o previo accertamento giudiziale. Oltre tale limite è, viceversa, certamente inibito accedere all’accordo bonario, mentre non risultano precluse azioni giudiziarie.

(Corte cost., 27/5/2021, n. 109)


Il danno da ritardo della P.A. illecito extracontrattuale. procedimento autorizzativo e incentivi fonti rinnovabili

Il danno da ritardo della P.A.: da contatto sociale qualificato a illecito extracontrattuale. Il caso (ricorrente) della ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e il mancato accesso agli incentivi connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Il danno da ritardo della P.A. illecito extracontrattuale. procedimento autorizzativo e incentivi fonti rinnovabiliSi torna a parlare di danno da ritardo della P.A., più in particolare, della responsabilità di quest’ultima per il ritardo nella conclusione del procedimento originato da un’istanza autorizzativa, tra contatto sociale qualificato e illecito extracontrattuale. La questione deferita all’Adunanza Plenaria è sorta in relazione alla richiesta di condanna della Regione Sicilia al risarcimento dei danni subiti a causa del ritardo con cui l’Amministrazione regionale ha autorizzato la realizzazione e gestione di tre impianti fotovoltaici sui quattro richiesti ai sensi dell’art. 12 del d.lgs. 387/2003 (attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili), con istanze presentate tra il 2009 e il 2010.

In dettaglio, la domanda di risarcimento è stata avanzata in ragione del ritardo nel rilascio delle autorizzazioni - per le quali la società aveva prima agito ex art. 117 c.p.a. contro il silenzio serbato dall’Amministrazione e, quindi, in ottemperanza - che avrebbe reso l’investimento antieconomico.

Il danno, a dire della società ricorrente, deriverebbe dal sopravvenuto divieto di accesso al regime tariffario incentivante di cui all’art. 7 d.lgs. 387/2003 (abrogato nel 2011) connesso alla produzione di energia da fonti rinnovabili (solare).

Il CGARS, avendo ravvisato in materia di responsabilità della P.A. per la ritardata conclusione del procedimento amministrativo orientamenti contrastanti della giurisprudenza amministrativa, ha preferito deferire la questione al Consiglio di Stato in Adunanza Plenaria.

In particolare, è stato chiesto:

  • come valutare la misura del danno risarcibile in conseguenza del ritardo e se la natura della responsabilità della P.A abbia natura contrattuale o da fatto illecito;
  • di stabilire se la sopravvenienza normativa interrompa il nesso causale tra l’inerzia della P.A. nel definire i procedimenti autorizzativi originati dalle istanze della società ricorrente e il danno da quest’ultima lamentato a titolo di lucro cessante (o alternativamente quale chance di guadagno), consistente nel venir meno dei margini economici realizzabili con il regime incentivante.

Sulla danno da ritardo nella conclusione del procedimento autorizzativo: natura della responsabilità della P.A.

La pronuncia è di rilievo dato che sembra mettere un punto al dibattito, che negli anni si è sviluppato in dottrina come in giurisprudenza, sulla natura della responsabilità dell’Amministrazione, per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, configurandola come responsabilità da fatto illecito.

È vero che nel caso di specie si tratta di ritardo nella conclusione di un procedimento autorizzativo di realizzazione e gestione di impianti fotovoltaici ma i principi espressi dall’Adunanza Plenaria, come peraltro dalla stessa affermato, sono applicabili anche all'eolico, in materia di edilizia (si pensi al ritardato rilascio del titolo a costruire), alle concessioni di servizi pubblici (si pensi al caso della mancata tempestiva adozione di un provvedimento tariffario che, essendo stato adottato successivamente al momento in cui la stessa Amministrazione aveva posto a carico del gestore l’obbligo di inizio del servizio, non ha consentito al gestore del servizio di richiedere a terzi il corrispettivo stesso) e più in generale in materia di affidamento dei contratti pubblici.

Di certo configurare la responsabilità in questione come aquiliana rappresenta un punto di svolta e di rottura con quanto affermato e sostenuto nella giurisprudenza di legittimità, con conseguenze anche in relazione al termine di prescrizione applicabile.

Il riferimento è al caso dell’annullamento dell’aggiudicazione che di fatto ha reso inefficace il contratto di appalto successivamente stipulato, ove la Cassazione ha definito la responsabilità della P.A. “di tipo contrattuale da “contatto sociale qualificato”, inteso come fatto idoneo a produrre obbligazioni, ex art. 1173 c.c., e dal quale derivano, a carico delle parti reciproci obblighi di buona fede, di protezione e di informazione, giusta gli artt. 1175 e 1375 c.c.” con la conseguente applicabilità del termine decennale di prescrizione sancito dall’art. 2946 c.c. (Cassazione civile, Sez. I, 27/10/2017, n. 25644, nota di R. Berloco in ItaliAppalti.it).

