Qualificazione e non frazionabilità dell'intervento edilizio e computo degli oneri concessori

Una recente decisione del TAR Lombardia - Brescia porta all'attenzione alcuni importanti principi in punto di qualificazione (e non frazionabilità) dell'intervento edilizio ai fini del computo degli oneri concessori dovuti.

1. La fattispecie .

Un privato contesta, dinanzi al TAR, scelta del Comune di quantificare gli oneri concessori (ex artt. 16 e 17 DPR 380/01) avendo riguardo all'intervento nel suo complesso, anziché, come denunciato nel ricorso, "scorporando" quanto realizzabile a titolo gratuito da quanto, invece, soggetto a titolo oneroso.

Nello specifico caso, le opere assentite concernevano da un lato interventi qualificabili, se isolatamente considerati, come manutenzione straordinaria e, dall'altro, opere qualificabili come di ristrutturazione edilizia (tali, infatti, da determinare anche un aumento della superficie dell'edificio).

Il Comune, rigettando la tesi della "frazionabilità" degli interventi (da un lato, manutenzione straordinaria, come tale non onerosa e, dall'altro, ristrutturazione edilizia, onerosa), ha computato gli oneri considerando tutte le opere poste in essere nel loro insieme.

2.  La decisione del TAR.

Il Giudice amministrativo, rilevato che "in sostanza, l’intervento è consistito in “un insieme sistematico di opere” che ha portato “ad un organismo edilizio diverso dal precedente”, determinando un risultato assai lontano dalla funzione meramente conservativa propria della manutenzione straordinaria, e rientrante pienamente, per converso, nella definizione di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3 del T.U.E.", ha rigettato il ricorso.

Infatti, a fronte della pretesa di "frazionare l'intervento" distinguendo la parte di opere qualificabile come manutenzione straordinaria da quella ricadente in ristrutturazione edilizia, il TAR afferma  che tale impostazione  "è contraria a consolidati principi giurisprudenziali, secondo cui “Al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale delle opere medesime, atteso che la considerazione “atomistica” dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l'impatto effettivo; pertanto, i molteplici interventi eseguiti non vanno considerati in maniera “frazionata” e, al contrario, debbono essere vagliati in un quadro di insieme e non segmentato, solo così potendosi comprendere il nesso funzionale che li lega e, in definitiva, l'effettiva portata dell'operazione”.

3.   Alcune brevi osservazioni sulla sentenza.

La pronuncia, fondata sul noto principio di "non frazionabilità" degli interventi edilizi (formatasi perlopiù in tema di qualificazione degli interventi, sia ai fini del rilascio dei titoli abilitativi sia ai fini del regime sanzionatorio applicabile), è di particolare interesse in quanto calata sulla particolare questione del computo dei c.d. oneri concessori ex artt. 16 e 17 DPR 380/2001.

Una simile decisione - a nostro avviso sostanzialmente condivisibile (giacché, a ben vedere, ogni intervento di ristrutturazione edilizia è quasi sempre "frazionabile" in più interventi di manutenzione straordinaria), in ragione dei principi sino ad oggi affermati dalla giurisprudenza amministrativa - pone, all'atto pratico, seri interrogativi laddove, invece, gli interventi vengano posti in essere, magari autonomamente l'uno dall'altro (e, quindi, previa presentazione di più pratiche edilizia "in serie"), ma in ragione di un disegno unitario facilmente intuibile ex post.

In tali ipotesi - che ovviamente sono da valutarsi caso per caso e senza presunzioni di alcun tipo, né in un senso né nell'altro - non può infatti escludersi, a priori, che la P.A. possa contestare una condotta sostanzialmente elusiva degli artt. 16 e 17 D.P.R. 380/01.

D'altra parte, può comunque osservarsi, come rilievo generale, che il costante ampliamento della categoria della manutenzione straordinaria (che, come noto, per effetto del Decreto semplificazioni, ricomprende oggi anche cambi d'uso urbanisticamente rilevanti, purché senza aggravio del carico urbanistico, e modifiche prospettiche, ove necessarie ai fini dell'agibilità/accessibilità) sia tale, in molti casi, da rendere meno gravosa la questione.

Così, come, d'altronde, occorre tenere a mente l'ultimo comma dell'art. 17 del D.P.R. 380/01 (anch'esso novellato dal Decreto semplificazioni) a mente del quale

"Al fine di agevolare gli interventi di rigenerazione urbana, di decarbonizzazione, efficientamento energetico, messa in sicurezza sismica e contenimento del consumo di suolo, di ristrutturazione, nonché di recupero e riuso degli immobili dismessi o in via di dismissione, il contributo di costruzione è ridotto in misura non inferiore del 20 per cento rispetto a quello previsto dalle tabelle parametriche regionali. I comuni hanno la facoltà di deliberare ulteriori riduzioni del contributo di costruzione, fino alla completa esenzione dallo stesso."

 


PTPR Lazio: le indicazioni del MiBACT a seguito di Corte costituzionale n. 240/2020

Si mette a disposizione la nota del 2.12.2020  avente ad oggetto "Sentenza della Corte Costituzionale 17 novembre 2020, n. 240 – Annullamento della deliberazione del Consiglio regionale n. 5 del 2 agosto 2019 recante “Piano Territoriale Paesistico Regionale (PTPR)”, pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Lazio n. 13 del 13 febbraio 2020", con la quale il MiBACT ha riscontrato il quesito della Regione Lazio.


Circolare MIT - Ministero P.A. su Decreto Semplificazioni ed edilizia: luci ed ombre.

MIT e Ministero per la Pubblica Amministrazione hanno diramato la Circolare relativa a "nuova" ristrutturazione edilizia e disciplina delle distanze.

