procedura

Errato ricorso alla procedura negoziata: c’è responsabilità erariale?

proceduraL’errato ricorso della procedura negoziata può determinare una responsabilità erariale?

Una amministrazione aveva avviato due procedure negoziate ex art. 63, d.lgs. 50/2016 per l’upgrading e il revamping di alcuni macchinari. Il contraente – in palese violazione del contratto stipulato con l’amministrazione – aveva tuttavia eseguito in maniera errata il contratto, consegnando macchine nuove in luogo degli interventi di upgrading e revamping oggetto dell’affidamento.

La difformità nell’esecuzione del contratto aveva determinato un costo decisamente maggiore per l’amministrazione: ove fossero stati rispettati gli accordi contrattuali esistenti, i costi che l’ente pubblico avrebbe dovuto sostenere per tali operazioni sarebbero stati ben inferiori rispetto a quelli poi effettivamente sostenuti.

A fronte del danno erariale potenzialmente cagionato, la questione è stata portata all’attenzione della magistratura contabile.

Secondo la procura contabile, le procedure negoziate in questione erano state predisposte al fine di giustificare la c.d. infungibilità tecnica che, come noto, costituisce il presupposto di legittimità delle procedure negoziate ex art. 63 d.lgs. 50/2016. La procura ha così chiamato in giudizio i RUP, per “danni da omessa indizione di una gara pubblica”, nonché per l’omesso rilievo che i beni consegnati erano diversi da quelli pattuiti.

Secondo il giudice contabile, il pregiudizio sotteso al procedimento portato alla sua attenzione è riconducibile alla violazione di quanto statuito dall’art. 63, d.lgs. 50/2016. In particolare, l’art. 63, comma 2, lett. b), n. 2 d.lgs. 50/2016 statuisce che il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è possibile, tra i vari casi, qualora “la concorrenza è assente per motivi tecnici” (ci si riferisce, in altri termini, alla c.d. “infungibilità tecnica”). Il codice dei contratti pubblici ammette infatti l’utilizzo della procedura negoziata senza previa pubblicazione nei casi in cui la prestazione può essere fornita da un unico operatore perché “la concorrenza è assente per motivi tecnici” o per “la tutela di diritti esclusivi, inclusi i diritti di proprietà intellettuale”. Simili eccezioni, però, come precisato dalla stessa disposizione, “si applicano solo quando non esistono altri operatori economici o soluzioni alternative ragionevoli e l'assenza di concorrenza non è il risultato di una limitazione artificiale dei parametri dell'appalto”.

Ove un bene risulti infungibile, dunque, questo può essere reperito sul mercato derogando al principio della massima concorrenzialità nell’affidamento dei contratti pubblici. In altre parole, la procedura negoziata senza bando costituisce un’eccezione al principio della c.d. “messa in concorrenza”: con tale espressione, il legislatore europeo intende l’obbligo, per le stazioni appaltanti, di subordinare l’affidamento di qualsivoglia contratto pubblico al previo espletamento di una gara. In tal senso, la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è applicabile esclusivamente in casi ben specifici e tassativamente determinati, al pari dei casi in cui è ammessa la modifica dell’oggetto contrattuale.

A tal proposito, ricordano i giudici contabili, la Corte UE ha in più occasioni ricordato come una delle violazioni più gravi del diritto comunitario si verifica, appunto, nel caso di affidamento diretto senza gara in assenza dei presupposti richiesti, a tal scopo, dalle direttive UE e dalla relativa normativa di recepimento. In casi di questo tipo, in particolare, ad essere violati sono anche i principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra operatori economici nell’accesso al mercato delle commesse pubbliche (ai sensi di quanto previsto dagli artt. 4 e 30, d.lgs. 50/2016 – disposizioni che recepiscono quanto statuito dall’art. 76, direttiva 2014/24/UE).

Nel caso di specie, dalla documentazione depositata, emergeva chiaro il danno erariale compiuto, imputabile alla mala gestio dell’attività, con particolare riguardo alla scelta di dare avvio alla procedura e alla modifica del contratto originario in un contratto di acquisto di dispositivi nuovi, senza procedere alla gara.

I giudici hanno così ritenuto sussistente un “danno da affidamento senza gara e modifica dell’oggetto contrattuale” atteso che:

  1. sebbene l’amministrazione abbia beneficiato di macchinari nuovi, essi non erano necessari in quanto le macchine già in possesso erano perfettamente utilizzabili ove sottoposte ad un mero revamping/upgrading. Non vi sarebbero stati, dunque, nel caso di specie, i presupposti per ricorrere alla procedura negoziata senza bando;
  2. il lamentato danno erariale sarebbe conseguenza del fatto che, ove attivate le ordinarie procedure di gara, la stazione appaltante avrebbe ben potuto ottenere prezzi più vantaggiosi “soprattutto ove tale procedura fosse stata preceduta dalla doverosa indagine di mercato, anche considerando l’eccessività del costo autorizzato per i servizi di upgrading e revamping”.

Corte dei conti, Sez. giurisdizionale Lazio, 17.7.2023, n. 510


cct

CCT: è consentito l’intervento su questioni già pendenti prima della sua costituzione?

cctDisciplinato per la prima volta nel d.lgs. 50/2016 all’art. 207 e subito abrogato nel 2017 (reintrodotto a tempo con l’art. 1, comma 11-14 del c.d. decreto Sblocca Cantieri, d.l. 32/2019 conv. in L. 55/2019), il Collegio consultivo tecnico (CCT) ha subito una sostanziale ristrutturazione grazie al c.d. decreto Semplificazioni 2020.

L’art. 6, d.l. 76/2020 (convertito, con modificazioni, in l. 120/2020) lo ha dunque riportato alla luce, confermandone lo scopo: garantire la rapida risoluzione di controversie eventualmente insorte nell’esecuzione del contratto. Non sono mancate, come sempre, alcuni dubbi in merito alla sua applicazione, specie considerando che il d.l. 76/2020 ne ha imposto la costituzione anche ai contratti di lavori sopra-soglia in corso di esecuzione.

Il CCT può pronunciarsi su questioni relative a contratti pubblici già in esecuzione al momento di entrata in vigore del d.l. 76/2020? Il CCT può deliberare su una questione già pendente alla data di entrata in vigore del summenzionato decreto?

Tali quesiti sono giunti all’attenzione dell’ANAC che, con una recente delibera, ha precisato alcuni aspetti rilevanti in merito ai compiti e alle questioni che possono formare oggetto delle determinazioni del CCT.

Lo scopo ed il campo di applicazione dell’art. 6 del d.l. 76/2020 sono assolutamente rilevanti nel caso di specie.

Nel dare una risposta ai predetti quesiti, l’ANAC ha innanzitutto ricordato che l’art. 6 ha reso obbligatoria per i contratti di lavori sora-soglia la costituzione di un CCT “prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre dieci giorni da tale data”. La norma ha previsto altresì che “Per i contratti la cui esecuzione sia già iniziata alla data di entrata in vigore del presente decreto, il collegio consultivo tecnico è nominato entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla medesima data”.

Il decreto MIMS del 17 gennaio 2022 n. 12, recante le Linee guida per l’applicazione delle funzioni del CCT da parte delle stazioni appaltanti, ha stabilito poi, con riguardo a tutti i lavori già in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del menzionato d.l. 76/2020, che le parti saranno tenute a sottoscrivere un apposito “atto aggiuntivo”, con il quale saranno individuate le tipologie di quesiti sottoponibili all’esame del Collegio, fattispecie che potranno anche essere già pendenti alla data di entrata in vigore del d.l. 76/2020, purché non definite.

