Concessioni senza gara incostituzionale l’art. 177 del Codice

Concessioni senza gara: incostituzionale l’art. 177 del Codice

Concessioni senza gara incostituzionale l’art. 177 del Codice La Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 177, comma 1, del Codice dei contratti pubblici che, come si ricorderà, ha fatto molto discutere in relazione all’obbligo di mettere a gara le concessioni.

In particolare, l’art. 177, comma 1, Codice prevedeva che “Fatto salvo quanto previsto dall’articolo 7, i soggetti pubblici o privati, titolari di concessioni di lavori, di servizi pubblici o di forniture già in essere alla data di entrata in vigore del presente codice, non affidate con la formula della finanza di progetto, ovvero con procedure di gara ad evidenza pubblica secondo il diritto dell’Unione europea, sono obbligati ad affidare una quota pari all’80% dei contratti di lavori, servizi e forniture relativi alle concessioni di importo pari o superiore a 150.000 euro e relativi alle concessioni mediante procedura ad evidenza pubblica, introducendo clausole sociali e per la stabilità del personale impiegato e per la salvaguardia della professionalità. La restante parte può essere realizzata da società in house di cui all’articolo 5 per i soggetti pubblici, ovvero da società direttamente o indirettamente controllate o collegate per i soggetti privati, ovvero tramite operatori individuati mediante procedura ad evidenza pubblica, anche di tipo semplificato”.

Il successivo comma 2 – recentemente emendato dall’art. 47 ter d.l. 77/2021 (c.d. decreto Semplificazioni bis) – prevedeva di posporre il termine per l’obbligo di conformazione (per le sole concessioni già vigenti) alla data del 31.12.2022.

La Corte costituzionale, con sentenza 23.11.2021 n. 218, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 177, comma 1, d. lgs. 50/2016 (e, per l’effetto dei commi 2 e 3 della medesima disposizione, nonché dell’art. 1, comma 1, lettera iii) legge delega).

La pronuncia appena richiamata presenta elementi di notevole portata. In particolare, la Consulta statuisce che:

1) le norme censurate determinano non una limitazione della libertà di iniziativa economica, ma una inaccettabile (ed irragionevole) compressione della libertà medesima (del che vengono violati i precetti sanciti dagli artt. 3 e 41 Cost.);

2) la stessa Corte costituzionale nega – sentenza n. 56/2015 – il configurarsi della succitata lesione nel solo caso in cui la previsione di limiti all’iniziativa economica privata corrisponda all’utilità sociale (utilità che non deve apparire arbitraria né essere perseguita con modalità che appaiano manifestamente incongrue);

3) le norme oggetto del presente giudizio sono connotate da eccessiva gravosità: tali disposizioni, sebbene dirette a garantire la massima apertura al mercato delle commesse pubbliche, superano di gran lunga i limiti della ragionevolezza (di fatto costringendo il concessionario ad affidare la totalità delle concessioni a terzi soggetti – snaturando, quindi, l’attività imprenditoriale del concessionario stesso, ridotto al rango di mera stazione appaltante);

4) sebbene, ai sensi dell’art. 41 Cost., il legislatore possa limitare la libertà d’impresa in favore della tutela della concorrenza, tale facoltà va comunque commisurata con i limiti della ragionevolezza e della considerazione degli interessi coinvolti: non è, pertanto, consentito limitare la libertà d’impresa nei termini sopra descritti laddove all’imprenditore sia preclusa la possibilità di compiere le scelte che costituiscono l’elemento centrale dell’attività imprenditoriale medesima.

Condividendo, in definitiva, le censure sollevate dal Consiglio di Stato, la Corte costituzionale ritiene che le disposizioni censurate risultino illegittime in quanto la previsione in esse contenuta è “misura irragionevole e sproporzionata rispetto al pur legittimo fine perseguito” in quanto “lesiva della libertà di iniziativa economica”.

(Corte Cost., 23.11.2021, n. 218)


appalti pubblici Mancata stipula del contratto, sì al risarcimento del danno in favore della PA.

Appalti pubblici: mancata stipula del contratto, sì al risarcimento del danno in favore della PA.

appalti pubblici Mancata stipula del contratto, sì al risarcimento del danno in favore della PA.Negli ultimi tempi, a fronte dell’aumento dei costi dei materiali da costruzione che ha colpito anche il settore degli appalti pubblici, sempre più frequentemente molti operatori preferiscono non procedere alla stipula perché il contratto risulta essere non più remunerativo rispetto all’offerta che tempo addietro è stata presentata.

Se siete tra quegli operatori che, al fine di evitare di subire delle perdite, stanno pensando di non stipulare il contratto per il quale sono risultati aggiudicatari, è bene fermarsi perché le conseguenze di una simile azione potrebbero essere particolarmente gravi.

Così facendo, infatti, in taluni casi il concorrente si espone non solo all’escussione della cauzione provvisoria e alla segnalazione all’ANAC (come accaduto nel caso finito innanzi al TAR Milano), ma anche all’azione di risarcimento danni avanzata dall’amministrazione.

Su quest’ultimo aspetto si è soffermato di recente il Consiglio di Stato nella sentenza del 27.10.2021.

Il caso vede protagonista una stazione appaltante che aveva proceduto all'annullamento dell'aggiudicazione del concorrente che non aveva completato la consegna della documentazione amministrativa necessaria per procedere alla stipula del contratto. A tale provvedimento faceva seguito l'aggiudicazione a favore del secondo classificato.

A fronte della mancata stipula, la SA proponeva azione per il risarcimento dei danni subiti.

I giudici di primo grado avevano ritenuto l’aggiudicatario colpevole del mancato rispetto del termine essenziale per la stipula del contratto. Il TAR Toscana (Sez. I, 1.6.2020, n. 664) aveva così riconosciuto come legittimo l’operato della stazione appaltante che aveva proceduto ad aggiudicare il contratto alla seconda classificata e a richiedere il risarcimento del danno, pur senza aver proceduto all’escussione della cauzione provvisoria.

In particolare, il giudice di primo grado aveva condannato la società a risarcire la stazione appaltante per una somma complessiva pari a euro 71.820,00, maggiorata di rivalutazione dal giorno dell’annullamento dell’aggiudicazione (avvenuta nel 2015) sino al giorno di deposito della sentenza e interessi legali.