Secondo l’Adunanza Plenaria, la responsabilità da inadempimento che si fonda, ai sensi dell’art. 1218 c.c., sul non esatto adempimento della prestazione cui il debitore è obbligato in base al contratto non può essere configurata per la P.A. che agisce nell’esercizio delle sue funzioni amministrative e, quindi, nel perseguimento dell’interesse pubblico.

Nonostante l’evoluzione dei rapporti tra privato e Amministrazione, la funzione – e, di conseguenza, la responsabilità – amministrativa si connota come “prestazionale” e “di supremazia” rispetto al privato essendo tesa alla realizzazione dei fini determinati dalla legge. Tale caratterizzazione mal si concilia con le teorie sul “contatto sociale” che si fondano su una relazione paritaria.

Dunque l’emanazione di atti illegittimi come l’inerzia colpevole della P.A. possono essere fonte di responsabilità sulla base del principio generale del neminem laedere (art. 2043 c.c.).

Elemento centrale di questa fattispecie di responsabilità è l’ingiustizia del danno, da dimostrare in giudizio diversamente da quanto avviene per la responsabilità da inadempimento contrattuale, in cui la valutazione sull’ingiustizia del danno è assorbita dalla violazione della regola contrattuale. Declinata nel settore relativo al “risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi”, di cui all’art. 7, comma 4, c.p.a., il requisito dell’ingiustizia del danno implica che il risarcimento potrà essere riconosciuto se l’esercizio illegittimo del potere amministrativo abbia leso il bene della vita del privato, che quest’ultimo avrebbe avuto titolo per mantenere o ottenere.

Dunque, solo se dall’illegittimo esercizio della funzione pubblica sia derivata per il privato una lesione della sua sfera giuridica quest’ultimo può domandare il risarcimento per equivalente monetario.

Nel settore del danno conseguente alla ritardata conclusione del procedimento amministrativo il requisito dell’ingiustizia esige la dimostrazione che il superamento del termine di legge abbia impedito al privato di ottenere il provvedimento favorevole, per il quale aveva presentato istanza.

L’ingiustizia del danno così declinata non è tuttavia il solo presupposto della responsabilità ex art. 2-bis l. 241 del 1990.

Quest’ultima disposizione va letta in combinato con l’art. 2 della medesima legge, che disciplina in termini generali la “conclusione del procedimento”.

La disposizione - oltre a enunciare, tra gli altri, il dovere di concludere il procedimento con provvedimento espresso, la cui violazione sostanzia l’antigiuridicità della condotta dell’Amministrazione - prevede uno strumento di cooperazione con il privato istante, finalizzato a superare l’inerzia dell’Amministrazione.

L’attivazione da parte del privato è indice di serietà ed effettività dell’interesse legittimo di quest’ultimo al provvedimento espresso. All’opposto, in assenza di ulteriori iniziative del richiedente, potrebbe presumersi che l’ulteriore decorso del tempo sia sostanzialmente indifferente per il privato.

In tale prospettiva, la mancata cooperazione del privato può concorrere a costituire comportamento valutabile ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a. al fine di escludere “il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti”.

Sempre in termini di cooperazione, allo strumento procedimentale ora esaminato si aggiungono quelli di ordine processuale, tra cui l’azione contro il silenzio (artt. 31 e 117 c.p.a.) e quella di ottemperanza (art. 112 e ss. c.p.a.), la cui proposizione di per sé evidenzia all’Amministrazione che l’ulteriore ritardo nella conclusione del procedimento può comportare un pregiudizio economico.

Vale in ogni caso precisare che la mancata sollecitazione del potere di avocazione previsto dall’art. 2, commi 9-bis e ss., l. 241/1990 così come la mancata proposizione di ricorsi giurisdizionali costituisce un elemento di valutazione che può concorrere, con altri, alla definizione della responsabilità.

Nel settore della responsabilità dell’Amministrazione da illegittimo o mancato esercizio dei suoi poteri autoritativi, è posto dunque a carico del privato un onere di ordinaria diligenza - come tale valutabile dal giudice - di attivarsi con ogni strumento procedimentale o processuale utile a salvaguardare il bene della vita correlato al suo interesse legittimo, in modo da delimitare in termini quantitativi il perimetro del danno risarcibile.

Una volta ricondotta la responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi al principio del neminem laedere positivizzato nell’art. 2043 c.c., deve escludersi che, nella individuazione e quantificazione del danno, possa operare il limite rappresentato dalla sua prevedibilità.

Assume invece un ruolo centrale l’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno comprende la perdita subita dal creditore (danno emergente) e il mancato guadagno (lucro cessante) in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta.