Tale atto di indirizzo (che, è bene ricordarlo, al di là dell'autorevolezza data dalla provenienza, non ha alcun valore vincolante né per le P.A. né per i Giudici eventualmente chiamati a pronunciarsi in futuro) affronta molti dei nodi interpretativi sorti a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 10 del Decreto Semplificazioni, come modificato dalla legge di conversione (n. 120/2020).

In particolare, la circolare si sofferma sulla nuova disciplina di ristrutturazione edilizia demoricostruttiva ex art. 3, co. 1, lett. d) DPR 380/2001, sulle modifiche all'art. 2-bis, co. 1-ter del medesimo DPR nonché sui rapporti tra le due norme.

Si tratta di problemi che abbiamo più volte esaminato, sia a seguito della pubblicazione del DL a luglio (DL semplificazioni, modifiche agli artt. 2-bis e 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/2001: ri-partenza per Piano Casa e Rigenerazione urbana?  -Decreto semplificazioni e rigenerazione urbana: il cortocircuito di "zone A"​ e aree "vincolate"​ ) sia a seguito della conversione in legge ( Rigenerazione urbana e demoricostruzione: possibili “vie d’uscita” ai nuovi limiti ex DL Semplificazioni.)

Vediamo, quindi, quelli che sono, a nostro avviso s'intende, "luci ed ombre" delle soluzioni interpretative prospettate dalla Circolare.

I. Il chiarimento circa "il diverso ambito di applicazione dell’articolo 2-bis, comma 1-ter, e dell’articolo 3,
comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 380/2001".

Il primo punto della nota interministeriale evidenzia un dato di assoluto rilievo, in maniera peraltro condivisibile.

L'art. 3. co. 1, lett. d) regola, in generale, la ristrutturazione edilizia, la sua definizione e la relativa disciplina, differenziata negli ambiti "sensibili" (aree vincolate, zone A, etc.).

L'art. 2-bis, co. 1-ter, invece, ha ad oggetto - specificamente ed esclusivamente - la disciplina della deroga alla normativa sulle distanze per gli interventi di demoricostruzione (quale che ne sia la qualificazione, in termini di ristrutturazione edilizia ovvero nuova costruzione).

Da tale chiarimento deriva, come vedremo (e come avevamo anticipato nei vari contributi pubblicato e sopra richiamati), un ridimensionamento della portata dell'art. 2-bis, co. 1-ter, ultimo periodo, laddove si afferma (apparentemente con portata generale) la sottoposizione degli interventi demoricostruttivi a necessario strumento attuativo in zone A e "simili".

 

II. Le "modifiche alla definizione di ristrutturazione edilizia".

La Circolare segnala e commenta nel dettaglio le diverse innovazioni apportate dal Decreto Semplificazioni all'art. 3, co. 1, lett. d) DPR 380/01.

1. Una prima notazione merita la puntualizzazione secondo cui

 "...  il riferimento alle “caratteristiche tipologiche” dell’edificio preesistente va letto in stretta correlazione col richiamo agli “elementi tipologici” contenuto nella definizione di restauro e risanamento conservativo di cui alla lettera c) del medesimo articolo 3 (che in parte qua riproduce la nozione introdotta dall’art. 31, comma 1, lettera c), della legge 5 agosto 1978, n. 457). Pertanto, si tratta di una nozione da non sovrapporre a quella di destinazione d’uso dell’edificio – la quale è stabilita dal titolo abilitativo sulla base delle norme urbanistiche di riferimento – e che ha un contenuto al tempo stesso architettonico e funzionale, individuando quei caratteri essenziali dell’edificio che ne consentono la qualificazione in base alla tipologia edilizia (p.es. costruzione rurale, capannone industriale, edificio scolastico, edificio residenziale etc.)"

Tale passaggio della Circolare prospetta una prima "zona d'ombra": qui, infatti, sembrerebbe volersi affermare che l'intervento di ristrutturazione edilizia demoricostruttiva (che può, a norma dell'art. 3, co. 1, lett. d), DPR 380/01, condurre ad un edificio  con "diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche") non legittimerebbe anche ("automaticamente") il mutamento di destinazione d'uso (se ed in quanto, s'intende, ammesso dalla disciplina urbanistica di riferimento).

Si tratta di una posizione che dovrà essere approfondita ma che suscita talune perplessità, giacché immaginare un intervento di ristrutturazione edilizia demoricostruttiva (anche con finalità di rigenerazione urbana o di riqualificazione dell'esistente) che resti "vincolato" alla destinazione d'uso originaria appare alquanto limitato (si pensi al caso "tipo" della sostituzione di edilizia industriale/produttiva, con fabbricati residenziali o a servizi).

2. Discutibile - sempre a nostro avviso - è anche il passaggio dove le ipotesi di incremento volumetrico oggi ammesse dalla norma ("L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana").

Sul punto la Circolare rileva che:

"la deroga non è estesa a qualsiasi disposizione che consenta incrementi volumetrici (p.es. in funzione premiale o incentivante), ma vale soltanto per le ipotesi in cui questi siano strumentali a obiettivi
di rigenerazione urbana, da intendersi – secondo l’accezione preferibile, nella perdurante assenza di una
definizione normativa a carattere generale – come riferita a qualunque tipologia di interventi edilizi che,
senza prevedere nuove edificazioni, siano intesi al recupero e alla riqualificazione di aree urbane e/o
immobili in condizioni di dismissione o degrado"

Tale affermazione non è condivisibile.

La norma, infatti, recita testualmente che l'incremento volumetrico - ove riconosciuto da leggi o pianificazione - è ammesso in ristrutturazione edilizia tramite DR "anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana". 