Per la quantificazione del danno emergente, i giudici hanno considerato la circostanza che la stazione appaltante aveva dovuto aggiudicare la gara al secondo classificato, e quindi a un prezzo maggiore di quello formulato dall'aggiudicatario originario. Il danno è stato quantificato considerando la differenza tra l'offerta del primo classificato e quella del secondo classificato. Oltre a ciò, i giudici hanno altresì considerato il danno derivante dal minor contenuto tecnico della prestazione offerta dal secondo classificato, da liquidarsi in via equitativa con una maggiorazione del 40% dell'importo riconosciuto a titolo di danno emergente.

In sede di appello, la società appellante ha contestato la definizione sia del danno emergente, in quanto i costi della gara non sarebbero stati sopportati inutilmente dalla stazione appaltante, che ha comunque aggiudicato il contratto alla seconda classificata, sia del lucro cessante, in quanto la gara si è comunque conclusa con esito soddisfacente per l'ente appaltante, che non ha avuto necessità di bandire una nuova gara.

Il Consiglio di Stato ha respinto i motivi di appello e ha confermato la sentenza di primo grado.

Nell'articolata argomentazione, i giudici hanno ribadito che, in caso di mancata stipula del contratto per fatto imputabile all'aggiudicatario, la stazione appaltante può agire in giudizio per il risarcimento del danno eccedente l'importo della cauzione provvisoria.

Secondo la giurisprudenza, infatti, la cauzione provvisoria o la garanzia fideiussoria si configura come caparra confirmatoria e non come clausola penale, per cui la sua escussione non esclude il diritto al risarcimento del maggior danno.

Quanto alla concreta quantificazione del danno, il Consiglio di Stato opera una distinzione a seconda che la relativa responsabilità sia imputabile all'ente appaltante o all'aggiudicatario.

Nel caso in cui la responsabilità per la mancata stipula derivi da un comportamento dell’amministrazione – riconducibile a un'ipotesi tipica di responsabilità precontrattuale - il risarcimento si fonda sull’interesse negativo, ravvisabile nelle spese inutilmente sopportate dall'aggiudicatario per la partecipazione alla gara e nella perdita di occasioni di guadagno alternative.

Al contrario, nel caso in cui la responsabilità per la mancata stipula faccia capo all'aggiudicatario, non si può parlare di responsabilità precontrattuale e non è possibile, dunque, ravvisare una violazione dei principi di correttezza e buona fede nelle trattative precontrattuali, giacché il privato offerente, divenuto aggiudicatario, ha l’obbligo di stipulare il contratto.

È lo stesso Codice dei contratti pubblici a prevederlo: da un lato, infatti, dalla lettura dell’art. 93, comma 6, si evince che l’aggiudicatario rispondere per la “mancata sottoscrizione del contratto dopo l’aggiudicazione” dovuta ad ogni fatto a lui riconducibile; dall’altro, l’art. 32, comma 6 specifica che l’offerta dell’aggiudicatario è irrevocabile fino al termine a disposizione della stazione appaltante per addivenire alla stipula.

Nella fase che intercorre tra l'aggiudicazione e la stipula del contratto, l'ente appaltante gode di una tutela rafforzata rispetto all'aggiudicatario. In questa fase, sussiste l’interesse pubblico alla sollecita definizione della procedura di affidamento per cui l’obbligo del privato di sottoscrivere il contratto non risiede nel contratto (non ancora stipulato), bensì nel fatto di essere aggiudicatario all’esito di una pubblica gara.

In sostanza, “quando l’obbligazione ex lege del privato di addivenire alla stipulazione del contratto rimanga inadempiuta per fatto dell’aggiudicatario, questi è soggetto all’escussione della garanzia prestata per la partecipazione alla gara e, se l’inadempimento sia a lui imputabile anche a titolo di colpa, è tenuto al risarcimento del danno in misura pari all’eccedenza rispetto alla già prestata cauzione”.

Di qui la risarcibilità non solo del c.d. interesse negativo, ma anche dell’interesse c.d. positivo dell’amministrazione, correlato alla già intervenuta individuazione del futuro contraente e la conferma delle voci di danno considerate dalla sentenza di primo grado.

In definitiva, il danno risarcibile è pari al pregiudizio sofferto dalla stazione appaltante per il maggior prezzo di aggiudicazione, a seguito di nuova gara (cui si aggiunge il rimborso delle spese di indizione di tale nuova gara) ovvero a seguito dello scorrimento della graduatoria. Poiché quest’ultimo comporta l’aggiudicazione al concorrente che segue l’aggiudicatario decaduto, alle condizioni dallo stesso proposte, il danno risarcibile è commisurabile non solo ai maggiori esborsi sopportati dalla stazione appaltante, ma anche al pregiudizio per l’eventuale inferiore qualità della prestazione.

Ad ogni azione, dunque, può corrisponderne una reazione uguale e contraria. Massima cautela deve essere apprestata alle scelte che vengono compiute dall’operatore tra l’aggiudicazione della gara e la stipula del contratto, specie quando simili comportamenti si trasformano in fonte di responsabilità per l’operatore.

Cons. St., Sez. V, 27.10.2021, n. 7217


Le riserve su maggiori oneri per aumento costi e la revisione dei prezzi: la Cassazione fa il punto.

Istanza compensazione prezzi per aumento costi materiali da costruzione: il punto sul decreto e sulla circolare ministeriale.

Istanza compensazione prezzi per aumento costi materiali da costruzione: il punto sul decreto e sulla circolare ministeriale.L’istanza di compensazione prezzi per aumento costi materiali da costruzione negli appalti pubblici, di cui al decreto Sostegni BIS, al decreto MIMS del 23.11.2021 e alla recentissima circolare ministeriale del 25.11.2021 è un tema caldo, sentito e caro agli operatori, in ragione di tanto è opportuno fare il punto.

Il giorno 23.11.2021 è stato pubblicato infatti in Gazzetta Ufficiale il decreto contenente le variazioni dei prezzi dei principali materiali da costruzione da cui decorrono i noti 15 giorni entro cui inoltrare, a pena di decadenza, l’istanza di compensazione alla committenza.

Del meccanismo della compensazione disciplinato dall’art. 1-septies del decreto Sostegni bis abbiamo già parlato nelle nostre precedenti news.

Nella serata di ieri è stata pubblicata invece una Circolare del MIMS (clicca qui per scaricare) contenente le modalità operative per il calcolo e il pagamento della compensazione richiesta dalle imprese, utile anche a comprendere lato committenti come operare le compensazioni.

Vediamo i principali contenuti della Circolare.

In primo luogo, la circolare chiarisce il contenuto dell’istanza, che deve contenere l’indicazione dei materiali da costruzione utilizzati nell’esecuzione dell’appalto e per i quali, con il decreto variazioni del MIMS pubblicato il 23.11.2021, sono state rilevate le variazioni dei prezzi.