Ne deriva, pertanto, l’obbligatorietà della costituzione del Collegio consultivo tecnico per tutti gli appalti di lavori di importo superiore alle soglie comunitarie; detto istituto dovrà quindi essere costituito prima dell’avvio dell’esecuzione del contratto (e, comunque, entro e non oltre dieci giorni da tale data) ovvero, per i contratti già in corso di esecuzione al momento di entrata in vigore del d.l. 76/2020, entro i trenta giorni successivi.

Quanto alle controversie che possono essere portate all’attenzione del CCT, invece, secondo l’ANAC “in caso di costituzione obbligatoria (…) il dato normativo esclude la possibilità, da parte della stazione appaltante, di sottrarre specifiche questioni all’esame del Collegio”. Diversamente, infatti, spiega l’Autorità, “si realizzerebbe una limitazione al suo funzionamento in possibile contrasto con l’obbligatorietà della relativa costituzione e con la predeterminazione ex lege delle relative attribuzioni”.

La stazione appaltante ha la facoltà di circoscrivere l’ambito di azione del Collegio nei soli casi di costituzione facoltativa dello stesso, ossia quando la costituzione del CCT e l’individuazione dei suoi compiti siano rimesse alla volontà delle parti (in questi termini, cfr. delibere ANAC nn. 206/2021 e 532/2021).

Tali conclusioni sono confermate, secondo ANAC, anche nel nuovo codice dei contratti pubblici, il d.lgs. 36/2023: gli artt. 215-218 (recanti la disciplina del CCT) – che, per espressa previsione dell’art. 224, comma 1, d.lgs. 36/2023, si applicano anche ai Collegi già costituiti e operanti al 1° aprile 2023 (data di entrata in vigore del predetto testo normativo) –, letti in combinato disposto con quanto previsto dall’Allegato V.2 al d.lgs. 36/2023, forniscono la compiuta disciplina dell’istituto in questione, confermandone la finalità deflattiva e preventiva del contenzioso, senza possibilità di sottrarre specifiche questioni all’esame del Collegio.

Con riferimento, infine, alla possibilità di sottoporre al CCT le controversie aventi ad oggetto la revisione del PEF – oggetto dello specifico quesito posto all’Autorità – l’ANAC ha precisato che la normativa di settore succedutasi nel tempo ha sempre previsto la possibilità di modificare il PEF in corso di esecuzione. In particolare, per espressa previsione degli artt. 165, comma 6 e 182, comma 3, d.lgs. 50/2016, è possibile la revisione del PEF in tutti i casi in cui si verifichino fatti – non riconducibili all’operato del concessionario – che incidano sull’equilibrio del piano economico finanziario medesimo. In conclusione, pertanto, l’Autorità ha rilevato che il PEF può essere modificato nel rispetto di quanto stabilito dalle summenzionate disposizioni “le quali costituiscono eccezione alla regola per cui i termini economici di un rapporto concessorio non possono essere modificati nel corso del suo svolgimento in quanto, così facendo, verrebbe del tutto vanificato lo scopo del meccanismo concorrenziale di scelta del contraente”.

ANAC, parere funzione consultiva, 20 giugno 2023, n. 29


whistleblowing

Whistleblowing: nuova disciplina e scadenze agli sgoccioli

whistleblowingCon il d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24 (pubblicato in G.U. il 15 marzo 2023 ed entrato in vigore il 30 marzo del 2023), è stata introdotta la nuova disciplina del whistleblowing in Italia.

Le nuove regole produrranno effetti a partire dal 15 luglio 2023, mentre per i soggetti privati per i quali opera l’obbligo di istituire un canale interno di segnalazione, detto obbligo decorre dal 17 dicembre 2023. Fino al 14 luglio 2023, dunque, le segnalazioni e le denunce all’autorità giudiziaria o contabile continueranno ad essere disciplinate dal previgente assetto normativo e regolamentare previsto per le pubbliche amministrazioni e per i soggetti privati (d.lgs. 190/2012, c.d. “Legge Severino”).

La prima scadenza è, dunque, agli sgoccioli ed è bene prestare attenzione alle novità più importanti apportate dal decreto. In particolare, gli enti già in possesso di propri canali di segnalazione dovranno adeguarli alle nuove disposizioni, mentre gli enti privi di canali interni dovranno tempestivamente attivarsi allo scopo di implementare nella propria organizzazione dei canali di whistleblowing.

Partiamo chiarendo che il d.lgs. 24/2023, attuativo della direttiva europea 2019/1937, raccoglie in un unico testo normativo l’intera disciplina delle segnalazioni di illeciti sul luogo di lavoro e delle tutele riconosciute ai segnalanti, al fine di incentivare il c.d. whistleblowing. È bene ricordare che con il termine whistleblowing si intende la rilevazione spontanea da parte di un individuo, detto whistleblower, di un illecito o di un’irregolarità commessa all’interno dell’ente pubblico o privato, del quale lo stesso sia stato testimone nell’esercizio delle proprie funzioni.

Viste le novità introdotte dal decreto, l’ANAC ha predisposto delle Linee Guida al fine di fornire tutte le indicazioni necessarie sia a chi intende presentare una segnalazione direttamente all’ANAC, sia agli enti pubblici e privati nell’organizzazione dei canali e modelli organizzativi di segnalazione interni (allo stato attuale, le predette Linee guida sono in attesa di essere definitivamente approvate).

Vediamo nel dettaglio le novità più importanti apportate dal d.lgs. 24/2023.

Il decreto estende il perimetro degli enti a cui si applica la nuova disciplina. L’art. 2, comma 1, lett. p) del d.lgs. 24/2023, infatti, contempla finalmente tra gli enti del settore pubblico anche gli organismi di diritto pubblico e i concessionari di diritto pubblico; mentre, per quanto concerne gli enti privati, il decreto prevede l’applicazione della disciplina per tutte le imprese che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato (art. 2, comma 1, lett. q) del d.lgs. 24/2023). In precedenza, la disciplina trovava applicazione solo per le imprese che avessero adottato modelli di organizzazione e di compliance ai sensi del d.lgs. 231/2001.

Ad essere esteso è altresì il novero dei soggetti che possono presentare una segnalazione e, dunque, che godono della relativa protezione: oltre ai dipendenti degli organismi di diritto pubblico e dei dipendenti dei concessionari di pubblico servizio, l’art. 3 del d.lgs. 24/2023 individua anche i volontari e tirocinanti che prestano la loro attività per soggetti del terzo settore, azionisti e lavoratori autonomi che prestano la propria attività presso soggetti del settore pubblico, compresi soggetti del settore pubblico che forniscono beni o servizi o che realizzano opere in favore di terzi.

Altra novità degna di nota è l’introduzione della c.d. “segnalazione esterna”, dove il segnalante, oltre a rivolgere la propria segnalazione ai canali interni previsti dalla sua impresa o dal proprio ente pubblico, può rivolgersi direttamente all’ANAC o ai canali di divulgazione pubblica, così come individuati dalla stessa Autorità nelle proprie Linee guida (art. 7 del d.lgs. 24/2023).

La segnalazione presso il canale dell’ANAC è possibile quando, ad esempio, il segnalante teme il rischio di ritorsioni oppure ha già effettuato una segnalazione interna e non ha avuto seguito. Le modalità concrete di presentazione e gestione delle segnalazioni esterne sono contenute nelle Linee guida predisposte dalla stessa autorità.