Come da un dato testuale così chiaro (il Legislatore usa la congiunzione anche e non la diversa formula "esclusivamente per promuovere interventi di rigenerazione urbana") possa pervenirsi ad una interpretazione così restrittiva non è dato intendere.

Per di più, è la stessa finalità di "rigenerazione urbana" ad essere priva di riferimenti normativi certi, come la stessa Circolare riconosce laddove osserva che questa è da intendersi "secondo l’accezione preferibile, nella perdurante assenza di una definizione normativa a carattere generale – come riferita a qualunque tipologia di interventi edilizi che,
senza prevedere nuove edificazioni, siano intesi al recupero e alla riqualificazione di aree urbane e/o immobili in condizioni di dismissione o degrado". 

Francamente, una nozione troppo indeterminata (e priva di addentellati con norme statali di principio) per poter essere adoperata da operatori economici, tecnici e P.A., i quali, all'in fuori degli incrementi riconosciuti da norme che espressamente siano "nominate" "rigenerazione urbana" (come, ad esempio, nel Lazio la L.R. 7/2017, in Lombardia la L.R. 18/2019), si troverebbero a dover porre in essere valutazioni (ed asseverazioni) eccessivamente soggettive, discrezionali e incerte.

3. Quanto agli "edifici vincolati" (ossia: tutelati ai sensi del d.lgs. 42/2004, sia ai sensi della parte II - beni culturali - sia ai sensi della parte III - beni paesaggistici) la Circolare, condivisibilmente, chiarisce che è solo per questi che vale la regola, inderogabile, della demoricostruzione fedelissima, atteso che, invece, per gli immobili in zona A (ed assimilabili) nei centri e nuclei storici ovvero nelle aree comunque di particolare pregio storico o architettonico, l'art. 3, co. 1, lett. d), DPR 380/2001 rappresenta solo una norma di indirizzo che lascia impregiudicate scelte, anche meno restrittive, di legislazione (anche regionale, ovviamente) e strumenti urbanistici.

In tal senso si afferma, infatti, che:

"La clausola [ conferma, altresì, la legittimità delle eventuali previsioni degli strumenti urbanistici (sia generali che attuativi) con cui si consentano, anche per le zone A e assimilate e per i centri storici, interventi di ristrutturazione edilizia mediante demolizione e ricostruzione entro limiti meno stringenti di quelli ordinariamente stabiliti dalla norma primaria in esame (fermi restando in ogni caso gli ulteriori limiti rivenienti da altre norme del testo unico)"

III.  Chiarimenti circa le "nuove previsioni in materia di demolizione e ricostruzione e rispetto delle distanze".

L'ultimo punto della Circolare è dedicato al nuovo co. 1-ter dell'art. 2-bis DPR 380/01.

1. Qui si ribadisce quanto già sottolineato in premessa circa la natura "specifica" (e non "generale") della disposizione che ha di mira (esclusivamente) la questione di demoricostruzione (quale che ne sia la qualificabilità in termini di ristrutturazione edilizia ovvero nuova costruzione) e distanze.

2. Ciò premesso, la nota interministeriale offre una lettura restrittiva del presupposto per poter ricorrere alla deroga stabilità dal primo periodo laddove è previsto che:

"In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nell’osservanza delle distanze legittimamente preesistenti"

Il dubbio interpretativo qui risiede nell'inciso "anche qualora le dimensioni del lotto ...": ossia, il Legislatore ha inteso consentire sempre la deroga o, invece, subordina la stessa alle sole ipotesi in cui "le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime".

A nostro avviso, pure in questo caso, il dato letterale non lascia spazio ad interpretazioni restrittive, giacché la disposizione utilizza la congiunzione "anche" non può essere letta come tale da introdurre una condicio sine qua non per beneficiare della norma di favore.

Tuttavia la Circolare opta per una lettura (a nostro avviso: ingiustificatamente) differente:

"la ricostruzione è possibile – in sostanza – in deroga alle norme in questione, e quindi col mantenimento delle distanze preesistenti se non è possibile la modifica dell’originaria area di sedime"

Detta lettura della disposizione, oltre a non sembrare in linea con il chiaro dato testuale e sintattico, pone peraltro una controindicazione operativa, giacché non è affatto chiaro come debba essere valutata la impossibilità in parola, aprendo il campo a margini di incertezza.

3. Per l'ipotesi di aumento di cubatura, condivisibilmente in questo caso, la Circolare sottolinea come le deroghe siano ammesse laddove lo stesso sia conseguenza di "incentivi volumetrici", il che sta a significare che non ogni incremento volumetrico beneficerà della deroga, ma solo quelli legati a norme, appunto, incentivanti (piani casa, rigenerazione urbana, premi di cubatura riconosciuti con specifiche finalità dagli strumenti urbanistici, legislazione su risparmio energentico, etc. ).

4. Infine, la nota interministeriale si concentra sull'ultimo periodo, quello cioé, che come noto, dove è stato previsto che:

"Nelle zone zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela"

Al riguardo (sposando una tesi che abbiamo a più riprese anticipato in precedenti contributi), si precisa nuovamente come la disposizione sia da leggere all'interno della norma di riferimento (art. 2-bis, co. 1-ter, DPR 380/01) e che, quindi, non è stato affatto previsto che qualunque intervento di demoricostruzione negli ambiti "sensibili" (zone A, etc.) sia sottoposto piano di recupero e riqualificazione.

Tale strumento occorre - ma non inderogabilmente, come vedremo - solo al fine di poter applicare le deroghe alla normativa sulle distanze, dettata dal primo periodo del medesimo comma 1-ter.

Simile interpretazione, peraltro, come anche la Circolare a più riprese sottolinea, è l'unica che rende giustizia al coordinamento con l'art. 3, co. 1, lett. d), DPR 380/01 che in detti ambiti "sensibili" non nega affatto la possibilità di intervenire tramite DR (anzi consentendola, ove fedelissima, come ristrutturazione edilizia).