Tornando al caso di specie, è stato accertato che l’inosservanza colposa da parte della Regione siciliana dei termini del procedimento ex art. 12 d.lgs. 387/2003 ha impedito alla società ricorrente di ottenere il bene della vita attraverso la previsione legislativa dei termini entro cui la funzione amministrativa deve esercitarsi, consistente nel tempestivo rilascio delle autorizzazioni ai sensi della disposizione richiamata.

In relazione a tale primo profilo, l’Adunanza esprime il principio per cui “la responsabilità della P.A. per lesione di interessi legittimi, sia da illegittimità provvedimentale sia da inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento, ha natura di responsabilità da fatto illecito aquiliano e non già di responsabilità da inadempimento contrattuale; è pertanto necessario accertare che vi sia stata la lesione di un bene della vita, mentre per la quantificazione delle conseguenze risarcibili si applicano, in virtù dell’art. 2056 c.c. i criteri limitativi della consequenzialità immediata e diretta e dell’evitabilità con l’ordinaria diligenza del danneggiato, di cui agli artt. 1223 e 1227 c.c. e non anche il criterio della prevedibilità del danno”.

Sul divieto sopravvenuto come fattore autonomo in grado di interrompere il nesso di consequenzialità immediata e diretta ex art. 1223 c.c. tra ritardata conclusione del procedimento autorizzativo e mancato accesso al regime incentivante.

Come precisato dalla pronuncia, tra danno emergente e lucro cessante, il mancato accesso al regime tariffario incentivante si colloca nel secondo concetto ossia nel lucro cessante.

Ad avviso dell’Adunanza Plenaria, con riferimento al periodo di tempo anteriore alla modifica normativa che ha soppresso gli incentivi, è possibile imputare al ritardo della Regione il pregiudizio patrimoniale subito dalla società a causa del mancato accesso agli incentivi tariffari.

La regolarità causale che lega i due eventi - ritardo dell’Amministrazione nel provvedere e perdita degli incentivi - non può infatti ritenersi recisa dalla sopravvenienza normativa, poiché è stato proprio il ritardo a rendere la sopravvenienza rilevante, come fatto impeditivo per l’accesso agli incentivi tariffari altrimenti ottenibili.

Il ritardo non si pone dunque come mera occasione del pregiudizio, ma ne è stata la causa.

A ben vedere, a dimostrazione di quanto sopra detto circa la rilevanza dei principi espressi dalla pronuncia in ogni settore connesso all’esercizio della funzione pubblica, si potrebbe fare il caso dell’esecuzione di un’opera pubblica laddove i ritardi accumulati dalla P.A. hanno generato un danno all’appaltatore conseguente alla sopravvenuta adozione da parte della Regione di una delibera in deroga al PPTR che ha previsto ulteriori opere in capo all’appaltatore. Se la P.A. non avesse impiegato quattro anni per procedere alla consegna dei lavori, gli eventi descritti causativi dei danni non avrebbero inciso sull’appalto in questione giacché i lavori si sarebbero conclusi nel termine contrattuale di 360 giorni dalla consegna, molto prima del verificarsi degli eventi descritti.

Nell’ambito della realizzazione degli impianti FER  il regime incentivante è stato il fattore chiave dell’investimento privato spesso messo a rischio da comportamenti della P.A. non improntati al buon andamento e alla funzione prestazionale su menzionata. La pronuncia in esame rappresenta un importante riconoscimento per gli operatori del settore oltre che un monito per le amministrazioni coinvolte nei procedimenti autorizzativi degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili. Il comportamento inerte sottostà, sul piano risarcitorio, alla mancata realizzazione degli investimenti nel settore quando è causata dal comportamento antigiuridico dell’Amministrazione procedente.

In definitiva, il mutamento normativo, espressivo di un mutato indirizzo legislativo rispetto all’intervento economico pubblico in funzione agevolativa degli investimenti privati, deve pertanto essere considerato un rischio imputabile all’Amministrazione quando la sopravvenienza normativa non avrebbe avuto rilievo se i tempi del procedimento autorizzativo fossero stati rispettati.

In relazione a tale secondo profilo, l’Adunanza afferma che:

  • “con riferimento al periodo temporale nel quale hanno avuto vigenza le disposizioni sui relativi benefici, è in astratto ravvisabile il nesso di consequenzialità immediata e diretta tra la ritardata conclusione del procedimento autorizzativo ex art. 12 d.lgs. n. 387/2003 e il mancato accesso agli incentivi tariffari connessi alla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili quando la mancata ammissione al regime incentivante sia stato determinato da un divieto normativo sopravvenuto che non sarebbe stato applicabile se i termini del procedimento fossero stati rispettati;
  • occorre tuttavia stabilire se le erogazioni sarebbero comunque cessate, per la sopravvenuta abrogazione della normativa sugli incentivi, nel qual caso il pregiudizio è riconducibile alla sopravvenienza legislativa e non più imputabile all’amministrazione, oppure se l’interessato avrebbe comunque avuto diritto a mantenere il regime agevolativo, in quanto la legge, per esempio, faccia chiaramente salvi, e sottratti quindi all’abrogazione, gli incentivi già in corso di erogazione e fino al termine finale originariamente stabilito per gli stessi;
  • in ogni caso, il danno va liquidato secondo i criteri di determinazione del danno da perdita di chance, ivi compreso il ricorso alla liquidazione equitativa, e non può equivalere a quanto l’impresa istante avrebbe lucrato se avesse svolto l’attività nei tempi pregiudicati dal ritardo dell’amministrazione”.

(Cons. St., Ad. Plen., 23/4/2021, n. 7)


Decreto Semplificazioni 2021, proroga disciplina speciale del d.l. 762020. Esclusione automatica delle offerte anomale giurisprudenza in via di consolidamento su eterointegrazione.

Decreto Semplificazioni 2021, proroga disciplina speciale del d.l. 76/2020. Esclusione automatica delle offerte anomale: giurisprudenza in via di consolidamento su eterointegrazione.

Decreto Semplificazioni 2021, proroga disciplina speciale del d.l. 762020. Esclusione automatica delle offerte anomale giurisprudenza in via di consolidamento su eterointegrazione.Anche il 2021 si conferma l'anno delle "semplificazioni". Il d.l. 77/2021 in vigore dal 1 giugno scorso prevede tra le altre cose  di prorogare alcuni articoli della disciplina speciale del d.l. 76/2020 "decreto Semplificazioni 2020". La norma sull'esclusione automatica delle offerte anomale di cui all'art. 1, comma 3, d.l. Semplificazioni 2020, per esempio, resterà in vigore fino al 30 giugno 2023.

Il legislatore ci sta ormai abituando a un quadro normativo convulso, così come di recente definito dai giudici amministrativi, fatto di deroghe, proroghe, norme a tempo e modifiche permanenti al codice dei contratti pubblici.

Premesso che si avrà modo di tornare in modo più approfondito nelle prossime settimane sulle numerose novità del recente decreto Semplificazioni, ripercorriamo, in questo breve contributo, alcune decisioni rese sull'applicazione dell'esclusione automatica del Decreto Semplificazioni 2020.

I. TAR Piemonte, 17.11.2020, n. 736: l’esclusione automatica delle offerte anomale nelle gare sotto soglia da aggiudicarsi al prezzo più basso di cui al Decreto Semplificazioni prescinde dall’indicazione in lex specialis di una clausola ad hoc (a differenza di quanto invece prescrive l’art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016) – clicca qui per leggere la notizia.

II. TAR Puglia, 22.1.2021, n. 113: andando in contrasto con la pronuncia di poco precedente del TAR Piemonte, ritiene che in presenza di una lex specialis che nulla dispone quanto all’automatismo espulsivo, disporlo in via diretta e immediata significherebbe porre ingiustificati ostacoli al principio di massima partecipazione alle gare, da sempre predicato dal giudice eurounitario – clicca qui per leggere la notizia.

III. TAR Lazio, 19.2.2021, n. 2104: la lex specialis viene eterointegrata dalla legge (nella specie, decreto Semplificazioni) anche laddove il bando preveda che alla procedura va applicata la disciplina generale dell’esclusione automatica dell’art. 97, comma 8, d.lgs. 50/2016 – clicca qui per leggere la notizia.

IV. TAR Calabria, 2.3.2021, n. 449: allineandosi a quanto statuito dal TAR Piemonte e TAR Lazio, conferma l’operatività della esclusione automatica delle offerte anomale nelle procedure negoziate sotto soglia, criterio del prezzo più basso, ancorché la lex specialis non preveda, al suo interno, una tale conseguenza - clicca qui per leggere di più.

V. TAR Campania,  24.5.2021, n. 3429: a conferma di quanto affermato dal TAR Piemonte, afferma che, conformemente ai principi generali vigenti in materia di contrattualistica pubblica, nelle gare per l’affidamento degli appalti sotto soglia l’applicazione dell’esclusione automatica delle offerte anomale prevista dal decreto semplificazioni non deve essere appositamente enunciata e motivata negli atti di gara, in quanto, diversamente opinando, si svaluterebbe indebitamente il principio di eterointegrazione legislativa della stessa disciplina di gara e si minerebbe l’obiettivo, posto alla base della normativa emergenziale del 2020, di celerità delle procedure di scelta del contraente.