Un ulteriore aspetto innovativo su cui porre attenzione riguarda la tutela dei soggetti che intervengono nel corso della segnalazione – a sostegno, dunque, del segnalante - e che potrebbero essere destinatari, a loro volta, di ritorsioni in ragione del ruolo intrapreso. In tale senso, il nuovo art. 2, comma 1, lett. m) del decreto, specifica chiaramente che la ritorsione è una condotta perseguibile anche quando solo “tentata o minacciata”. I soggetti che intervengo – per così dire, ad adiuvandum – nella segnalazione e ai quali viene estesa la tutela, sono individuati all’art. 3, comma 5 dalla lett. a) alla lett. d). Tra questi rientra, ad esempio: il facilitatore, persona fisica che assiste il segnalante nel processo di segnalazione; le persone che sono legate, nell’ambito di un medesimo contesto lavorativo del segnalante, da un legale affettivo; colleghi di lavoro del segnalante.

A tutela del segnalante e dei soggetti che partecipano alla segnalazione, il decreto enfatizza i 'meccanismi finalizzati a preservare la riservatezza, oltre che l’identità del segnalante, nonché qualsiasi altra informazione o elemento della segnalazione dal cui disvelamento si possa dedurre direttamente o indirettamente l’identità del segnalante, così come disciplinato dall’art. 12.

Anche su quali siano le violazioni oggetto di segnalazione o denuncia, vi è una sostanziale differenza rispetto al passato. La legge Severino, infatti, prevedeva tra le violazioni segnalabili solo gli illeciti civili e amministrativi, gli illeciti penali limitatamente ai delitti contro la pubblica amministrazione, previsti dal codice penale – come, ad esempio, il reato di corruzione – e le condotte illecite rilevanti ai sensi del d.lgs. 231/2001. Oggi, invece, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1 e 2 distinguiamo le violazioni del diritto nazionale, in cui adesso è possibile segnalare tutti gli illeciti penali, gli illeciti contabili e ogni tipo di irregolarità e tutta una serie di disposizioni in materia di diritto dell’UE, come atti od omissioni riguardanti il mercato interno, che compromettono la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali.

Infine, in merito alla responsabilità della persona segnalante, l’art. 16 comma 3 prevede che “quando  è  accertata, anche con sentenza di primo grado, la  responsabilità  penale  della persona segnalante per i  reati  di  diffamazione  o  di  calunnia  o comunque per i medesimi reati commessi con la denuncia  all’autorità giudiziaria o contabile ovvero la sua responsabilità civile, per  lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave, le tutele  di  cui  al presente  capo  non  sono  garantite  e  alla  persona  segnalante  o denunciante è irrogata una sanzione disciplinare”.

Il decreto conclude, infine, disciplinando un nuovo apparato sanzionatorio per il soggetto segnalato che ha tenuto dei comportamenti illeciti: fermo restando le varie forme di responsabilità, l’art. 21 consente all’ANAC di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino a 50.000 euro.

d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24

Linee guida ANAC whistleblowing


irregolarità

Irregolarità nella procedura di gara e revoca dei finanziamenti: i presupposti secondo la CGUE

irregolaritàCon una recente sentenza, la CGUE è intervenuta a chiarire il concetto di irregolarità nella gestione delle procedure di erogazione di finanziamenti europei – nel caso di specie una gara d’appalto – che legittima la domanda di restituzione di somme di denaro indebitamente percepite (nel caso, percepite dalla stazione appaltante e da questa corrisposte all’aggiudicatario dell’appalto).

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Lazio (ord. TAR Lazio, 4 agosto 2021, n. 9204), che ha disposto il rinvio pregiudiziale alla CGUE, il Ministero dei Trasporti aveva disposto il recupero delle somme erogate per l’esecuzione di opere finalizzate all’ammodernamento di un tratto stradale (opere che erano state, medio tempore, completate ed aperte al pubblico), dichiarando contestualmente che il residuo non ancora erogato non era dovuto. L’opera in questione era stata finanziata con fondi derivanti dal bilancio dell’Unione europea.

La richiesta di restituzione di tali somme, indirizzata alla stazione appaltante che aveva bandito la gara e che aveva a sua volta pagato l’appaltatore, era essenzialmente motivata dal fatto che, secondo il Ministero, l’aggiudicazione dell’appalto era viziata da un’irregolarità con carattere di frode.

Orbene, secondo gli artt. 4 e 5 del Regolamento n. 2988/1995 – che mira a combattere le frodi contro gli interessi finanziari dell'Unione europea –, in presenza di irregolarità nell’applicazione del diritto europeo è possibile disporre la revoca del vantaggio indebitamente ottenuto.

Nel caso di specie, il Ministero era stato informato di un’indagine penale che aveva messo in luce un sistema corruttivo che coinvolgeva alcuni funzionari componenti della commissione aggiudicatrice che aveva diretto le operazioni di gara. Due componenti della commissione giudicatrice, infatti, erano sotto indagine per corruzione, in quanto – secondo l’accusa – avevano ricevuto, da un dirigente dell’aggiudicataria, somme di denaro al fine di favorire quest’ultima nell’appalto in questione.

Il provvedimento di recupero delle somme è stato ritenuto illegittimo dalla stazione appaltante – e quindi impugnato dinanzi al giudice amministrativo – atteso che:

1) la stazione appaltante non aveva subito alcuna condanna per le presunte attività corruttive poste in essere;

2) non vi sarebbe un nesso tra l’irregolarità e le spese sostenute, in quanto i fondi europei impiegati per la realizzazione erano stati correttamente impiegati per l’esecuzione dell’opera (come detto, realizzata ed aperta al pubblico);

3) non vi erano elementi per sostenere che l’aggiudicatario avesse ottenuto l’appalto in maniera illecita.

Nel rimettere la questione alla Corte UE, il TAR Lazio ha innanzitutto osservato che l’unica potenziale irregolarità (di cui, peraltro, veniva raggiunta una prova soltanto parziale) era stata commessa dal legale rappresentante dell’aggiudicataria, il quale avrebbe tentato di influenzare la decisione sull’aggiudicazione della gara (c.d. corruzione attiva). Tuttavia, nei suoi confronti il processo penale risultava ancora pendente.  La dirigente della stazione appaltare, invece, si era limitata a chiedere a due membri della commissione di favorire l’aggiudicatario, ma durante il processo penale non era stato possibile chiarire se tale condotta avesse di fatto favorito o meno l’aggiudicatario.

Il Collegio si chiede, dunque, se la nozione di «irregolarità», legittimante il recupero delle somme utilizzate per un finanziamento, sia applicabile anche in assenza di una sentenza di condanna penale e in mancanza di prove circa l’illegalità dell’aggiudicazione e se, in caso di irregolarità, gli Stati membri siano tenuti ad applicare automaticamente un tasso di rettifica finanziaria del 100% oppure possano stabilire il tasso caso per caso.

La Corte di Giustizia ha innanzitutto rilevato che nel caso di specie non sussiste elemento che consenta di dare per certa l’esistenza di una frode, dal momento che i procedimenti penali sono tuttora pendenti e, dunque, non sussiste una condanna per «atti di corruzione». Le condotte, dunque, possono costituire, in tale fase, solo un «sospetto di frode», ai sensi dell’art. 27, lett. c), del Regolamento n. 1828/2006, ossia un’irregolarità che ha determinato l’inizio di un procedimento amministrativo o giudiziario a livello nazionale volto a determinare l’esistenza di un comportamento intenzionale.