A tal fine, si ricorda che il decreto di istituzione del Fondo compensazioni, pubblicato in Gazzetta il 28.10.2021 (ne abbiamo parlato qui), prevede che l’istanza debba contenere anche la documentazione giustificativa prodotta dall’impresa.

La Circolare chiarisce altresì i compiti del RUP e del Direttore dei lavori.

Il Direttore dei lavori deve accertare le quantità di ciascun materiale contabilizzate a cui applicare la variazione di prezzo unitario, sia per le opere contabilizzate a misura che per quelle contabilizzate a corpo, e provvedere a determinare l'ammontare della compensazione. Il Direttore dei lavori calcola così la maggiore onerosità subita dall’appaltatore, effettua i conteggi relativi alle compensazioni e li presenta alla stazione appaltante.

Al RUP, invece, spetta il compito di convalidare i conteggi effettuati dal Direttore dei lavori e di verificare la disponibilità di somme nel quadro economico di ogni singolo intervento ai fini della compensazione dei prezzi, nonché, ove occorra, a richiedere alla stazione appaltante l’utilizzo di ulteriori somme.

Si ricorda che il decreto Sostegni BIS prevede che a farsi carico della compensazione sono in prima battuta le stazioni appaltanti, nella misura del 50% delle risorse accantonate per imprevisti nel quadro economico di ogni intervento. La stazione appaltante potrà altresì impiegare le ulteriori somme derivanti da ribassi d’aste o che sono residuali rispetto ad altri interventi condotti e già ultimati, per i quali sia stato eseguito già il collaudo e siano stati rilasciati i prescritti certificati di regolare esecuzione.

Solo ove tale limite sia stato raggiunto, si procede alla compensazione facendo uso delle somme del c.d. Fondo per l’adeguamento dei prezzi, il cui ammontare è fissato a 100 milioni di euro.

Infine è il RUP o il dirigente all’uopo preposto che provvede ad effettuare il relativo pagamento.

Quanto alle modalità di funzionamento del meccanismo compensativo, la Circolare chiarisce quanto era già stato specificato dal decreto Sostegni BIS: la compensazione è determinata applicando alle quantità dei singoli materiali impiegati nelle lavorazioni eseguite e contabilizzate dal direttore dei lavori dal 1° gennaio 2021 fino al 30 giugno 2021, le variazioni in aumento o in diminuzione dei relativi prezzi rilevate con decreto pubblicato il 23.11.2021, con riferimento alla data dell’offerta.

A tal fine, è necessario aver eseguito e contabilizzato, o comunque annotato nel libretto delle misure le quantità dei singoli materiali impiegati nelle lavorazioni nel periodo intercorrente tra il 1 gennaio 2021 e il 30 giugno 2021, per i quali sono stati subiti gli aumenti.

In particolare, poi, per le offerte presentate nel 2020, la compensazione potrà essere ottenuta solo per le variazioni che superano l’8%. In tal caso le variazioni sono quelle indicate nell’Allegato 1 del decreto pubblicato in data 23.11.2021. La circolare riporta anche degli esempi, qui uno stralcio.

Per le offerte presentate tra il 2003 e il 2019, invece, potrà essere ottenuta la compensazione solo per le variazioni che superano il 10% complessivo e indicate nell’Allegato 2 del decreto pubblicato in data 23.11.2021. La circolare riporta anche degli esempi, qui uno stralcio.

Alle eventuali compensazioni, inoltre, non sembrerebbe applicarsi l'istituto delle riserve.

Infine, la Circolare chiarisce il contenuto del comma 2 dell’art. 1-septies, per cui le compensazioni sono determinate al netto delle compensazioni eventualmente già riconosciute o liquidate in relazione al primo semestre dell’anno 2021.

Si ricorda che il termine di 15 giorni per presentare le istanze di compensazione prezzi scade il giorno 8 dicembre 2021. Oltre tale data non sarà più possibile richiedere la suddetta compensazione, per cui è importante evitare di incorrere in errori nella redazione dell’istanza, pena il rigetto della domanda.

Il nostro Team è a disposizione per fornire adeguato supporto agli operatori economici.

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Appalti pubblici e compensazione prezzi per aumento costi materiali da costruzione: estensione anche al primo semestre 2022

Istanza di compensazione prezzi, aumento costi materiali appalti pubblici.

Istanza di compensazione prezzi, aumento costi materiali appalti pubblici.E’ stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 23.11.2021 il decreto MIMS sulla compensazione prezzi (clicca qui per scaricare), per aumento costi materiali da costruzione negli appalti pubblici, ne avevamo già parlato in questa news. (Qui è possibile scaricare l’All.1 al decreto. Qui è possibile scaricare l’All. 2 al decreto).

Secondo l’art. 1 septies, comma 4, del decreto Sostegni bis, l’appaltatore è tenuto a presentare, a pena di decadenza, alla stazione appaltante una istanza di compensazione entro 15 giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta  Ufficiale del predetto decreto attuativo e quindi entro il giorno 8.12.2021.

È importante evitare di incorrere in errori nella redazione dell’istanza, pena il rigetto della domanda.

Il nostro Team è a disposizione per fornire adeguato supporto agli operatori economici anche alla luce delle indicazioni di cui alla circolare ministeriale del 25.11.2021

Per ogni informazione scrivi qui: info@legal-team.it o compila il form


Legge regionale Puglia 132001, art. 23, comma 2 la Corte costituzionale sull'efficacia di riserve condizionata a costituzione cauzione.

Legge regionale Puglia 13/2001, art. 23, comma 2: la Corte costituzionale sull'efficacia di riserve condizionata a costituzione cauzione.

Legge regionale Puglia 132001, art. 23, comma 2 la Corte costituzionale sull'efficacia di riserve condizionata a costituzione cauzione.Interpellata dalla Corte di cassazione, la Corte costituzionale si è espressa sulla questione di legittimità dell’efficacia delle riserve condizionata alla costituzione di una cauzione prevista dall’art. 23, comma 2, legge Regione Puglia n. 13/2001, come anticipato in questa news.

In particolare, secondo la norma regionale: “Qualora, a seguito dell’iscrizione delle riserve da parte dell’impresa sui documenti contabili, l’importo economico dell’opera variasse in aumento rispetto all’importo contrattuale, l’impresa è tenuta alla costituzione di un deposito cauzionale a favore dell’Amministrazione pari allo 0,5% dell’importo del maggior costo presunto. (…) Tale deposito deve essere effettuato (…) entro quindici giorni dall’apposizione delle riserve. Decorso tale termine senza il deposito delle somme suddette, l’impresa decade dal diritto di far valere, in qualunque termine e modo, le riserve iscritte sui documenti contabili”.