VI. TAR Sicilia, 11.6.2021, n. 1892: allineandosi a quanto statuito dal TAR Piemonte e dal recente TAR Campania, il meccanismo di esclusione automatica delle offerte – previsto per gli appalti sotto soglia nel caso di aggiudicazione con il criterio del prezzo più basso – trova applicazione anche se la legge di gara non lo preveda espressamente, in quanto tale norma emergenziale eterointegra la lex specialis che eventualmente non lo indichi. Va, infatti, considerato che l’esclusione automatica delle offerte anomale costituisce una delle misure, temporanee e derogatorie rispetto al Codice degli Appalti, indicate dal su citato art. 1 del decreto semplificazioni per lo snellimento delle procedure di gara indette per l’aggiudicazione degli appalti pubblici sotto soglia, al fine di fronteggiare le ricadute economiche negative derivanti dalla pandemia da COVID-19 e incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici.

 


Concessioni demaniali: la Plenaria mette fine alle proroghe?”

Concessioni demaniali e procedure ad evidenza pubblica. Proroga sì, proroga no: la palla alla Plenaria.

Concessioni demaniali e procedure ad evidenza pubblica. Proroga sì, proroga no la palla alla PlenariaNegli ultimi mesi diversi TAR sono stati chiamati a pronunciarsi sulla legittimità dell’operato di amministrazioni che, con argomentazioni discordanti, hanno ammesso o rigettato la possibilità – prevista dalla legge italiana, va detto – di una proroga automatica delle concessioni demaniali in luogo di una procedura ad evidenza pubblica.

Il legislatore, infatti, ha previsto – articolo 1 commi 682 e 683 legge 30 dicembre 2018 n. 145 – la proroga in via automatica, al 2033, di quelle concessioni demaniali vigenti al 1° gennaio 2019 – data di entrata in vigore del citato testo normativo: ciò in contrasto con quanto stabilito dall’articolo 12 della direttiva 2006/123/UE, secondo cui le concessioni devono essere assegnate a seguito di apposita procedura ad evidenza pubblica.

Numerose le pronunce del giudice amministrativo sul tema.

Il TAR Lecce, ad esempio, ha negato la possibilità di disapplicare la norma nazionale: secondo il Collegio (Sez. I, 15.1.2021, n. 73) l’articolo 12 della Direttiva Servizi non sarebbe direttamente esecutivo nell’ordinamento nazionale, con conseguente prevalenza del diritto italiano. Saranno, pertanto, illegittimi tutti quei provvedimenti che neghino la proroga ex lege, sino al 2033, delle concessioni demaniali.

A conclusioni radicalmente opposte è giunto invece il TAR Catania (Sez. III, 15.2.2021, n. 504).

Il Collegio – richiamando quanto sancito dalla CGUE (Sez. V, 14 luglio 2016, cause riunite C-458/14 e C-67/15) – ha affermato che l’articolo 12 della Direttiva Servizi non consente la proroga automatica delle concessioni demaniali in assenza di una procedura selettiva. Ammettere una simile possibilità, infatti, farebbe sorgere una disparità di trattamento tra gli operatori economici con conseguente violazione dei principi comunitari di libertà di stabilimento e di tutela della concorrenza.

Gli argomenti appena richiamati sono stati accolti anche dal TAR Toscana (Sez. II, 8.3.2021, n. 363) il quale – richiamando quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 10 del 29 gennaio 2021), con cui è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una norma regionale che prevedeva il rinnovo automatico delle concessioni demaniali – ha ribadito che la proroga automatica delle concessioni demaniali è in contrasto con il citato articolo 12 della Direttiva Servizi. Secondo il Collegio sarebbe invece necessario procedere ad una selezione pubblica, nel rispetto dei principi di imparzialità, trasparenza e pubblicità.

In un quadro normativo e giurisprudenziale così frammentato, gli stessi giudici di Palazzo Spada hanno recentemente dichiarato (Cons. St, Sez. VI, 9.3.2021 n. 2002) che gli enti preposti al rilascio delle concessioni demaniali non possono, in virtù della normativa disciplinante il settore, procedere al “rilascio in via diretta ma solo all’esito di una selezione tra gli aspiranti concessionari”.

A fronte di tanto, il Presidente del Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria.

Più nello specifico, con il decreto di rimessione, l’Adunanza Plenaria è chiamata a pronunciarsi sui seguenti quesiti:

1) se sia doveroso o meno procedere alla disapplicazione di una normativa interna – quale quella che prevede la proroga generalizzata e automatica delle concessioni demaniali – confliggente con il diritto comunitario;

2) se la disapplicazione della normativa interna sia compito di tutte le articolazioni dello Stato, ivi inclusi gli enti territoriali, gli enti pubblici genericamente intesi nonché tutti i soggetti a questi equiparati;

3) se, in adempimento dell’obbligo di disapplicazione laddove confermato, l’amministrazione statale sia tenuta all’annullamento ex officio dell’atto emesso in contrasto con il diritto comunitario (in ossequio a quanto previsto dall’articolo 21-octies della legge 241/1990) ovvero se la sussistenza di un giudicato favorevole sia d’ostacolo all’annullamento d’ufficio.