5. Altrettanto correttamente, la Circolare evidenzia come, anche in tale parte della norma (analogamente a quanto visto rispetto all'ult. periodo dell'art. 3, co. 1, lett. d) sia presente una clausola di salvezza, tale per cui l'obbligo di strumento attuativo (ai fini delle deroghe alle distanze, come visto) non ricorre laddove questo sia da escludere in base a "previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti" .

Peraltro, sull'aggettivo "vigenti" la Circolare avalla la tesi per cui, in assenza di un riferimento temporale individuato dalla norma come novellata dal Decreto Semplificazioni, non occorre che detti strumenti siano vigenti "ad oggi", essendo riferibile anche a futuri atti pianificatori.

E' questa una interpretazione non solo rispettosa del dato testuale, ma anche in linea con il necessario rispetto, da parte del Legislatore, delle prerogative del pianificatore (urbanistico e paesaggistico).

 

 

 

 


SCIA e provvedimenti inibitori tardivi: novità dal Decreto Semplificazioni?

Ne avevamo già parlato: il Decreto Semplificazioni ha introdotto una nuova norma relativa a SCIA e e provvedimenti inibitori tardivi.

Ci riferiamo, in particolare, al nuovo art. 2, co. 8-bis L. 241/90, in base al quale:

" (….)  i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.”

Sebbene la norma sembri alludere ad un effetto di inefficacia "automatica" (ex lege), occorre ricordare che l'ordinamento amministrativo (L. 241/90 e Codice del processo amministrativo), in linea di principio, considera i provvedimenti illegittimi esistenti ed efficaci finché questi non vengano formalmente "rimossi" (annullamento in autotutela da parte della P.A., annullamento giurisdizionale o dichiarazione di nullità sempre da parte del Giudice amministrativo, nullità che non opera "automaticamente").

Da tale regola generale - non apertamente o chiaramente derogata dal nuovo art. 2, co. 8-bis L. 241/90 - sembrerebbe discendere una possibile "inutilità" concreta della nuova disposizione: per poter far valere l'inefficacia del provvedimento inibitorio tardivo occorre sempre una pronuncia (del Giudice amministrativo, atteso che una P.A. che dichiari l'inefficacia di un proprio atto in quanto tardivo è evidentemente un caso puramente teorico).

Insomma, sembrerebbe un approccio poco prudente quello di considerare l'atto inibitorio tardivo (adottato, cioè, oltre 60 o 30 giorni dalla SCIA) inefficace e, quindi, l'attività posta in essere come mai validamente "vietata" dalla P.A.

In un giudizio relativo a provvedimenti adottati da un Comune a fronte di una SCIA (fattispecie ante Decreto Semplificazioni) il Giudice amministrativo ha osservato che

 "Se è vero che, in materia edilizia, il potere inibitorio dell’amministrazione si consuma dopo 30 giorni (ferma restando la via dell’autotutela), resta però fermo che l’eventuale atto repressivo assunto oltre tale termine non è nullo, ma annullabile per violazione di legge, sicché, in caso di mancata e tempestiva impugnazione, esso consolida i propri effetti e preclude gli effetti della SCIA (è appena il caso di notare che la presente fattispecie non è assoggetta ratione temporis all’art. 2, comma 8 bis, della legge n. 241del 1990, come introdotto dal d.l. n. 76 del 2020, che dichiara inefficace il provvedimento ex art. 19, commi 3 e 6 bis, adottato oltre il termine di legge; anzi, da tale norma si ricava a contrario che nel periodo previgente l’inibitoria tardiva producesse effetti, se non annullata)"

Con l'inciso sopra citato, il TAR Lazio, Sez. II-quater, 29.10.2020, n. 11086 sembra alludere alla circostanza che la nuova disposizione - parlando espressamente di inefficacia ex lege - sarebbe tale da poter operare anche a prescindere da un formale annullamento.

Ovviamente, siamo davanti ad una isolata pronuncia nonché ad un rilievo puramente incidentale il che suggerisce, al livello operativo, di impugnare ritualmente, entro 60 giorni, davanti al TAR il provvedimento ex art. 19 co. 3 e 6-bis L. 241/90, ancorché dalla Legge oggi qualificato "inefficace".

Ad ogni modo è bene evidenziare che anche laddove dovesse "consolidarsi" in giurisprudenza la tesi di una inefficacia/nullità ex lege, le regole processuali consentirebbero, tutt'al più, di estendere il termine di impugnativa (da 60 a 180 giorni, ex art. 31 del codice del processo amministrativo), ma non di poter considerare l'atto inefficace a prescindere da una pronuncia del Giudice amministrativo (come pur invece lascerebbe intendere TAR Lazio 11086/2020).

Attendiamo, dunque, i prossimi sviluppi della giurisprudenza amministrativa, fermo restando che il segnale lanciato dal Legislatore alla P.A., quantomeno dal punto di vista di moral suasion, appare chiaro nel rafforzare la "idea" di necessaria tempestività dell'intervento inibitorio sulle SCIA pena la "perdita del potere" (salvo l'intervento "in autotutela" in presenza dei requisiti ex art. 21-nonies L. 241/90).

 


Lazio: la Corte costituzionale ha annullato il PTPR

Con sentenza n. 240, depositata oggi 17.11 la Corte costituzionale ha annullato la deliberazione 2.8.2019, n. 5 della Regione Lazio, con la quale era stato approvato il PTPR.

La decisione segue il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, con il quale era stata denunciata la violazione delle norme del d.lgs. 42/2004 che impongono, in sede di approvazione del piano paesaggistico territoriale da parte delle Regioni, il coinvolgimento del Ministero per  i beni  e le attività Culturali e per il paesaggio e per il turismo (MiBACT).