La questione è stata dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza tuttavia non mancano aspetti di rilievo che vale la pena evidenziare.

Innanzitutto, per comprendere il motivo della inammissibilità, occorre rammentare che il contratto di appalto da cui ha avuto origine il giudizio aveva ad oggetto la realizzazione di un edificio da adibire a caserma dei Carabinieri.

Ad avviso della Consulta, la legge Regione Puglia n. 13/2001 non è applicabile – per espressa previsione del suo art. 1 - ai contratti di appalto per l’esecuzione di lavori pubblici su beni destinati allo svolgimento di compiti e funzioni spettanti allo Stato (per tale ragione, le caserme dei carabinieri – classificate come opere di difesa militare, oltre che preposte al mantenimento dell’ordine pubblico – sono soggette alla disciplina esclusiva della legge statale).

In secondo luogo, la questione è inammissibile per una errata interpretazione dell’art. 27, comma 3, della legge regionale Puglia 13/2001 in relazione alle procedure in corso di esecuzione che fanno riferimento a contratti di appalto stipulati prima dell’entrata in vigore della legge regionale. Il caso di specie è proprio questo, contratto di appalto stipulato nel 1999.

L’art. 27, comma 3, citato se, da un lato, prevede l’adeguamento delle procedure in fase esecutiva alle disposizioni della legge stessa, dall’altro statuisce che il medesimo adeguamento è ammissibile solo laddove da esso non derivino alterazioni delle condizioni contrattuali pattuite tra impresa e committente.

La Consulta chiarisce che l’onere di riserva per sua natura investe tutte le pretese di carattere economico che l’esecutore intenda far valere nei confronti dell’amministrazione committente e quindi ricomprende anche spettanze relative a inadempimenti della controparte.

Subordinare l’apposizione di riserva alla prestazione di una cauzione, con un termine di decadenza di quindici giorni, tende a impedire che l’appaltatore possa pretendere (legittimamente) l’esatta esecuzione dell’originario sinallagma o che possa adeguare il medesimo alle sopravvenienze intervenute e ciò implica una chiara alterazione delle condizioni contrattuali.

Inoltre, si aggiunge, la prestazione di una cauzione, sebbene costituisca un onere, determina in ogni caso un aggravio delle condizioni contrattuali originariamente pattuite e, quindi, una modifica del sinallagma contrattuale inizialmente concordato tra le parti.

In accordo con quanto evidenziato dalla Corte di cassazione, Sez. I, 13.2.2019, n. 4259, la Consulta afferma in conclusione che l’art. 27, comma 3, legge Regione Puglia 13/2001 incide sui rapporti contrattuali in corso e quindi non è applicabile ai contratti sottoscritti prima della sua entrata in vigore.

(Corte Cost., 5.11.2021, n. 211 )


Le misure di contrasto al fenomeno del dumping contrattuale: il DURC di congruità.

Come è noto, la tutela del lavoro rappresenta certamente un principio fondamentale dell'ordinamento democratico e, al contempo, uno dei capisaldi del sistema pubblico di acquisto di beni e servizi.

L'art. 30 del d.lgs. 50/2016 e s.m.i., infatti, accorda una tutela che si potrebbe definire "privilegiata" alla salvaguardia dei lavoratori impiegati negli appalti pubblici attraverso la previsione dell'applicazione al personale impiegato del contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro.

In precedenza, abbiamo esaminato alcuni aspetti specifici della disciplina degli appalti pubblici e delle forme di tutela, come ad esempio le problematiche connesse all'applicazione della clausola cd. sociale di riassorbimento della manodopera (qui il link della news).

In aggiunta a ciò, l'art. 95, comma 10, d.lgs. 50/2016 e s.m.i. impone a pena di esclusione che l'offerta economica, salvi i casi espressamente previsti, sia corredata dall'indicazione dei costi della manodopera (anche a prescindere da una previsione espressa in tal senso della lex specialis di gara) (qui il link di una news che approfondisce la questione).

La ratio dell’obbligo dell’indicazione separata dei costi della manodopera è esplicitata nell’ultimo periodo dello stesso art. 95, comma 10, secondo il quale “le stazioni appaltanti, relativamente ai costi della manodopera, prima dell’aggiudicazione procedono a verificare il rispetto di quanto previsto dall’art. 97, comma 5, lett. d)”, vale a dire il rispetto dei minimi salariali retributivi.

Si tratta, all’evidenza, della finalità di tutela delle condizioni dei lavoratori cui si accompagna, a determinate condizioni, la finalità di consentire alla stazione appaltante la verifica della serietà dell’offerta economica, in particolare, in presenza di offerte normalmente basse.

La gravità della conseguenza giuridica dell’espulsione dalla gara segnala, sul piano sostanziale, la rilevanza dei beni giuridici tutelati attraverso l’imposizione della prescrizione normativa, che intende garantire la tutela del lavoro sia sotto il profilo della applicazione dei contratti collettivi (e, quindi, della tutela della retribuzione dei lavoratori secondo l’art. 36 Cost.), sia sotto il profilo della salute e della sicurezza dei lavoratori (art. 32 Cost.).

L’indicazione del costo della manodopera (così come degli oneri per la sicurezza aziendale) svolge, in realtà, una duplice funzione: non solo ai fini dell’eventuale giudizio di anomalia (che ha come unico scopo la verifica della congruità dell’importo indicato dall’offerente come costo del personale), ma, prima ancora, in sede di predisposizione dell’offerta economica per formulare un’offerta consapevole e completa sotto tutti i profili sopra evidenziati.

Fino a poco tempo fa il legislatore ha ritenuto che tali strumenti, in aggiunta al documenti unico di regolarità contributiva (cd. D.U.R.C.), fossero sufficienti a garantire la piena ed incondizionata tutela del lavoro, ma con l'evoluzione del sistema pubblico di acquisto di beni e servizi si è avvertita la necessità, manifestata anche e soprattutto tra le parti sociali, di introdurre nuovi strumenti per l'attuazione, specie nel settore edile, di un sistema di verifica della congruità del costo della manodopera impegnata per la realizzazione dell'opera rispetto al costo complessivo della stessa.