In ogni caso, risulta essere opportuno (e non più rinviabile) un intervento del legislatore, volto a fornire ad un settore nevralgico dell’economia nazionale una riforma organica della disciplina delle concessioni – ponendo così fine al (mal)costume delle proroghe e degli interventi a singhiozzo.

Decreto Presidente Cons. St., 24.5.2021 n. 160

 


Clausola di esclusiva taxi: AGCM decide sul caso Taxi Torino.

Dopo Roma e Milano, l’AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) si è pronunciata sulla legittimità della clausola di esclusiva presente nello statuto della cooperativa Taxi Torino in forza della quale sarebbe precluso l’uso simultaneo da parte dei tassisti aderenti alla cooperativa di più servizi di intermediazione e smistamento tra domanda e offerta.

La segnalazione all’AGCM

La decisione origina da una segnalazione effettuata nell’agosto 2017 da una società di intermediazione tra domanda e offerta del servizio taxi tramite app che ha denunciato all’Autorità la presenza di clausole di non concorrenza nello statuto della cooperativa taxi di Torino, unico gestore di servizi di radiotaxi nel comune.

In virtù di tale clausola, aggiunta poco tempo dopo l’ingresso della segnalante nel mercato torinese nello statuto della cooperativa, era vietato l’uso simultaneo da parte dei tassisti aderenti alla cooperativa, e soci della stessa, di più servizi di intermediazione e smistamento tra domanda e offerta nel comune di Torino. La violazione di tale divieto, anche in ragione dell’obbligo di fedeltà del socio alla cooperativa era sanzionata con l’esclusione dello stesso dalla cooperativa.

Simili clausole, a parere della denunciante, avrebbero avuto l’effetto di ostacolare l’ingresso e lo sviluppo nel mercato torinese di ogni altra piattaforma concorrente con la cooperativa.

L’avvio dell’istruttoria e le questioni di rilievo

L’Autorità procedeva quindi ad avviare un’istruttoria volta ad accertare la sussistenza di un abuso di posizione dominante della cooperativa in questione nel mercato taxi a Torino.

Con delibera del 17.5.2021, l’Autorità conferma le violazioni segnalate.

In particolare, uno degli aspetti dirimenti della questione ruota intorno alla definizione del mercato rilevante dei servizi di intermediazione.

Nell’analizzare il mercato di riferimento, l’AGCM osserva come l’attività di raccolta e di smistamento del servizio taxi viene tradizionalmente svolta tramite canali diretti (che prevedono la richiesta diretta da parte dell’utenza al taxi in transito o in sosta sugli appositi posteggi, ovvero la chiamata tramite le apposite colonnine) oppure tramite piattaforme di intermediazione. Queste ultime comprendono non solo i servizi centrali di radiotaxi, ma anche le app e sono i canali maggiormente utilizzati.

Con riferimento alle piattaforme di intermediazione, l’AGCM osserva che, a prescindere dalla tecnologia di dispacciamento utilizzata, tali piattaforme competono tra loro sia dal lato dell’utente finale che dal lato dei tassisti. Con riferimento a questi ultimi, le piattaforme competono tra loro sulla base delle condizioni economiche previste per l’utilizzo delle stesse e dei servizi offerti.

In tal senso, spiega l’Autorità, va tracciata una distinzione tra le piattaforme di intermediazione c.d. “chiuse” e le piattaforme di intermediazione c.d. “aperte”: le prime, per soddisfare tutte le corse richieste, fanno affidamento solo sulla propria rete di tassisti, di dimensione sostanzialmente fissa e vincolata, anche tramite clausole statutarie di non concorrenza; nelle piattaforme di intermediazione “aperte”, invece, i tassisti aderenti possono decidere, in ogni momento, in base all’andamento e alla localizzazione della domanda, quando essere attivi sull’app e mettere a disposizione della piattaforma una quota variabile della propria capacità (in termini di corse). Specifica tuttavia l’AGCM che la condizione necessaria per il funzionamento di una piattaforma “aperta” è che ciascun tassista sia libero di affiliarsi ad essa per essere concretamente in grado di offrire, nei modi e tempi prescelti, una quota della propria capacità, integrando l’offerta proveniente dagli altri canali di raccolta.

L’AGCM ha poi concluso che in base a delle indagini statistiche di mercato che erano state condotte sia sugli utenti finali che sui tassisti, con riferimento al procacciamento delle corse, sia i servizi di radiotaxi che le piattaforme online possono essere considerati servizi sostituibili.