Proseguono poi i giudici ricordando che con il termine irregolarità si intende, per espressa previsione dell’art. 2, punto 7, del Regolamento n. 1083/2006,  “qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un'azione o un'omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità europee mediante l'imputazione di spese indebite al bilancio generale”.

Sono, dunque, tre le condizioni che devono simultaneamente verificarsi perché sussista l’irregolarità, ossia:

1) la violazione del diritto comunitario;

2) l’azione (o l’omissione) dell’operatore economico;

3) il pregiudizio al bilancio UE che ne deriva.

Quanto alla prima condizione, secondo il Collegio, assumono rilevanza non soltanto le violazioni di disposizioni del diritto dell’Unione in quanto tali, ma anche disposizioni del diritto nazionale che sono applicabili alle operazioni sostenute dai fondi strutturali dell’Unione e che contribuiscono, in tal modo, a garantire l’applicazione del diritto dell’Unione relativo alla gestione dei progetti finanziati tramite tali fondi.

L’Unione Europea finanzia, mediante i suoi fondi, solo azioni attuate in piena conformità ai principi e alle norme di aggiudicazione degli appalti pubblici e, dunque, nel rispetto del principio di parità di trattamento degli offerenti e del principio di trasparenza.

Applicando tali principi nel caso di specie, secondo la Corte emerge che le accuse di atti di corruzione diretti a influire sul procedimento decisionale di aggiudicazione dell’appalto pubblico sono tali da non poter escludere che taluni membri della commissione di gara abbiano favorito uno degli offerenti e discriminato i suoi concorrenti, violando così i principi di trasparenza e di parità di trattamento degli offerenti.

Per quel che riguarda la seconda condizione, spiega il Collegio, perché l’azione o l’omissione costitutive della violazione del diritto comunitario possano considerarsi irregolarità, non è necessario dimostrare la sussistenza di qualsivoglia negligenza ovvero intenzionalità da parte dell’operatore economico in questione.

Con riferimento, infine, alla terza condizione, - ossia che la violazione del diritto dell’Unione o del diritto nazionale da parte di un operatore economico abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale dell’Unione -,  il fatto che la disposizione utilizzi l’espressione “possa avere come conseguenza”, significa, secondo la Corte, che la sussistenza dell’irregolarità si avrà ogniqualvolta non sia possibile escludere che la violazione abbia avuto effetti sul bilancio comunitario.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha statuito che il termine irregolarità deve interpretarsi nel senso che esso ricomprende tutti quei “comportamenti che possono essere qualificati come atti di corruzione praticati nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico avente ad oggetto la realizzazione di lavori cofinanziati da un fondo strutturale dell’Unione europea e per i quali è iniziato un procedimento amministrativo o giudiziario, anche quando non è provato che tali comportamenti abbiano avuto una reale incidenza sulla procedura di selezione dell’offerente e non è stato accertato alcun danno effettivo al bilancio dell’Unione”.

Secondo la Corte, dunque, possono essere qualificati come «atti di corruzione praticati nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico» tutti quei comportamenti che, per loro stessa natura, possono influire sull’aggiudicazione di tale appalto. Di conseguenza, non si può escludere che le condotte poste in essere nel caso di specie abbiano avuto un’incidenza sul bilancio del fondo di cui trattasi.

In merito, invece, al tasso di rettifica finanziaria da applicare, questo, secondo la Corte, deve essere valutato caso per caso, nel rispetto del principio di proporzionalità, prendendo segnatamente in considerazione la natura e la gravità delle irregolarità constatate, nonché la loro incidenza finanziaria.

CGUE, Sez. III, 8.6.2023, C-545/2021


concessioni

Concessioni demaniali: la cessione non autorizzata è causa di decadenza

concessioniCon sentenza 7 giugno 2023, n. 5616, la Sezione VII del Consiglio di Stato si è pronunciata con riguardo alla decadenza di una concessione demaniale (se non l'hai ancora scaricato, cliccando qui potrai ottenere gratuitamente il paper sulle concessioni) nel caso di cessione non autorizzata del rapporto concessorio ad altri soggetti.

I FATTI

Nel 2004 l’appellante aveva partecipato ad un bando per l’assegnazione in concessione di nuove aree demaniali per finalità turistiche, da destinare a stabilimento balneare.

Nonostante l’assegnazione provvisoria della concessione fosse avvenuta nel 2005, il Comune aveva rilasciato la concessione demaniale solo nel 2017, all’esito di una lunga istruttoria finalizzata a risolvere alcuni problemi progettuali.

Nel 2020, la titolare dello stabilimento aveva avanzato una richiesta di subentro nella titolarità della concessione demaniale a favore di una società e una domanda per il prosieguo dei lavori di completamento dello stabilimento balneare, direttamente a nome della nuova società.

Il Comune aveva tuttavia respinto sia la richiesta di subentro che la richiesta di ripresa dei lavori a nome della società subentrante. La ragione del diniego veniva giustificata dal Comune in quanto “la realizzazione delle opere e il godimento del bene oggetto di concessione non si erano ancora realizzati”.

La titolare dello stabilimento presentava allora una nuova comunicazione di prosieguo dei lavori che veniva tuttavia respinta dal Comune in quanto la cartellonistica di cantiere attribuiva ancora la comunicazione di inizio lavori a nome della società a cui era stato negato il subentro.

Dopo aver rettificato la cartellonistica i lavori riprendevano ma contestualmente il Comune notificava l’avvio del procedimento di decadenza della concessione demaniale. A circa 10 giorni dall’apertura dello stabilimento, avvenuta per la stagione balneare 2020, il Comune dichiarava decaduta la concessione, vietando il prosieguo dell’attività.

La decadenza della concessione demaniale veniva motivata dal Comune in ragione innanzitutto della violazione dell’art. 47, comma 1, lett. e) cod. nav., con riferimento alla ipotesi di “abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione”.

La decadenza della concessione era stata altresì motivata dall’amministrazione, seppure marginalmente ed in via subordinata, al “mancato utilizzo prolungato nel tempo” risalendo la concessione al giugno 2017 e essendo stato lo stabilimento aperto solo ad agosto 2020.

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

La titolare dello stabilimento ha impugnato il provvedimento innanzi al TAR Lazio che con sentenza n. 6018/2021 ha confermato l’operato del Comune.

Secondo il TAR, infatti, la ricostruzione dei fatti posta alla base della dichiarazione di decadenza dalla concessione, relativa ad un’illegittima sostituzione di altri nel rapporto concessorio di cui è titolare la ricorrente, è apparsa corretta. In particolare:

  • l’effettuazione dei lavori di sistemazione dello stabilimento non era stata commissionata dalla ricorrente, titolare della concessione demaniale, ma da altre società amministrate da altro soggetto;
  • il deposito cauzionale non era stato effettuato dalla titolare dello stabilimento balneare ma da un’altra società amministrata da altro soggetto;
  • il cartello di cantiere indicava come committente dei lavori un’altra società;
  • la titolare dello stabilimento risultava avere la funzione ora di “barista precaria” ora di preposta alle attività di somministrazione di cibi e bevande, con evidente incongruenza rispetto alla posizione di amministratrice di un gruppo di società.

IL GIUDIZIO D'APPELLO

Avverso la sentenza del TAR la titolare ha proposto appello al Consiglio di Stato.