A seguito della stipula dell'accordo collettivo del 10 settembre 2020, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali ha adottato il decreto n. 143 del 25 giugno 2021 (qui consultabile) che introduce in via sperimentale a partire dal giorno 1 novembre 2021, nell'ordinamento giuridico, il documento relativo alla congruità dell'incidenza della manodopera con il dichiarato fine di "... realizzare un'azione di contrasto dei fenomeni di dumping contrattuale promuovendo l'emersione del lavoro irregolare attraverso l'utilizzo di parametri idonei ad orientare le imprese operanti nel settore ed assicurando un'effettiva tutela dei lavoratori sia sotto il profilo retributivo che per gli aspetti connessi alla salute e alla sicurezza ...".

Il fenomeno del dumping contrattuale, termine frutto dell'elaborazione dottrinale giuslavoristica, è strettamente connesso alla determinazione della cd. "giusta retribuzione" e costituisce un indice di commisurazione del trattamento economico complessivo proporzionato ai sensi dell’art. 36 Cost. e al fine di evitare il diffondersi di condizioni di trattamento sensibilmente inferiori a quelle determinate dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dagli attori c.d. tradizionali.

Il sistema di verifica della congruità da ultimo introdotto può, pertanto, considerarsi un'ulteriore strumento a tutela dei lavoratori nel settore edile, sia per quelli che operano nell'ambito dei lavori pubblici che di quelli privati.

Di seguito le principali caratteristiche di tale sistema:

  • quanto all'ambito applicativo si riferisce all'incidenza della manodopera relativa ad ogni specifico intervento (le categorie sono riportate nel medesimo decreto di lavori) realizzato nel settore edile sia nell'ambito dei lavori pubblici che di quelli privati eseguiti da imprese affidatarie in appalto o subappalto (ovvero da lavoratori autonomi convolti nell'esecuzione), con esclusione dei lavori privati per opere di importo inferiore ad euro 70.000;
  • quanto all'oggetto della verifica di congruità, essa è eseguita in relazione agli indici minimi di congruità predeterminati riferiti alle singole categorie di lavori tenendo conto delle informazioni rese dall'impresa alla Cassa Edile/Edilcassa territorialmente competente, con riferimento al valore complessivo dell'opera, al valore dei lavori previsti, alla committenza, alle eventuali imprese sub-appaltatrici e sub-affidatarie;
  • quanto agli aspetti procedimentali, l'attestazione di congruità è rilasciata entro 10 giorni dalla richiesta dalla Cassa Edile/Edilcassa su istanza dell'impresa affidataria (o delegato) o del committente. Nei casi di appalti pubblici, la congruità dell'incidenza della manodopera sull'opera complessiva avviene in occasione dell'ultimo stato di avanzamento dei lavori, prima di procedere al saldo finale;
  • sussistono deroghe espresse allo scostamento rispetto agli indici legali predeterminati che seguono un iter ben preciso.

Certamente il sistema di verifica di congruità della manodopera potrà rappresentare un innovativo strumento di contrasto dei fenomeni anticoncorrenziali connessi al costo della manodopera dichiarati dagli operatori economici in sede di partecipazione e vedrà, senza alcun dubbio, un ruolo cardine delle imprese (ma anche dei direttori dei lavori) nella fase di stima del costo della manodopera e nei casi di riscontrata assenza di congruità ed irregolarità ove dovessero sorgere degli scostamenti rispetto agli indici di congruità predeterminati.

Il 10 novembre, la Commissione Nazionale delle Casse Edili (CNCE) ha pubblicato le prime risposte ai quesiti posti dagli operatori: si tratta di un documento utile a livello tecnico operativo (FAQ) consultabile cliccando qui.

Ancora, il Sistema nazionale edile per la verifica della congruità della manodopera nei cantieri ha strutturato una apposita piattaforma online alla quale possono accedere committenti, imprese e subappaltatori per verificare la denuncia e rilascio del Durc e regolarizzare, in caso di non congruità; è stato inoltre predisposto un manuale per guidare gli operatori nella comprensione del meccanismo, disponibile cliccando qui.

Molto interessante è il simulatore di congruità ove, inserendo i dati, è possibile verificare la congruità della manodopera.

Qui il link per un approfondimento del contenuto del decreto ministeriale.


Ritardo nel rilascio dell’autorizzazione dipeso dall’esistenza di un contrasto giurisprudenziale no al risarcimento danno da ritardo.

Ritardo nel rilascio dell’autorizzazione per un contrasto giurisprudenziale: no al risarcimento del danno.

Ritardo nel rilascio dell’autorizzazione dipeso dall’esistenza di un contrasto giurisprudenziale no al risarcimento danno da ritardo.Stando ad una recente sentenza del TAR Campania, non spetta il risarcimento del danno da ritardo nel rilascio di un’autorizzazione qualora il ritardo sia dipeso da un contrasto giurisprudenziale in virtù del quale l’Amministrazione non ha potuto adottare tempestivamente il provvedimento richiesto dall’istante.

Il caso sottoposto all’attenzione del Collegio è tutt’altro che singolare.

Con una delibera del 2006 il Comune, che aveva aderito al consorzio intercomunale per i servizi socio-sanitari, aveva esercitato il diritto di prelazione per la gestione di una seconda farmacia comunale di nuova istituzione. Il Comune aveva, quindi, presentato la domanda di autorizzazione all’apertura della farmacia comunale presso la Regione la quale, dopo ben 4 mesi, aveva proceduto ad attribuire al Comune la titolarità della seconda sede della farmacia urbana.

Ricorre innanzi al TAR la società che era stata individuata dal consorzio intercomunale quale socio privato di una costituenda società mista (pubblico-privata) che avrebbe avuto il compito, per l’appunto, di gestire le farmacie comunali dei comuni aderenti al consorzio tra cui, quella del Comune in questione.

Il ricorso verte sulla richiesta del risarcimento dei danni subiti a causa del mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento, fissato in 30 giorni decorrenti dalla data di deposito dell’istanza di autorizzazione, e del conseguente ritardo di oltre quattro mesi nell’apertura della sede farmaceutica in questione.

La società ricorrente ha quantificato poi il danno emergente considerando i mancati utili e ha chiesto la liquidazione equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., del lucro cessante consistente nel pregiudizio subito a causa del ritardo sotto il profilo della concorrenza e dell’avviamento.

La Regione, costituitasi in giudizio, ha sottolineato che il mancato rispetto dei termini per il rilascio del decreto di autorizzazione all’apertura della farmacia comunale era stato causato da incertezze insorte in merito all’organo regionale competente all’adozione del piano di programmazione (organo politico o organo dirigenziale).

Sul punto, era infatti sorto un contrasto giurisprudenziale risolto solo successivamente.