La cooperativa torinese aveva sostenuto che i canali di intermediazione tramite app e il servizio di radiotaxi sono distinti sia dal punto di vista della loro funzionalità oggettiva (in particolare, le app avrebbero alcune specificità che sono assenti nel caso del radiotaxi, come ad esempio la geolocalizzazione, la possibilità di pagamento tramite app, il rilascio di un documento contabile sulla corsa effettuata, il rating di qualità del tassista, ecc.), sia perché trattandosi di mercati a due versanti, se una parte della clientela considera l’app come lo strumento preferenziale e non fungibile con la chiamata via radio, per entrare in contatto con tale clientela, i tassisti sono indotti ad utilizzare questo strumento di intermediazione. Infine, ad avviso della cooperativa, il mercato delle app ha una dimensione quantomeno nazionale, ove invece il servizio di radiotaxi ha una dimensione locale.

Da ciò, secondo la cooperativa, sarebbe discesa la legittimità delle clausole statutarie in esame.

Più precisamente, l’obbligo statutario di non concorrenza del socio della cooperativa, mira ad evitare che i tassisti associati che aderiscono a piattaforme terze si pongano in un rapporto di concorrenza con la propria cooperativa.

La clausola in questione non avrebbe in alcun modo ostacolato, a parere della cooperativa, la contendibilità del mercato posto che lo statuto prevedeva comunque una clausola di recesso per i tassisti interessati ad ususfruire di altro intermediario.

Sicché, secondo la cooperativa, la presenza della clausola non avrebbe alcun nesso di causalità con lo scarso utilizzo dei tassisti torinesi dell’app della società segnalante: il motivo della scarsa adesione dei tassisti torinesi all’app della nuova società sarebbe l’errata politica commerciale e, in particolare, il criterio di remunerazione del servizio taxi, basato su una commissione percentuale sulla corsa, che sarebbe “del tutto perdente sul piano della concorrenza” rispetto al diverso criterio di remunerazione basato sulla quota fissa, proprio delle cooperative.

Diversamente, invece, la nuova società aveva evidenziato come le piattaforme di raccolta e smistamento della domanda, a prescindere dalla tecnologia di dispacciamento utilizzata, forniscono tutte i medesimi servizi e soddisfano tutte la medesima domanda: a monte, i tassisti sono interessati a contattare il maggior numero di clienti utilizzando diversi canali per massimizzare le chances di acquisizione della clientela; a valle, gli utenti sono interessati a ottenere un taxi, per cui le modalità tecniche di procacciamento vengono ritenute secondarie rispetto alla necessità di procurarsi una corsa.

Per tale ragione, a parere della società denunciante, le clausole statutarie della cooperativa avrebbero ostacolato ingiustamente la possibilità per i tassisti di usufruire di altri servizi di intermediazione: la presenza di un solo intermediario sulla piazza torinese si traduce in un numero minore di possibilità disponibili sul mercato e in una riduzione generale della qualità e dell’innovazione del servizio (che, lo si ricorda, è un servizio pubblico).

L’introduzione e l’applicazione della specifica clausola di esclusione sarebbe stata la causa, quindi, dello scarso utilizzo dell’app della società denunciante. La doppia adesione, ad un radiotaxi e ad una piattaforma aperta consente infatti ai tassisti di massimizzare i profitti, proprio perché se il tassista non sta effettuando una corsa per la cooperativa, ha la convenienza di poter utilizzare un'altra app, a prescindere dalle condizioni applicate.

Partendo proprio dal sufficiente grado di sostituibilità tra radiotaxi e app, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta, l’AGCM ha qualificato come unico il mercato delle piattaforme di intermediazione taxi.

La decisione dell’AGCM

Di qui il carattere abusivo delle condotte tenute dalla cooperativa torinese.

Secondo l’analisi dell’Autorità, la cooperativa Taxi Torino detiene una posizione largamente dominante nel mercato della fornitura di servizi di raccolta e smistamento della domanda di taxi nel comune di Torino. Vincolare dunque i soci, che costituiscono oltre il 90% dei tassisti operanti a Torino, a destinare tutta la propria capacità produttiva alla cooperativa, rappresenta una condotta idonea ad impedire e ostacolare ingiustificatamente l’accesso e lo sviluppo di altre piattaforme di intermediazione nel mercato di riferimento.

Per questi motivi l’AGCM ha ritenuto che i comportamenti posti in essere dalla cooperativa torinese rappresentino una violazione della concorrenza ai sensi dell’art. 102 del TFUE, in quanto idonei a influire sul gioco della concorrenza all'interno del mercato rilevante e produttivi di effetti concreti.

Da ultimo, l’AGCM ha condannato la cooperativa a pagare una sanzione e ad adottare misure idonee a eliminare l’infrazione di cui alle clausole di esclusiva.