Ad avviso della Consulta, la Regione Lazio, in sede di approvazione del PTPR, ha violato, oltre che le puntuali previsioni di cui agli artt. 135 e ss. d.lgs. 42/2004, anche il principio di leale collaborazione.

Rileva la decisione, in particolare, che "la Regione Lazio, dopo aver assicurato il coinvolgimento del MiBACT fino alla proposta di delibera consiliare 10 marzo 2016, n. 60, adottata dalla Giunta regionale con decisione 8 marzo 2016, n. 6, ha posto in essere una condotta che viola i canoni della leale collaborazione. Da questo punto di vista l’approvazione e poi la pubblicazione della deliberazione del Consiglio regionale n. 5 del 2019 hanno determinato una soluzione di continuità nell’iter collaborativo avviato tra Stato e Regione, hanno prodotto l’affermazione unilaterale della volontà di una parte e si sono tradotte in un comportamento non leale, nella misura in cui – a conclusione del (e nonostante il) percorso di collaborazione – la Regione ha approvato un piano non concordato, destinato a produrre i suoi effetti nelle more dell’approvazione di quello oggetto di accordo con il MiBACT".

Da segnalare che la decisione determina l'annullamento anche "degli atti attuativi e conseguenziali, fra i quali, senz’altro, la nota della Direzione regionale per le politiche abitative e la pianificazione territoriale, paesistica e urbanistica della Regione Lazio, del 20 febbraio 2020, prot. 0153503, attuativa della delibera impugnata in quanto relativa ai procedimenti in corso per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica"

La sentenza apre scenari assai caotici nella gestione dei procedimenti di autorizzazione paesaggistica - che dovranno senz'altro essere approfonditi e saranno oggetto di probabili interventi da parte della Regione - considerato che, allo stato, le misure di salvaguardia conseguenti alla Delibera di adozione del PTPR sono sicuramente decadute (con possibile reviviscenza dei singoli PTP).

 


Rigenerazione urbana e demoricostruzione: possibili "vie d'uscita" ai nuovi limiti ex DL Semplificazioni.

Si è molto dibattuto circa la portata, ragionevolezza e condivisibilità delle modifiche apportate dal Decreto Semplificazioni agli artt. 3, co. 1, lett. d) e 2-bis, co. 1-ter del D.P.R. 380/2001 (al riguardo si veda anche questo contributo).

Le due disposizioni a cui ci riferiamo sono, in particolare, le seguenti:

art. 3, co. 1, lett d) "(...). Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici,a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria

art. 2-bis, co. 1-ter: "(...). Nelle zone zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela.

In questo contributo intendiamo focalizzare l'attenzione sulle due "clausole di salvezza" contenute nelle due disposizioni.

1.   Il nuovo art. 3, co. 1, lett. d), D.P.R. 380/01.

1.1 Come ormai noto, l'art. 3, co. 1, lett. d) ha ridisegnato la ristrutturazione edilizia, sdoppiandola in due regimi del tutto differenti:

a) una regola generale, che ha riconosciuto una ristrutturazione edilizia sostitutiva, fino al punto di consentire modifiche di tipo planivolumetrico e ampliamenti di cubatura ("nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali");

b) una eccezione che, per determinati ambiti (o, forse, dovremmo dire "anche indeterminati", visto l'incerto riferimento anche a non meglio precisati "ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico", ma non è su questo che ci soffermeremo) impone, in caso di demoricostruzione o ripristino di fabbricati diruti, il rispetto di "sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente" e senza, conseguentemente, possibilità di incrementi volumetrici.

Tuttavia nella disposizione il Legislatore ha introdotto un inciso (che abbiamo sottolineato nel testo) in base al quale sono "fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici".

La clausola di salvezza, peraltro, non opera con riferimento "agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42".

1.2 Cosa comporta tale salvezza? A cosa si riferisce?

E' ipotizzabile e sostenbile - a nostro avviso, s'intende - che tale clausola di salvezza sia tale da mantenere in vita non solo a regimi maggiormente restrittivi (si immagini un PRG che vieti in taluni ambiti qualunque intervento di demoricostruzione) ma anche regole più elastiche rispetto a quella indicata dall'art. 3, co. 1, lett. d), ultimo periodo in esame.

Tale ipotesi interpretativa, infatti, poggia su un primo dato testuale: quando il Legislatore intende lasciare uno spazio per regimi alternativi ma solo al fine di consentire regolamentazioni ancor più stringenti ciò avviene con formule espresse in tal senso.

Nel caso di specie la norma si limita a far salve le previsioni degli strumenti di pianificazione o di leggi "speciali".

Un secondo argomento che  ci pare condurre alla conclusione ipotizzata sta nel fatto che una diversa lettura (ossia: salvezza solo di regole maggiormente restrittive, peraltro implicitamente, vista l'assenza di una chiara lettera della norma) risulterebbe di dubbia compatibilità con la tutela della funzione amministrativa pianificatoria degli Enti Locali.

D'altra parte, la formula aperta adottata dal Legislatore ("fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici") in combinato disposto con l'art. 3, co. 2, D.P.R. 380/2001 sembra confermare la plausibilità dell'interpretazione proposta. Infatti, il rigore e la (sostanziale) inderogabilità dell'art. 3, co. 2, citato secondo cui "le definizioni di cui al comma 1[tra cui quella di ristrutturazione edilizia in esame] prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi", viene a trovarsi "mitigato" proprio per effetto della citata clausola di salvezza.