Secondo l’appellante, il provvedimento di decadenza sarebbe illegittimo in quanto nel caso di specie non si sarebbe trattato di una sostituzione nel godimento della concessione ma di un avvalimento da parte del concessionario dell’opera di terzi per realizzare le opere necessarie e autorizzate per la gestione del bene demaniale.

Un concessionario, infatti, ben può avvalersi anche di altri soggetti per la gestione concreta dell’attività nel suo complesso, utilizzando un socio in grado di comprovare la specifica esperienza nel settore, senza che ciò determini un subingresso non autorizzato nella concessione; proprio nelle attività di somministrazione di alimenti e bevande, peraltro, è possibile distinguere la figura del preposto da quella del titolare o rappresentante legale.

Quanto alla decadenza della concessione per il “mancato utilizzo prolungato nel tempo”, l’appellante ha lamentato che il procedimento amministrativo per arrivare alla concessione del tratto di arenile in questione si era protratto per ben 13 anni (dal 2005 al 2017) e che la concessione rilasciata alla ricorrente aveva la durata complessiva di 6 anni e non prevedeva alcun termine di avvio, mentre il Comune non aveva mai sollecitato la realizzazione dello stabilimento.

Il Consiglio di Stato ha tuttavia respinto l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

In merito al protratto mancato utilizzo della concessione, secondo i giudici, questo era assolutamente riscontrabile nel caso di specie e legittimante la decadenza. Più precisamente, a fronte di una comunicazione di inizio lavori del luglio 2017, la titolare aveva comunicato la fine parziale dei lavori circa un mese dopo, salvo poi comunicarne la ripresa soltanto nel maggio 2020, a tre anni dal rilascio della concessione: “Si tratta di tre anni in cui il bene demaniale non è mai stato utilizzato né usufruito dalla collettività”.

In merito i giudici hanno altresì escluso la lesione dei principi di correttezza, buona fede e tutela dell’affidamento che l’amministrazione avrebbe ingenerato con i suoi provvedimenti favorevoli. La concessionaria, infatti, era pienamente consapevole di non aver dato attuazione per lungo tempo agli obblighi previsti nel titolo conseguito.

Quanto alla motivazione riferita all’indebito subentro nel godimento della concessione, questa è stata ritenuta del tutto legittima in ragione dell’incongruenza tra i nominativi dei soggetti che avanzavano richieste all’amministrazione.

La comunicazione di inizio lavori del maggio 2020, infatti, veniva effettuata non dalla concessionaria, ma dalla rappresentante legale di una società del tutto estranea al rapporto concessorio ed immesso illegittimamente nella gestione. Dai verbali della Guardia Costiera risultavano poi una serie di circostanze tali da far ritenere non solo il subentro abusivo della società nel rapporto concessorio, ma anche un quadro ben più complesso di presumibili intrecci occulti o simulati con più società.

Alla luce delle risultanze documentali, dunque, a parere dei Giudici, l’adozione di un provvedimento di decadenza risultava da parte del Comune assolutamente legittimo e doveroso: “Al ricorrere delle ipotesi decadenziali disciplinate dall'art. 47 del codice della navigazione l'Amministrazione concedente esercita una discrezionalità limitata al riscontro dei relativi presupposti fattuali. Ciò comporta sul piano sostanziale che, una volta appunto accertata la sussistenza di detti presupposti, il provvedimento di decadenza ha natura sostanzialmente vincolata, con conseguente esclusione di ogni possibile bilanciamento tra l'interesse pubblico e le esigenze del privato concessionario.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3044, del 17 giugno 2014).

Cons. St., Sez. VII, 7.6.2023, n. 5616

 


Nuovo codice dei contratti pubblici: le novità nel paper di Legal Team

Nuovo codice dei contratti pubblici.

Focus su: Digitalizzazione – Accesso agli atti – Incentivi per le funzioni tecniche – Principio di rotazione – Focus speciale su normativa applicabile ai contratti PNRR

Vista la confusione che regna sovrana, abbiamo predisposto un paper, a cura di Rosamaria Berloco e Pietro Falcicchio con la collaborazione di Marco Reale, Sara Turzo,  sulle novità del nuovo codice dei contratti pubblici in modo da rendere accessibile il quadro normativo in cui ci troviamo a operare.

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soccorso

Soccorso istruttorio negli appalti PNRR: l’errata indicazione dei servizi di punta non è soccorribile

soccorsoCon una recente sentenza, il TAR Lazio ha ribadito l’inapplicabilità del soccorso istruttorio nel caso in cui l’operatore economico commetta un errore in merito all’indicazione dei servizi di punta. La sentenza è degna di nota anche perché valorizza il principio di autoresponsabilità con particolare riferimento agli appalti PNRR.

Al fine di comprendere la posizione assunta dal TAR, è necessario osservare i peculiari connotati della gara in contestazione.

Si trattava, infatti, di un accordo quadro per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana e di rivitalizzazione economica e, dunque, per la realizzazione di infrastrutture legate ai Piani Urbanistici Integrati, in attuazione del PNRR.

La gara era altresì suddivisa in sei lotti geografici in base alla dislocazione territoriale dei singoli interventi da realizzare. All’interno di ciascun lotto erano istituiti, a sua volta, cinque distinti sub-lotti prestazionali - raggruppati diversamente in base al tipo di prestazione richiesta, localizzazione, vincoli temporali e valore – all’interno dei quali sono individuati i c.d. “cluster”.

Il disciplinare di gara disponeva che per determinare i possibili aggiudicatari di ogni singolo lotto “si procederà allo scorrimento della graduatoria assegnando i cluster da quello che ha il valore più alto a quello che ha il valore più basso”, valore determinabile tenendo conto di vari fattori, tra cui i “servizi di punta”, che devono complessivamente raggiungere almeno lo 0,40% dell’importo complessivo del cluster.

La ricorrente risultava assegnataria di un cluster dal valore più basso rispetto a quello per cui sarebbe dovuta risultare aggiudicataria, in ragione dei requisiti posseduti. La mancata assegnazione del cluster di importo più elevato era stata causata da un errore commesso dalla società, che aveva dichiarato di possedere “servizi di punta” per un valore complessivo minore a quello reale, effettuando un calcolo numerico sbagliato, basato sul valore prestazione del servizio reso e non su quello di ciascuna classe a cui il servizio si riferisce.

L’errore commesso dalla società aveva dunque precluso alla stessa l’assegnazione del cluster di maggior valore, sebbene avesse tutti i requisiti per risultare utilmente aggiudicataria.

All’atto dell’aggiudicazione del cluster di minor valore, la ricorrente inoltrava alla stazione appaltante un’istanza di annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione e chiedeva una rimodulazione delle operazioni di assegnazione del cluster di maggior importo, in quanto le dichiarazioni dei requisiti dalla stessa effettuati era affetta da mero errore materiale.

La stazione appaltante respingeva tale istanza, osservando che l’errore dell’istante non era soggetta al soccorso istruttorio in quanto non oggettivamente riconoscibile in corso di gara. Inoltre, la modifica in autotutela della ripartizione dei cluster avrebbe determinato una gravissima violazione del principio della par condicio.

L’istante decide quindi di presentare ricorso, lamentando di essere stata penalizzata in sede di ripartizione dei cluster e che l’attivazione, da parte della stazione appaltante, del soccorso istruttorio avrebbe sanato il “mero errore materiale” commesso dalla stessa in sede di predisposizione della documentazione amministrativa.