Accanto a ciò, la Regione aveva precisato che, al fine procedere al rilascio dell’autorizzazione, aveva richiesto un parere sia al Servizio farmaceutico che all’Avvocatura regionale e che entrambi avevano sostenuto la competenza del dirigente del settore ad adottare il suddetto piano.

Il TAR ha respinto la richiesta risarcitoria, non ritenendo sussistenti gli elementi tipici della responsabilità aquiliana, alla quale, in base alla nota Adunanza Plenaria n. 7/2021 (di cui abbiamo parlato qui), va ricondotta la responsabilità civile dell’amministrazione in tema di danni cagionati dall’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.

Secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza “per danno ingiusto risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c. si intende non qualsiasi perdita economica, ma solo la perdita economica ingiusta, ovvero verificatasi con modalità contrarie al diritto; ne consegue quindi la necessità, per chiunque pretenda un risarcimento, di dimostrare la c.d. spettanza del bene della vita, ovvero la necessità di allegare e provare di essere titolare, in base ad una norma giuridica, del bene della vita che ha perduto od al quale anela, e di cui attraverso la domanda giudiziale vorrebbe ottenere l’equivalente economico”

Ad avviso del Collegio:

  • prima del rilascio da parte della Regione dell’autorizzazione all’apertura della sede farmaceutica, alla società ricorrente non era stata ancora affidata la gestione della predetta sede: ciò era avvenuto solo successivamente all’ottenimento dell’autorizzazione all’apertura da parte del Comune. La stessa non poteva ritenersi già titolare di alcun bene della vita, il cui godimento, ad avviso della società, sarebbe stato impedito dall’inerzia o da ritardato intervento dell’Amministrazione, essendo evidentemente l’affidamento della gestione della detta sede farmaceutica, che concreta la situazione utile a far valere un pregiudizio risarcibile, un atto conseguente e successivo al titolo abilitante all’apertura. Sicché, nel periodo tra la presentazione da parte del Comune della domanda di autorizzazione all’apertura della sede farmaceutica e il rilascio del predetto titolo, la società ricorrente non era titolare di una vera e propria situazione giuridica soggettiva, bensì di una mera possibilità, di un’aspettativa di fatto, in relazione alla quale il danno prospettato è solo ipotetico e, come tale, non meritevole di reintegrazione;
  • non sussiste neanche l’elemento soggettivo, inteso nel senso che l’attività illegittima deve essere imputabile all’amministrazione a titolo di dolo o colpa, come testualmente confermato dall’art. 2 bis della legge n. 241/1990, ai sensi del quale il danno deve conseguire alla “inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”; dalla documentazione depositata dalla Regione, si evince che il ritardo nel rilascio dell’autorizzazione è dipeso dall’esistenza di un contrasto giurisprudenziale su chi, tra l’organo politico e l’organo dirigenziale, fosse competente a revisionare la programmazione della pianta organica delle farmacie (la Regione aveva dato atto dell’esistenza di pronunce dello stesso TAR contrastanti tra loro). A fronte di detto contrasto l’amministrazione prima di procedere al rilascio del titolo autorizzatorio ha ritenuto di porre un quesito al Servizio farmaceutico e di richiedere un parere all’Avvocatura ed entrambi hanno concordato sulla natura vincolata dell’atto di revisione della pianta organica delle sedi farmaceutiche, connotato da discrezionalità tecnico – amministrativa, e come tale di competenza del dirigente del settore. Per tale ragione, nel caso di specie, i giudici hanno ritenuto che il ritardo subito non fosse imputabile all’amministrazione a titolo di dolo o colpa, come invece richiede espressamente l’art. 2-bis l. 241/1990.

(TAR Campania, Napoli, Sez. V, 4.10.2021, n. 6208)

 


La produzione di energia rinnovabile e l'apparente contrasto con la tutela del paesaggio.

Energia rinnovabile e tutela del paesaggio sembrano due argomenti in voga negli utlimi tempi. Il tema, alquanto attuale, riguarda in particolare il regime abilitativo degli impianti di energia da fonte rinnovabile previsto dal legislatore statale in conformità alla normativa dell'Unione europea.

Recentemente, in questa news, abbiamo affrontato le problematiche connesse alle autorizzazioni amministrative, in particolare gli aspetti giuridici delle prescrizioni d’obbligo ambientali e le ipotesi di varianti urbanistiche.

Il caso che qui affrontiamo, che sorge all'esito di un contenzioso insorto tra il Ministero per i beni e le attività culturali e la Regione Lazio in ordine al rilascio di un'autorizzazione unica regionale per la realizzazione di un parco fotovoltaico di notevole estensione, rileva per un duplice ordine di motivi:

  • il primo, concernente in generale la tutela ambientale (genericamente intesa) e quella energetica;
  • il secondo, relativo al nesso funzionale esistente tra le esigenze di tutela ambientale (che riguardano il reperimento di fonti energetiche alternative) e il coinvolgimento dell’iniziativa privata per la realizzazione di tale interesse di natura strategica.

Soffermandosi sul primo, la premessa da cui dovremmo muovere qualsivoglia considerazione è che la produzione di energia da fonti rinnovabili costituisce un’attività di interesse pubblico che contribuisce (anch’essa) non solo alla salvaguardia degli interessi ambientali ma, sia pure indirettamente, anche a quella dei valori paesaggistici.

Sulla base di tale considerazione non può non premettersi che nella materia i principi fondamentali fissati dalla legislazione dello Stato costituiscono attuazione delle direttive comunitarie, che manifestano un favor per le fonti energetiche rinnovabili.

Del resto, è quanto ribadito anche dal legislatore con il recente decreto Semplificazioni PNRR allorquando ritiene che trattasi di interventi di pubblica utilità indifferibili e urgenti.

Infatti, il legislatore nazionale ha introdotto una disciplina specifica volta a promuovere la produzione e l'utilizzo di energia elettrica derivante da fonti rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità attraverso il decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, di attuazione della direttiva 2001/77/CE.

Il decreto, oltre a fissare i principi fondamentali del sistema legislativo e gli obiettivi che si intendono perseguire, introduce delle disposizioni specifiche per i procedimenti amministrativi autorizzativi.

Certamente, una delle criticità che si pone nella realizzazione di tali opere è il contesto paesaggistico che caratterizza gran parte del nostro Paese, criticità che rileva nel caso di cui si discute e in particolare all'atto del rilascio del provvedimento di autorizzazione alla realizzazione in quanto trattasi di impianti di notevole dimensione.