 

2.  Il nuovo co. 1-ter dell'art. 2-bis D.P.R. 380/01

2.1 Analoga questione si pone con la nuova disciplina relativa alla deroga delle distanze, introdotta anche per "porre rimedio" alle questioni sorte da Corte Cost. 70/2020.

Questa la formulazione della disposizione del co. 1-ter art. 2-bis risultante dal Decreto Semplificazioni:

In ogni caso di intervento che preveda la demolizione e ricostruzione di edifici, anche qualora le dimensioni del lotto di pertinenza non consentano la modifica dell’area di sedime ai fini del rispetto delle distanze minime tra gli edifici e dai confini, la ricostruzione è comunque consentita nell’osservanza delle distanze legittimamente preesistenti. Gli incentivi volumetrici eventualmente riconosciuti per l’intervento possono essere realizzati anche con ampliamenti fuori sagoma e con il superamento dell’altezza massima dell’edificio demolito, sempre nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti. Nelle zone zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e in ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione sono consentiti esclusivamente nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati, di competenza comunale, fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti e i pareri degli enti preposti alla tutela.

Anche in questo caso la disposizione prevede due regimi:

a) quello ordinario, nel quale in caso di demoricostruzione vi è un regime "semplificato" in ordine alle distanze da osservare, anche in caso di aumenti di cubatura e interventi fuori sagoma;

b) quello speciale, concernente le zone "sensibili", dove viene introdotta una regola particolarmente severa in base alla quale tali interventi sono possibili solo "nell’ambito dei piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati".

2.2 Come nel caso, prima esaminato, dell'art. 3, co. 1, lett. d), anche qui il Legislatore ha introdotto una clausola di salvezza, qui riferita alle "previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti".

Sulla base dei medesimi argomenti esaminati in precedenza, possiamo quindi ipotizzare che in presenza di strumenti di pianificazione territoriale che ammettano espressamente gli interventi di demoricostruzione negli ambiti "tutelati" non sia necessaria la loro ammissibilità in base ai "piani urbanistici di recupero e di riqualificazione particolareggiati".

D'altra parte, come già osservato con riferimento all'art. 3, co. 1, lett. d), una diversa lettura porrebbe seri problemi di (indebita) compressione delle potestà pianificatorie di spettanza degli Enti Locali (specie con riferimento alla pianificazione comunale), atteso che sarebbe alquanto singolare che il D.P.R. 380/01 possa legittimamente compiere - a priori ed inderogabilmente - la scelta se sottoporre o meno taluni interventi a titolo diretto o a strumento attuativo (scelta che, come noto, è tipicamente riconducibile alla potestà/discrezionalità dell'ente competente sul governo del territorio).

2.3 Con riferimento alla disposizione ora in esame, occorre poi soffermarsi sull'aggettivo "vigenti" ("fatti salvi le previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti").

A nostro avviso, difettando una norma che leghi tale vigenza ad una certa data (ad es. quella di entrata in vigore del DL Semplificazioni), è da escludere che il rinvio sia da intendere solo agli strumenti "oggi vigenti", ben potendo il Pianificatore, proprio al fine di derogare alle indicazioni dell'ultimo periodo dell'art. 2-bis, co. 1-ter, adottare anche in futuro discipline specifiche al fine di ampliare o restringere la tipologia di interventi di demoricostuzione o ripristino eseguibili negli ambiti territoriali "sensibili" (individuati dalla norma di legge).

2.4 Infine, una ulteriore riflessione: il co. 1-ter dell'art. 2-bis - diversamente dall'art. 3, co. 1, lett. d) prima esaminato- fa riferimento esclusivamente a norme pianificatorie e non, invece, ad eventuali previsioni di legge.

Il che potrebbe condurre a ritenere che eventuali leggi regionali (esistenti o future) che incidano sulla ammissibilità della demoricostruzione/ripristino negli ambiti "sensibili" potrebbero essere considerate costituzionalmente illegittime.

2.5 A margine delle considerazioni che precedono, non può non accennarsi ad una ulteriore questione interpretativa.

L'art. 2-bis, co. 1-ter ha ad oggetto e disciplina (v. rubrica della norma e primo periodo del comma 1-ter stesso) la deroga alle distanze ex DM 1444/68.

La disposizione ora esaminata (l'ultimo periodo del co. 1-ter relativo alle zone "tutelate") invece sembra del tutto esorbitare da tale questione, introducendo una regola-divieto che non contempla direttamente la disciplina delle distanze ma la stessa ammissibilità (o, meglio, le condizioni di ammissibilità) degli interventi di demoricostruzione.

A nostro avviso una possibile lettura correttiva della disposizione (ma, va detto, assai in tensione con il dato testuale) è quella per cui la stessa sarebbe da intendere non nel senso di regolare la ammissibilità degli interventi demoricostruttivi, bensì le condizioni al ricorrere delle quali è possibile applicare il regime derogatorio/semplificato relativo alle distanze.

 

 


Decreto Semplificazioni: l'art. 10, co. 7-ter, opportunità per gli investitori istituzionali

L'art. 10, co. 7-ter del Decreto Semplificazioni introduce una interessante opportunità per gli "investitori istituzionali" di cui all'art. 1 d.lgs. 58/1998 e, in particolare, per:

  • "OICR" ed "OICR italiani" (art. 1, lett. k) ed l)
  • SGR (art. 1, lett. o)
  • soggetti abilitati (ossia, ex art. 1, lett. r): le Sim, le imprese di investimento UE con succursale in Italia, le imprese di paesi terzi autorizzate in Italia, le Sgr, le societa' di gestione UE con succursale in Italia, le Sicav, le Sicaf, i GEFIA UE con succursale in Italia, i GEFIA non UE autorizzati in Italia, i GEFIA non UE autorizzati in uno Stato dell'UE diverso dall'Italia con succursale in Italia, nonche' gli intermediari finanziari iscritti nell'albo previsto dall'articolo 106 del T.U. bancario, le banche italiane e le banche UE con succursale in Italia autorizzate all'esercizio dei servizi o delle attivita' di investimento