Secondo la ricorrente, essere era stata indotta in errore dalla scarsa chiarezza degli atti di gara ed in specie da un disciplinare definito “impervio”, che non avrebbe specificato “in cosa consistesse il valore del servizio, vale a dire riferito alla prestazione fatturata del professionista o al valore dell’opera cui il servizio si riferisce”.

Il TAR Lazio ha ritenuto infondata la censura.

Secondo i giudici, il soccorso istruttorio viene autorizzato dalla stazione appaltante in caso di errori formali o aspetti meritevoli di approfondimento. Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, “sono rettificabili eventuali errori di scritturazione e di calcolo, ma sempre a condizione che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza, e comunque senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima o a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerta” (Cons. St., Sez. V, 9.12.2020, n. 7752).

In altre parole, spiegano i giudici, “affinché possa pretendersi dalla parte pubblica l’attivazione del soccorso istruttorio è necessario, anche alla luce dei principi sopra richiamati, che gli errori formali commessi dagli operatori economici siano oggettivamente “riconoscibili””.

Nel caso di specie, invece, dalla lettura del DGUE e della documentazione della gara non era rinvenibile nessun elemento o indizio tale da far presumere l’esistenza di un errore in merito all’indicazione “dei servizi di punta” da parte del ricorrente.

Secondo il Collegio, infatti, sarebbe bastata una lettura del bando meticolosa da parte dell’operatore per rendersi conto che l’importo minimo dei “servizi di punta” per l’assegnazione dei cluster era da riferirsi al fatturato dei “servizi di punta” di ogni concorrente, e non del fatturato maturato per quelle prestazioni.

I principi di par condicio tra i concorrenti, buon andamento e speditezza della gara escludono, dunque, a parere del Collegio, che sussista in capo alle stazioni appaltanti l’onere di avviare una “caccia all’errore” su tutte le dichiarazioni fornite dai concorrenti.

L’errore del ricorrente, quindi, è dettato da una superficiale lettura della lex specialis e ad un mancato approfondimento del quadro normativo di riferimento.

Degna di nota è l’ulteriore motivazione offerta dai giudici nel valorizzare l’autoresponsabilità e diligenza dei concorrenti, propria della gara di specie.

Secondo i giudici, infatti, ”la scelta dell’Amministrazione di non attivare il soccorso istruttorio si rivela coerente con i principi di autoresponsabilità e par condicio e con il principio di speditezza delle gare, il quale assume una particolare pregnanza nelle gare finalizzate all’attuazione di obiettivi finanziati da PNRR.

TAR Lazio, Roma, Sez. IV, 30.5.2023, n. 9149


NCC e Taxi: dalla Corte di Giustizia uno stop chiaro al contingentamento delle licenze.

In tema di servizio di trasporto pubblico non di linea, una delle questioni più discusse e delicate è quella del contingentamento delle licenze. Il tema, come è noto, non è oggetto di riflessione esclusivamente "giuridica" ma anche economica (note sono le proposte di liberalizzazione delle licenze Taxi, come ad esempio quelle illustrate dall'Istituto Bruno Leoni).

La più volte abbozzata, discussa e preannunciata riforma della "Legge quadro" n. 21/92 è ancora arenata e si trascina di legislatura in legislatura.

Un importante input perviene però, sul tema del contingentamento delle licenze, dalla Corte di Giustizia, con la sentenza della I Sezione 8.6.2023 in C.50/21.

I. Il caso sottoposto alla CGUE: il contingentamento licenze NCC a Barcellona.

In virtù dell'articolata disciplina nazionale e locale (catalana),  è determinata "la limitazione del numero di licenze di servizi di NCC a un trentesimo delle licenze di servizi di taxi" nel territorio dell'agglomerato urbano di Barcellona.

Il Tribunal Superior de justicia de Cataluña, a fronte di tale restrizione nell'accesso al mercato NCC, ha quindi sottoposto alla CGUE il quesito "Se [l’articolo] 49 e [l’articolo] 107, paragrafo 1, TFUE ostino a disposizioni nazionali – legislative e regolamentari – che, senza alcuna ragione plausibile, limitano le autorizzazioni NCC a una ogni trenta licenze di taxi o meno".

Il tema, quindi, ruota sulle restrizioni alla liberta di stabilimento ai sensi dell'art. 49 TFUE che, ricorda la stessa CGUE nell'inquadramento giuridico della vicenda, "possono essere ammesse solo a condizione, in primo luogo, di essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e, in secondo luogo, di rispettare il principio di proporzionalità, il che implica che esse siano idonee a garantire, in modo coerente e sistematico, la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non eccedano quanto necessario per conseguirlo (sentenza del 7 settembre 2022, Cilevičs e a., C‑391/20, EU:C:2022:638, punto 65 nonché giurisprudenza ivi citata)".

Le ragioni imperative di interesse generale illustrate dalle Autorità spagnole dinanzi alla CGUE consistono nell'obiettivo di garantire "la qualità, la sicurezza e l’accessibilità dei servizi di taxi nell’agglomerato urbano di Barcellona, considerati come un «servizio di interesse generale», in particolare mantenendo un «equilibrio adeguato» tra il numero dei prestatori di servizi di taxi e quello dei prestatori di servizi di NCC, poi, una corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico all’interno di tale agglomerato urbano e, infine, la protezione dell’ambiente in detto agglomerato".

In particolare, il contingentamento operante a Barcellona mirerebbe a proteggere la sostenibilità economica del servizio Taxi (soggetto ad obblighi di servizio universale e tariffe regolate) a fronte della concorrenza derivante dai prestatori di servizio NCC (p.ti 65-67 sentenza)

II. Le valutazioni della CGUE: la sostenibilità economica del servizio Taxi è inidonea a giustificare la misura protezionistica in danno degli NCC.

La Corte evidenzia, quale premessa generale e fondamentale, che "obiettivi di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare una limitazione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (sentenze dell’11 marzo 2010, Attanasio Group, C‑384/08, EU:C:2010:133, punto 55, e del 24 marzo 2011, Commissione/Spagna, C‑400/08, EU:C:2011:172, punto 74 nonché giurisprudenza ivi citata). La Corte ha segnatamente dichiarato, in tal senso, che l’obiettivo di garantire la redditività di una linea d’autobus concorrente, quale motivo di natura puramente economica, non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (sentenza del 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, C‑338/09, EU:C:2010:814, punto 51)".

Data tale premessa - pienamente in linea con precedenti arresti della medesima CGUE - si afferma conseguentemente che "l'obiettivo di garantire la praticabilità economica dei servizi di taxi deve essere considerato, anch’esso, un motivo di natura puramente economica che non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (...)".

Un ulteriore ed importante passaggio della sentenza attiene alla qualificazione del servizio di Taxi quale "servizio di interesse economico generale" (c.d. SIEG).

Le Autorità spagnole avevano, infatti, cercato di giustificare la misura protezionistica in ragione del fatto che ai prestatori del servizio Taxi è affidato un SIEG.

Al riguardo la CGUE contrappone due ordini di rilievi.

Da un primo punto di vista la Corte mette in discussione la sussistenza di una così pregnante normativa pubblicistica (in punto di obblighi di servizio pubblico), atteso che " un servizio può rivestire un interesse economico generale quando detto interesse presenti caratteri specifici rispetto a quello di altre attività della vita economica" e che "dunque che le imprese beneficiarie siano state effettivamente incaricate dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico e che tali obblighi siano chiaramente definiti nel diritto nazionale, il che presuppone l’esistenza di uno o più atti di esercizio del potere pubblico che definiscano in maniera sufficientemente precisa almeno la natura, la durata e la portata degli obblighi di servizio pubblico gravanti sulle imprese incaricate dell’adempimento di tali obblighi". 