Ciò potrebbe determinare, nondimeno, un contrasto (apparente) e una sovrapposizione della normativa applicabile, ma così non è in quanto, come si è detto, il contrasto è soltanto apparente, come si ricava dalla pronuncia del Consiglio di Stato che qui si esamina.

Specificatamente, l'art. 12 del d.lgs. 387/2003 e s.m.i. delinea un sistema fondato sul riconoscimento alle Regioni del potere di "procedere alla indicazione di aree e siti non idonei alla installazione di specifiche tipologie di impianti"; esso è espressivo di una norma fondamentale di principio della materia "energia" e costituisce un punto di equilibrio rispettoso di tutte le competenze, statali e regionali.

Nella controversia insorta tra Ministero e Regione, il punto nodale della questione era che, a ragion del Ministero, il progetto prevedeva la collocazione di un impianto fotovoltaico, a terra, in area agricola e non in area marginale e/o degradata, senza tener conto del contesto paesaggistico, senza adeguata valutazione di soluzioni alternative e in contrasto con gli indirizzi espressi dalla stessa Regione.

Trattandosi di impianto di notevoli dimensioni, a ragion del Ministero, "... le dimensioni sproporzionate e spropositate dei campi fotovoltaici operano una vera cesura, discontinuità, interruzione e modificazione dei caratteri strutturanti il territorio agricolo ...".

La tesi, tuttavia, non è stata condivisa dal Supremo Consesso amministrativo, il quale, nel respingere l'atto di appello, ha rimarcato il ruolo centrale della produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile che non si pone in contrasto con la tutela ambientale e quella paesaggistica, anzi indirettamente contribuisce alla salvaguardia dei valori paesaggistici.

Per poter affermare tale esclusione, il Giudice amministrativo opera una ricostruzione positiva della disciplina legislativa e del relativo riparto di competenze tra Stato ed enti sub-statali: "... la disciplina del regime abilitativo degli impianti di energia da fonte rinnovabile rientra, oltre che nella materia della tutela dell’ambiente, anche nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», attribuita alla competenza legislativa concorrente dello Stato. Invero, «alle regioni è consentito soltanto di individuare, caso per caso, aree e siti non idonei, avendo specifico riguardo alle diverse fonti e alle diverse taglie di impianto, in via di eccezione e solo qualora ciò sia necessario per proteggere interessi costituzionalmente rilevanti, all’esito di un procedimento amministrativo nel cui ambito deve avvenire la valutazione sincronica di tutti gli interessi pubblici coinvolti e meritevoli di tutela. Tale margine di intervento riconosciuto al legislatore regionale non permette, invece, che le regioni prescrivano limiti generali inderogabili, valevoli sull'intero territorio regionale, specie nella forma di distanze minime, perché ciò contrasterebbe con il principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili, stabilito dal legislatore statale in conformità alla normativa dell’Unione europea»" (Cons. St. Sez. IV, 12.4.2021, n. 2983).

Richiamando la normativa di settore che attribuisce la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza per i progetti attuativi degli interventi, il Consiglio di Stato precisa che "... La disposizione legislativa .. è ... il risultato di una scelta di politica programmatoria nella quale l’obiettivo di interesse generale, la realizzazione di impianti energetici alternativi, anziché essere affidato esclusivamente alla mano pubblica, viene ritenuto perseguibile attraverso l’iniziativa economica privata, quando non ostino altri interessi di carattere generale».

Da tali premesse il Giudice d'appello, confermando la validità dell'iter amministrativo autorizzativo, ricava il principio generale secondo il quale "La produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili è infatti un’attività di interesse pubblico che contribuisce anch’essa non solo alla salvaguardia degli interessi ambientali ma, sia pure indirettamente, anche a quella dei valori paesaggistici".

Nel concludere l'argomento della news, non può sottacersi che tale pensiero rientra nella ricostruzione della nozione giuridica di ambiente elaborata da Massimo Severo Giannini, secondo il quale il significato giuridico di ambiente è declinabile in tre sensi, uno di questi riferito proprio al paesaggio.

(Cons. St. Sez. IV, 12.4.2021, n. 2983)


Affidamenti diretti e proroghe reiterate negli appalti pubblici la censura di ANAC .

Affidamenti diretti e proroghe reiterate negli appalti pubblici: la "censura" di ANAC .

Affidamenti diretti e proroghe reiterate negli appalti pubblici la censura di ANAC .Con una recente delibera l’ANAC è intervenuta sugli affidamenti diretti di servizi e sulle proroghe reiterate negli appalti pubblici, pratica comune a molte stazioni appaltanti.

Nei fatti, una stazione appaltante ha prorogato, svariate volte a partire dal 2014, un servizio al soggetto aggiudicatario della gara, reiterando di anno in anno le proroghe in virtù di una clausola di rinnovo tacito presente nel contratto.

A seguito di segnalazione, l’ANAC, nel censurare il descritto modus operandi, evidenzia che:

- la previsione del rinnovo tacito – contenuta nel contratto di appalto – risulta in contrasto con la legislazione vigente ratione temporis (ossia l’articolo 57, comma 7, d.lgs. 163/2006, a mente del quale “È in ogni caso vietato il rinnovo tacito dei contratti aventi ad oggetto forniture, servizi, lavori e i contratti rinnovati tacitamente sono nulli”;

- la possibilità di ripetizione/proroga dei contratti è in contrasto con gli articoli 63, comma 5, e 106, comma 11, Codice dei contratti pubblici: tali disposizioni sanciscono la possibilità di proroga dei contratti per il solo periodo necessario ad espletare (e concludere) una procedura volta ad individuare il nuovo aggiudicatario dell’appalto;

- gli affidamenti diretti del servizio succedutisi nel tempo (tutti di importo appena inferiore alla soglia di € 40.000) e le succitate proroghe del contratto determinano il frazionamento (non consentito dalla normativa vigente) di un servizio che va inteso come unitario, avente cioè durata pluriennale (il cui valore complessivo supera, per ciò stesso, la soglia);

- la sottrazione di un simile affidamento alla disciplina dell’evidenza pubblica risulta essere in contrasto con quanto previsto dall’art. 125, comma 11, d.lgs. 163/2006 (a mente del quale per i contratti di importo pari o superiore ad € 40.000 è necessario bandire una procedura ad evidenza pubblica) nonché con il dettato del successivo art. 36, comma 2, lettera b), Codice dei contratti pubblici (sostanzialmente riproduttivo, salvo marginali differenze, della disposizione appena citata). A tal proposito, va rammentato che la soglia di € 40.000 è stata innalzata ad € 150.000 dall’art. 1, comma 2, lettera a), d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (conv. in l. 120/2020) in deroga, fino al 30.6.2023 – come da d.l. 77/2021, alla disciplina codicistica.