In favore di tali operatori (oltre che di pubbliche amministrazioni,  società controllate o partecipate da pubbliche amministrazioni o enti pubblici) infatti, il legislatore ha introdotto la possibilità di porre in essere taluni interventi, anche di rigenerazione urbana, a rilevanza pubblicistica e, in particolare

opere edilizie finalizzate a realizzare o qualificare edifici esistenti da destinare ad infrastrutture sociali, strutture scolastiche e universitarie, residenze per studenti, strutture e residenze sanitarie o assistenziali, ostelli, strutture sportive di quartiere ed edilizia residenziale sociale

Tali opere, in particolare,

sono sentite con SCIA, purché iniziate entro il 31 dicembre 2022 e realizzate, sotto controllo pubblico, mediante interventi di ristrutturazione urbanistica o edilizia o di demolizione e ricostruzione

Al fine di incentivare tali interventi si prevede altresì la possibilità di

 un incremento fino a un massimo del 20 per cento della volumetria o della superficie lorda esistente

Altro aspetto che merita di essere sottolineato, in termini di semplificazione, è che è sempre possibile realizzare tali interventi con cambi d'uso aventi ad oggetto immobili ricadenti nelle destinazioni  residenziali, turistico-ricettiva,  produttiva e direzionale e commerciale (dunque gli unici immobili esclusi sono quelli rurali).

Non sono, invece, derogate le disposizioni del d.lgs. 42/2004.

Entro 60 gg. dall'entrata in vigore della L. 120/2020 (di conversione del D.L. 76/2020) le Regioni dovranno dare applicazione, con proprie leggi, a tale norma. In assenza, sarà possibile intervenire applicando direttamente l'art. 10, co. 7-ter del D.L. 76/2020.

Si tratta, evidentemente, di un importante incentivo (a tempo: valido per opere da iniziare entro il 31.12.2022), atto a semplificare sensibilmente, oltre che incentivare con il bonus volumetrico, interventi, anche di rigenerazione urbana, aventi  rilevanza sociale e pubblicistica ma, al contempo, idonei ad attrarre investimenti.

Tra gli aspetti che andranno sicuramente meglio chiariti, in sede di applicazione della norma nonché di legislazione regionale, vi è la condizione che le opere siano realizzate "sotto controllo pubblico" (locuzione che potrebbe, ad esempio, alludere alla necessità di un previo convenzionamento).

 


Decreto Semplificazioni: la nuova disciplina delle modifiche di prospetto nel D.P.R. 380/2001.

Il Decreto Semplificazioni, appena convertito dalla L. 120/2020, ha introdotto una nuova disciplina delle modifiche di prospetto nel D.P.R. 380/2001.

Esaminiamola nel dettaglio.

1.Le modifiche di prospetto ante Decreto Semplificazioni

Si tratta di una modifica operativamente assai rilevante, introdotta al fine di superare la (nota) criticità che derivava dalla consolidata interpretazione dell'art. 10, co. 1, lett. c) D.P.R. 380/2001, in base al quale costituiva ristrutturazione edilizia c.d. pesante (soggetta a PdC o a SCIA alternativa):

gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente e che comportino modifiche della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti, ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma di immobili sottoposti a vincoli ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modificazioni

Alla luce di tale norma, come avevamo già segnalato in un precedente contributo, la giurisprudenza (in maniera tendenzialmente univoca) riteneva che la mera modifica di un prospetto determinasse la qualificazione dell'intervento come ristrutturazione edilizia pesante.

Ad esempio, TAR Lazio 7818/2019 sottolineava che "l’apertura di porte e di finestre sul prospetto di un edificio va qualificato – sempre – come intervento di ristrutturazione edilizia comportante modifica dei prospetti, assoggettato (tuttora) al regime del permesso di costruire ex art. 10 primo comma lett. c) del d.P.R. 6 Giugno 2001 n° 380 (...)".

 

2.Le novità del D.L. 76/2020

Ora, dall'entrata in vigore del Decreto Semplificazioni, citando Lucio Battisti, "tutto questo non c'è più".

Procediamo con ordine.

La prima importante modifica in tal senso è quella introdotta all'art. 3, co. 1, lett. b) D.P.R. 380/01, che oggi prevede che sono annoverati tra gli interventi di manutenzione straordinaria

anche le modifiche ai prospetti degli edifici legittimamente realizzati necessarie per mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso, che non pregiudichino il decoro architettonico dell’edificio, purché l’intervento risulti conforme alla vigente disciplina urbanistica ed edilizia e non abbia ad oggetto immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42;

A tale modifica è conseguita la novella anche degli articoli 22 (interventi soggetti a SCIA "semplice") e 10, co. 1, lett. c) (interventi di ristrutturazione edilizia c.d. pesante).

Il nuovo art. 22 D.P.R. 380/01, in particolare, prevede, al co. 1, lett. a), che sono soggetti a SCIA:

gli interventi di manutenzione straordinaria di cui all'articolo 3, comma 1, lettera b), qualora riguardino le parti strutturali dell'edificio o i prospetti;

Infine, il Decreto Semplificazioni ha espunto dall'art. 10, co. 1, lett. c) (interventi di ristrutturazione edilizia pesante, assoggettati a PdC o SCIA ex art. 23) il riferimento alle modifiche prospettiche, salvo la specifica ipotesi di modifiche prospetto relativa ad immobili tutelati ex d.lgs. 42/2004. La norma, infatti, ora contempla:

gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.