Un secondo ordine di considerazioni attiene al rilievo che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 106 TFUE, le imprese incaricate di un SIEG sono comunque soggette alle regole di concorrenza potendosi derogare alle stesse solo laddove sia dimostrato che queste si pongano come un ostacolo all'adempimento del servizio di interesse economico generale.

La questione si sposta, quindi, sulla valutazione circa la proporzionalità delle misure adottate a tutela dei prestatori del servizio Taxi in danno dei prestatori del servizio NCC.

La Corte perviene alla conclusione che il contingentamento del servizio NCC non è idoneo a perseguire i dichiarati obiettivi di "gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico nonché di protezione dell’ambiente" e ciò in ragione dell'avvenuta dimostrazione del fatto che  (i) i servizi di NCC riducono il ricorso all’automobile privata; (ii) non determinano interferenze circa l'occupazione della viabilità pubblica (essendo precluso agli NCC lo stazionamento); (iii) sono caratterizzati da digitalizzazione e flessibilità; (iv) in base alla normativa statale è incentivata una flotta che adopera energie alternative.

Inoltre, sottolinea la conclusivamente la CGUE, in ogni caso il perseguimento di finalità di interesse generale (che non possono comunque coincidere con scopi meramente economici)  legate a talune forme di protezione dei prestatori del servizio Taxi ben potrebbe essere perseguita con misure meno invasive rispetto al contingentamento del numero delle licenze, previsione, quest'ultima, in ogni caso violativa del principio di proporzionalità.

III. I possibili impatti sul diritto interno.

La decisione è di sicuro interesse poiché, enunciando il principio per il quale la misura del contingentamento - oggi vigente nel nostro ordinamento per il rilascio delle licenze Taxi - è da considerarsi in linea di principio anticompetitiva e comunque non giustificabile se non in relazione ad altri interessi pubblici imperativi (tra i quali è da escludere la mera protezione dei soggetti già autorizzati ed operanti), rafforza i dubbi di legittimità del sistema a numero chiuso operante in Italia.

Ma il principio enucleato dalla sentenza CGUE nel ribadire che ogni misura restrittiva della concorrenza (i) deve essere connessa a un motivo imperativo di interesse generale e (ii) deve essere rigorosamente vagliata alla luce del principio di ragionevolezza ed adeguatezza rispetto alle finalità pubbliche perseguite, porta all'attenzione del Legislatore (e, semmai, dei Giudici nazionali che dovessero essere aditi dai singoli operatori economici lesi dalle restrizioni normative e regolamentari), pare estensibile anche a numerose altre prescrizioni che si sostanziano di fatto in contingentamenti di vario genere discendenti dall'assetto, per molti aspetti ormai obsoleto, della Legge 21/92 (si pensi, ad esempio, al necessario riferimento della licenza ad un singolo veicolo).


concessione

Concessioni demaniali: la decadenza di una concessione non è un automatismo

concessioneCon sentenza 2 maggio 2023, n. 4413, la Sezione VII del Consiglio di Stato si è pronunciata con riguardo al potere esercitato dall'amministrazione di disporre la decadenza della concessione demaniale.

In particolare, i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sull’appello promosso dal beneficiario di una concessione demaniale marittima avverso la sentenza del TAR Calabria che aveva affermato la legittimità della determinazione del comune con cui era stata dichiarata la decadenza dal provvedimento favorevole.

Un comune calabrese, difatti, in applicazione dell’art. 47 cod. nav. - che sancisce il potere per le amministrazioni di dichiarare la decadenza di un concessionario al ricorrere di determinati presupposti - aveva ritenuto che fossero venuti meno i requisiti soggettivi necessari per assicurare e garantire l’uso corretto ed efficiente del bene pubblico concesso, dal momento che il concessionario era risultato inadempiente agli obblighi dedotti nella concessione.

In particolare, il concessionario: aveva mantenuto oltre il termine assegnato alcuni manufatti amovibili; aveva illegittimamente realizzato, senza titolo, talune opere sul suolo dello Stato; aveva infine disatteso le ordinanze di rimessione in pristino.

Ebbene, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la legittimità del provvedimento di decadenza della concessione demaniale marittima di cui l’appellante era concessionario.

L’aspetto più rilevante della sentenza è tuttavia il ragionamento ricognitivo che i giudici compiono nel tracciare il perimetro della discrezionalità che in tali procedimenti l’amministrazione esercita.

Nel dichiarare la decadenza da una concessione ex art. 47 comma 1 cod. nav., difatti, le amministrazioni esercitano un potere discrezionale, che consta di due fasi: in un primo momento, a monte, l’amministrazione deve verificare la sussistenza dei presupposti normativamente previsti per l’esercizio del suo potere, applicando una regola tecnica suscettibile di apprezzamenti opinabili (discrezionalità tecnica); in un secondo tempo, a valle, l’amministrazione è chiamata ad operare una scelta di opportunità tra le diverse modalità di esercizio del potere (discrezionalità pura).

In altre parole, anche quando viene ravvisata la sussistenza di uno dei presupposti di cui all’art. 47 cod. nav., ossia un inadempimento del concessionario, l’Amministrazione competente non è obbligata a dichiarare la decadenza dalla concessione, ma è tenuta a ponderare tutti gli interessi coinvolti e a verificare la sussistenza dei presupposti di un’eventuale proficua prosecuzione del rapporto concessorio, avuto riguardo alla gravità caratterizzante l’inadempimento del concessionario.

In tal senso, dunque, militerebbe - secondo i giudici - la stessa formulazione dell’art. 47 comma 1 cod. nav., nella parte in cui afferma che l’amministrazione “può” e non “deve” dichiarare la decadenza. La ponderazione tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti effettuata dall’amministrazione sfugge tuttavia al sindacato giurisdizionale, “se non per eccesso di potere dipendente da manifesta contraddittorietà, illogicità, irragionevolezza o sproporzionalità della decisione”.

Il comune, infatti, deve valutare volta per volta, nel caso concreto, la gravità dell’inadempimento del concessionario, alla stregua delle regole previste dagli artt. 1453 e 1455 c.c. in materia di contratti a prestazioni corrispettive, secondo cui l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza: non ogni inadempimento, perciò, giustifica l’automatica decadenza dalla concessione.

Osservando il rapporto di durata che si determina nell’ambito delle concessioni demaniali, in effetti, queste presentano significative analogie con i contratti di locazione e da questi ultimi si differenziano per la natura demaniale del bene concesso.

Spiegano i giudici che “La concessione di beni demaniali, infatti, è un atto complesso bilaterale preordinato a garantire, a talune condizioni, il godimento del bene ad un unico soggetto, con contestuale estromissione di tutti gli altri, nella prospettiva di assicurare il miglior soddisfacimento di predeterminate finalità pubblicistiche”.

Data la particolare natura del bene concesso, pertanto, per dichiarare la decadenza dalla concessione occorre considerare che l’interesse perseguito dall’amministrazione concedente non si esaurisce nella sola riscossione dei canoni demaniali pattuiti, “comprendendo anche e soprattutto il soddisfacimento delle finalità pubblicistiche perseguite con la concessione”. Per questo, ad assumere rilievo sono le inadempienze del concessionario tali da compromettere significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero da rendere inattuabili gli scopi sottesi al rilascio della concessione.