In conclusione, l’Autorità anticorruzione – dopo aver ricordato che il vigente Codice dei contratti pubblici non contempla né il frazionamento delle commesse né, soprattutto, il ricorso all’ulteriore affidamento come strumento della corretta esecuzione dell’appalto – statuisce che l’affidamento del servizio con reiterate proroghe e rinnovi in favore di un operatore economico – come avvenuto nel caso di specie – si pone in contrasto con la normativa vigente, sottraendo al meccanismo dell’evidenza pubblica un appalto che, per valore, andrebbe aggiudicato attraverso una procedura competitiva.

(ANAC, delibera 8.9.2021, n. 628)


Prescrizioni ambientali e ipotesi di varianti urbanistiche ex art. 208 Codice ambiente.

Prescrizioni ambientali e ipotesi di varianti urbanistiche ex art. 208 Codice ambiente.

Prescrizioni ambientali e ipotesi di varianti urbanistiche ex art. 208 Codice ambiente.Il TAR Puglia affronta una delle problematiche connesse alla realizzazione degli impianti energetici che necessitano, come è noto, di complesse autorizzazioni amministrative, in particolare, la pronuncia è di interesse in relazione alle prescrizioni d'obbligo ambientali e alle ipotesi di varianti urbanistiche.

Il tema è stato già affrontato in precedenza in questa news.

Il caso nasce dal rilascio da parte del competente ente provinciale del provvedimento di autorizzazione con plurime prescrizioni d'obbligo in favore di un privato operatore economico alla realizzazione dell'impianto di bio-metano, con variante puntuale in deroga alle norme tecniche di attuazione (N.T.A.) del piano urbanistico del comune interessato ad ospitare l'intervento.

L'Ente locale ha impugnato il provvedimento autorizzativo contestando la contraddittorietà del procedimento amministrativo seguito e la carenza di motivazione del provvedimento di assenso, contenente una cospicua quantità di prescrizioni anche su fondamentali profili progettuali.

In sintesi, secondo la tesi dell'Amministrazione ricorrente, il punto nodale della questione attiene ad un'inversione procedimentale verificatasi nel caso di specie: per la realizzazione di siffatti impianti, alla stregua dell'art. 208, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., il proponente è tenuto ad elaborare il progetto definitivo e l'autorità amministrativa, previa valutazione, lo approva (o meno) alla stregua dei principi in materia di precauzione e prevenzione, ponendo se del caso limitate prescrizioni.

Sempre a ragion dell'Amministrazione ricorrente, alcuni pareri resi nell'arco delle diverse conferenze di servizi svolte erano stati trasformati da negativi a positivi con prescrizioni: da ciò l'evidente illegittimità dell'atto autorizzativo rilasciato dall'Ente provinciale competente.

Accogliendo le argomentazioni difensive svolte dalla difesa del civico Ente, il TAR pugliese ha ritenuto fondato il ricorso specie per ciò che attiene l'aspetto concernente la validità dell'effetto di variante puntuale al piano urbanistico.

Il Giudice amministrativo, nel ripercorrere l'iter motivazionale alla base della decisione, premette che l'oggetto specifico di censura è la presenza nel provvedimento amministrativo di numerose "prescrizioni d'obbligo" su elementi non secondari della progettazione dell'impianto.

E' noto che la disciplina amministrativa ammette la possibilità di inserire, nei relativi atti, le cd. "prescrizioni d'obbligo": in generale, si osserva che un atto amministrativo si compone di una parte cd. "necessaria", contenente gli elementi tipici previsti dalla legge, ma può avere anche una parte cd. "eventuale", riferendosi ad elementi accidentali o eventuali, ai quali vengono in genere ricondotte le cd. "clausole impositive di obblighi".

Il TAR si sofferma dapprima sul significato proprio del termine "prescrizione" che, dal punto di vista etimologico, indica l'atto di imporre qualcosa a qualcuno e, nella sostanza, evoca "... l'atto di porre una norma da parte di chi ne ha autorità al cospetto di chi la deve osservare": muovendo dal presupposto secondo il quale le misure prescrittive indicano gli obblighi ai quali viene subordinata la validità e l'efficacia dell'autorizzazione, a cui deve adempiere e conformarsi il destinatario dell'atto affinchè l'attività possa essere svolta legittimamente, può dirsi che " la cd. prescrizione di obblighi ponga una sorta di condicio juris al provvedimento, in quanto solo dopo il suo adempimento l'autorizzazione spiega i propri effetti tipici".

Il rilievo è fondamentale atteso che l'intervento da realizzarsi avrebbe dovuto avvenire in area agricola e, in ossequio alle prescrizioni di cui all'art. 208, co. 6, d.lgs. 152/2006 e s.m.i., l'approvazione "costituisce, ove occorra, variante allo strumento urbanistico e comporta la dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori".

Da tali premesse, lo stesso organo giudicante deduce che "La disciplina normativa in materia richiede ... che gli enti e/o gli organi (anche consultivi) si esprimano positivamente nel merito dell’incidenza ambientale e non invece che essi possano differire a posteriori e/o demandare ad altri, magari allo stesso imprenditore proponente, l’individuazione di soluzioni progettuali, nient’affatto secondarie, mai vagliate in via preventiva".

Da ultimo, il Giudice amministrativo rileva che "un provvedimento di tal genere, come quello oggetto di causa (ossia dal contenuto indeterminato, ma determinabile solo ex post, a seconda delle scelte progettuali, pur osservanti le prescrizioni imposte, ma prescelte autonomamente dall’operatore economico proponente), non sarebbe in grado di determinare il c.d. effetto variante della pianificazione urbanistica ed edilizia del luogo considerato ... Ciò in quanto la variante dello strumento urbanistico in questione è una variante parziale e speciale (e non già una variante generale). Essa presuppone una ponderazione motivata degli interessi puntuali coinvolti nella realizzazione dello specifico impianto effettivamente compiuta che si riflette nel provvedimento di autorizzazione espresso ed esplicito".

La pronuncia consente di operare due considerazioni di fondo:

  • la prima, le valutazioni ambientali assumono carattere di norma preventivo e sono il frutto di scelte tecnico - discrezionali;
  • la seconda, dato che l'approvazione di tali opere costituisce variante allo strumento urbanistico, tale effetto è possibile solo ed esclusivamente qualora nel corso dell'iter istruttorio la progettazione sia risultata completa ed esaustiva.

(TAR Puglia Bari, Sez. II, 23.9.2021, n. 1387)