La pronuncia esaminata è di particolare rilevanza, specie se si considera che nel mercato dei servizi di intermediazione tramite piattaforme per il servizio taxi, clausole come quelle in esame hanno acquisito una portata particolarmente restrittiva proprio a seguito allo sviluppo delle nuove tecnologie, in grado di fatto di aumentare la concorrenza.

L’attenzione per queste tematiche è oramai al centro del dibattito non solo tra le Authority, come l’AGCM o l’ART (Autorità Regolazione Trasporti), ma anche in giurisprudenza, la quale non appare perfettamente allineata alle decisioni assunte dalle autorità di regolazione citate (il riferimento è alla sentenza del TAR Lazio a seguito di impugnativa dei provvedimenti AGCM in caso analogo su Roma).

Di certo vi è che l’ampiezza e la complessità della tematica esaminata rende più che mai necessario un intervento del legislatore, invero già da tempo invocato e non ancora giunto.

(Provvedimento n. 29644 – Bollettino n. 21/2021)


Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.

Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.

Clausola sociale e obbligo di riassorbimento. Obblighi dell’impresa subentrante.Parlando di clausola sociale nell’ambito degli appalti pubblici viene spontaneo pensare all’obbligo, per l’operatore che subentra nel contratto a seguito di cambio appalto, di riassorbimento dei lavoratori che il gestore uscente impiegava nel servizio. Tale obbligo, come statuito dalla sentenza in commento, non è tuttavia tassativo.

Questi i fatti. All’esito di una procedura di appalto, la commissione di gara aggiudicava in via provvisoria il lotto avente ad oggetto i servizi di portierato, reception, custodia e guardiania – procedendo poi, espletate le prescritte verifiche sulla congruità dell’offerta della provvisoria aggiudicataria – a disporre l’aggiudicazione definitiva.

Ritenendo illegittima la disposta aggiudicazione, l’impresa seconda classificata adiva il TAR. Nel dettaglio, la ricorrente censurava l’operato della stazione appaltante, allorché quest’ultima aveva aggiudicato l’appalto ad un soggetto che non rispettava quanto previsto dall’articolo 50 del Codice dei contratti pubblici, in tema di clausola sociale – disposizione cui faceva specifico riferimento la lex di gara, la quale imponeva che l’appaltatore avrebbe dovuto applicare ai lavoratori da assorbire condizioni contrattuali non inferiori a quelle previste dai contratti collettivi di lavoro (nel caso di specie il CCNL c.d. multiservizi).

Le argomentazioni proposte, tuttavia, non sono state condivise dal Collegio.

Il TAR Lazio - premesso che la lex specialis di gara non imponeva l’utilizzo di uno specifico CCNL - evidenzia che non è motivo di esclusione l’applicazione del CCNL “servizi fiduciari” – cui ricorreva l’aggiudicataria – in luogo del CCNL “multiservizi”. Nel dettaglio, il Collegio sostiene, facendo propria l’argomentazione resa dall’amministrazione, che il CCNL applicato dall’aggiudicataria prevede espressamente la possibilità di subentro in un contratto in cui il gestore uscente impiegava il personale sotto l’egida di un diverso contratto collettivo.

Non solo. Il CCNL multiservizi contiene, al proprio interno, una specifica “clausola di cedevolezza” in favore di un contratto collettivo connotato da maggiore specificità: detto contratto, in altri termini, prevede che saranno “escluse dalla sfera di applicazione del contratto le eventuali autonome attività, anche per specifici contratti di committenza, ai rapporti di lavoro delle quali si applichino, secondo la vigente normativa, autonomi e specifici c.c.n.l. corrispondenti”.

In tema di clausola sociale, in definitiva, il Collegio statuisce – facendo proprio l’assunto reso dal Consiglio di Stato (Sez. V, 2.11.2020 n. 6761) – che “l’obbligo di riassorbimento dei lavoratori alle dipendenze dell’appaltatore uscente, nello stesso posto di lavoro e nel contesto dello stesso appalto, deve essere armonizzato (…) con l’organizzazione di impresa prescelta dall’imprenditore subentrante atteso che “la clausola non comporta alcun obbligo per l’impresa aggiudicataria di un appalto pubblico di assumere a tempo indeterminato ed in forma automatica e generalizzata il totale del personale già utilizzato dalla precedente impresa o società affidataria”.

Diversamente opinando, infatti, si verificherebbe una lesione del principio di libera concorrenza – nel senso di scoraggiare la partecipazione alle gare di appalto pubblico – e della libertà d’impresa – diritto, quest’ultimo, costituzionalmente garantito dall’articolo 41 della Carta costituzionale.

(TAR Lazio Roma, Sez. I quater, 12.5.2021, n. 5588)