Ricordano i giudici, infatti, che secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato “l’inadempimento che, ai sensi dell'art. 47 cod. nav., può dar luogo alla decadenza del titolo «deve essere di una certa consistenza» e gli elementi probatori della sussistenza di un'effettiva inadempienza rispetto agli obblighi nascenti dal titolo, «devono essere inequivoci, precisi e concordanti». L'Amministrazione concedente, «in osservanza del principio di gradualità e di proporzionalità nell'applicazione del provvedimento lato sensu sanzionatorio, può diffidare il concessionario dal perseverare in comportamenti violativi degli obblighi, facendo luogo al ritiro del titolo concessorio in occasione dell'accertata reiterazione del comportamento inadempiente» (così C.d.S., Sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232)”.

Ai fini della definitiva pronuncia di decadenza della concessione, dunque, per ravvisare l’inadempienza degli obblighi derivanti dalla concessione o imposti da norme di legge o di regolamento, “assumono rilievo le inadempienze del concessionario che compromettano significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero rendano inattuabili gli scopi per i quali la concessione stessa è stata rilasciata (v. Consiglio di Stato, sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232; 23 maggio 2011, n. 3046)”.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, alcune delle opere realizzate senza autorizzazione, e non prontamente rimosse, avevano determinato un parziale mutamento della destinazione prevista del bene demaniale concesso in uso da semplice stabilimento balneare a ulteriore area ristoro, essendo stata realizzata una pizzeria ed un’area ristorante non contemplati nell’originario provvedimento concessorio. Allo stesso tempo alcuna autorizzazione ad un siffatto mutamento, o comunque ampliamento di scopo, poteva essere rinvenuta nel rilascio dei titoli edilizi per la realizzazione delle opere stesse. Non poteva neanche dirsi sufficiente, al fine di scongiurare la decadenza, una postuma rimozione delle opere amovibili, tanto più che da questo punto di vista la condotta del concessionario era stata più volte inadempiente, avendo disatteso più ordinanze di sgombero.

Infine, il Consiglio di Stato ha precisato che, nel caso di specie, l’effetto della decadenza non poteva essere evitato neppure dalla presentazione di un’istanza per l’estensione della concessione, da stagionale ad annuale, presentata dal concessionario, né dalla presentazione di una domanda di sanatoria delle opere abusive. In particolare, con riguardo all’istanza per l’estensione della concessione, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come non sia possibile il consolidarsi di un simile provvedimento secondo il meccanismo del silenzio-assenso, dal momento che la variazione di un provvedimento concessorio, al pari del suo rilascio, richiede ancora una volta una valutazione discrezionale della sua compatibilità con le esigenze del pubblico uso (cfr. art. 36 e 37 cod. nav.).

Cons. St., Sez. VII, 2.5.2023, n. 4413


soccorso

Appalti pubblici. Soccorso procedimentale: la giurisprudenza trova spazio nel nuovo codice

soccorsoNel nuovo codice dei contratti pubblici il soccorso istruttorio trova finalmente compiuta disciplina in un articolo ad hoc: il d.lgs. 50/2016, infatti, lo disciplinava nel solo comma 9 dell’art. 83, mentre ad oggi la disciplina dell’istituto è contenuta nell’art. 101 (rubricato, per l’appunto, “Soccorso istruttorio”).

Nell'articolo dedicato al soccorso istruttorio viene disciplinato anche il c.d. soccorso procedimentale. Tra le novità contenute nella disposizione, infatti, il comma 3 prevede che:

La stazione appaltante può sempre richiedere chiarimenti sui contenuti dell’offerta tecnica e dell’offerta economica e su ogni loro allegato. L’operatore economico è tenuto a fornire risposta nel termine fissato dalla stazione appaltante, che non può essere inferiore a cinque giorni e superiore a dieci giorni. I chiarimenti resi dall’operatore economico non possono modificare il contenuto dell’offerta tecnica e dell’offerta economica”.

Il soccorso procedimentale può essere attivato per consentire all’operatore partecipante ad una procedura di appalto di fornire chiarimenti nel caso in cui parti dell’offerta tecnica e/o economica presentata non siano di agevole comprensione.

L’istituto nasce in verità tra la prassi e la giurisprudenza: il precedente codice del 2016 non conteneva una vera e propria disciplina, che restava contenuta nelle sentenze dei giudici amministrativi che sul punto venivano chiamati ad esprimersi (ne ho parlato  diffusamente anche nel mio libro dedicato al soccorso istruttorio).

Anche la giurisprudenza amministrativa più recente è pressoché unanime nel ritenere che la stazione appaltante può attivare il soccorso procedimentale “per risolvere dubbi riguardanti gli elementi essenziali dell’offerta tecnica ed economica, tramite l’acquisizione di chiarimenti da parte del concorrente che non assumano carattere integrativo dell’offerta, ma siano finalizzati unicamente a consentirne l’esatta interpretazione e a ricercare l’effettiva volontà del concorrente, superandone le eventuali ambiguità” (TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 22.5.2023, n. 318).

In altri termini, nel caso in cui l’offerta tecnica o economica siano caratterizzate da profili di non intellegibilità (ossia ove il contenuto dell’offerta de qua sia caratterizzato da carenza o incertezza assoluta nei suoi elementi essenziali), si potrà attivare il soccorso procedimentale al fine di correggere “gli errori materiali inficianti l’offerta, a condizione che l’effettiva volontà negoziale dell’impresa partecipante alla gara sia individuabile in modo certo nell’offerta presentata, senza margini di opacità o ambiguità, così che si possa giungere a esiti univoci circa la portata dell’impegno ivi assunto” (così Cons. St., Sez. V, 9.1.2023, n. 290).

Il soccorso procedimentale (a differenza del soccorso istruttorio) potrà dunque essere impiegato per “richiedere al concorrente di fornire chiarimenti volti a consentire l’interpretazione della sua offerta e a ricercare l’effettiva volontà dell’offerente, superando le eventuali ambiguità dell’offerta, ciò fermo il divieto di integrazione dell’offerta, senza attingere a fonti di conoscenza estranee alla stessa e a condizione di giungere a esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essa assunta” (Cons. St., n. 290/2023 cit.).

Sono ammissibili, dunque, quei chiarimenti finalizzati a ricercare “la volontà negoziale dalla stessa offerta e non ab externo o tramite la produzione di nuovi documenti” (Cons. St., Sez. V, 26.5.2023, n. 5205).

L’ammissibilità del soccorso procedimentale nei termini qui descritti è, peraltro, pienamente conforme all’indirizzo espresso dalla Corte di giustizia UE, la quale (sia pur in tema di soccorso istruttorio in caso di riscontrate carenze dell’offerta tecnica) ha evidenziato come “una richiesta di chiarimenti non può ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, se non nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarimento dell’offerta o rettifica di un errore manifesto dell’offerta e sempre che non comportino modifiche tali da costituire, in realtà, una nuova offerta” (CGUE, Sez. VIII, 10.5.2017, C-131/16).

L’attuale formulazione del soccorso procedimentale contenuta nell’art. 101, comma 3 del Codice è dunque il frutto del lavoro svolto dalla giurisprudenza, che nel corso del tempo ha contribuito a tracciare il perimetro di applicazione dell’istituto.

Fermo restando il principio di immodificabilità dell’offerta, dunque, la stazione appaltante potrà sempre chiedere dei chiarimenti sui contenuti dell’offerta presentata dai concorrenti.

Cons. St., Sez. V, 26.5.2023, n. 5205

TAR Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 22.5.2023, n. 318

Cons. St., Sez. V, 9.1.2023, n. 290