 

3.Quadro di sintesi

Alla luce delle modifiche segnalate è possibile trarre le seguenti conclusioni:

 

I. Modifiche prospettiche in manutenzione straordinaria, soggette a SCIA. 

L'art. 3, co. 1, lett. b) sottopone la qualificabilità della modifica prospettica come MS alle seguenti condizioni:

a) deve trattarsi di modifiche "necessarie" (ossia essenziali)  a "mantenere o acquisire l’agibilità dell’edificio ovvero per l’accesso allo stesso"

Il caso evidentemente avuto di mira dal legislatore (come si legge anche nella Relazione illustrativa al D.L.) è quello degli adattamenti dell'immobile a seguito di interventi di frazionamento o altre opere interne (, rientranti in M.O. ex art. 3, co. 1, lett. b) (ad es. a seguito di suddivisione di una unità immobiliare in più unità, potrà occorrere aggiungere finestre o introdurre accessi dall'esterno);

b) non deve essere pregiudicato "il decoro" del fabbricato.

Il requisito, peraltro attinente a pratiche soggette ad asseverazione del tecnico, rischia di essere di difficile lettura ed interpretazione (la prima questione che si può porre è la tutela del decoro derivante, ad esempio, dal regolamento condominiale).

c) conformità alla normativa urbanistico-edilizia 

Il requisito appare, evidentemente, di pressoché inutile precisazione (qualunque intervento, anche quelli in edilizia libera, presuppongono la conformità alla strumentazione edilizio-urbanistica)

d) non deve trattarsi di immobile soggetto "a tutela" ex d.lgs. 42/2004

nel qual caso (v. art. 10, co. 1, lett. c), si ricade in ristrutturazione edilizia pesante soggetta a PdC/SCIA alternativa

Le modifiche prospettiche che rispettino tali condizioni sono soggette a SCIA ex art. 22, co. 1, lett. a) (nell'ambito della quale dovrà essere asseverato il rispetto di dette condizioni).

 

II. Modifiche prospettiche ricadenti in ristrutturazione edilizia pesante, soggette a PdC/SCIA alternativa

Come ricordato, il nuovo art. 10, co. 1, lett. c) qualifica come RE pesante e, quindi, soggetta a PdC/SCIA ex art. 23 le modifiche prospettiche incidenti su immobili soggetti a tutela ex d.lgs. 42/2004.

 

III. Modifiche prospettiche "del terzo tipo": ristrutturazione edilizia semplice in SCIA?

Dalle "tipologie I e II" residuano gli interventi sui prospetti che non rispettino le condizioni di cui all'art. 3, co. 1, lett. b), condizioni che, come visto, rappresentano requisito per poter considerare tali opere come MS.

Tali interventi, tuttavia, (salvo il caso di immobili tutelati ex d.lgs. 42/2004) non ricadono nemmeno nella RE pesante.

Il "problema" è che il legislatore non ha espressamente considerato tali modifiche prospettiche "del terzo tipo", né ai fini della loro qualificazione (MS, RE pesante, RE leggera) né ai fini del titolo abilitativo (PdC, SCIA, SCIA alternativa), come invece accaduto con riferimento alle "tipologie I e II".

Quanto alla qualificazione, esclusa la RE pesante (10, co. 1, lett. c) e la MS (3, co. 1, lett. b), l'intervento sembrerebbe da qualificare come una RE leggera, potendo essere considerata la modifica prospettica ricadente nell'ampia nozione ex art. 3, co. 1, lett. d).

Da ciò si può far conseguire che la modifica prospettica "del terzo tipo" è assoggettata (come quella ricadente in MS, peraltro) a SCIA semplice, ex art. 22, co. 1, lett. c). 

Una diversa lettura (che non ci pare condivisibile) potrebbe essere quella di ricondurre l'intervento al "restauro e risanamento conservativo", ex art. 3, co. 1, lett. c).

Dal che conseguirebbe la  sottoposizione a SCIA solo laddove "riguardino le parti strutturali dell'edificio" (art. 22, co. 1, lett. b): solo il RC "pesante" è soggetto a SCIA) e, in caso negativo, la sua realizzabilità tramite CILA (titolo "residuale" ex art. 6-bis, co. 1).

La soluzione ipotizzata sarebbe, al livello sistematico, paradossale: si consentirebbe l'intervento più "pesante" (modifica prospettica esulante dalla MS) con il titolo più leggero (CILA) laddove si valuti che l'intervento non riguarda le parti strutturali dell'edificio.

 

 


L'Adunanza Plenaria si pronuncia sulla fiscalizzazione ex art. 38 D.P.R. 380/01: sanabili solo i vizi "procedurali"

L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha risolto il contrasto interpretativo relativo alle ipotesi in cui è ammissibile la fiscalizzazione ex art. 38 D.P.R. 380/01.

Tale norma, in particolare, dispone al co. 1 che

In caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, valutato dall’agenzia del territorio, anche sulla base di accordi stipulati tra quest’ultima e l’amministrazione comunale. La valutazione dell’agenzia è notificata all’interessato dal dirigente o dal responsabile dell’ufficio e diviene definitiva decorsi i termini di impugnativa

Si ammette la sanatoria in presenza di due presupposti concernenti l'impossibilità

a) della rimozione dei vizi "delle procedure amministrative";

b) della restituzione in pristino.

 

1. Orientamenti giurisprudenziali sulla natura del vizio emendabile

Relativamente al primo presupposto - ossia: la natura dei vizi che "sanabili" tramite fiscalizzazione - la giurisprudenza del Consiglio di Stato ha, nel tempo, sposato varie soluzioni.

Secondo un primo orientamento, affermatosi nella più recente giurisprudenza, la norma consentirebbe la sanatoria non solo a fronte di vizi formali (“procedurali”, secondo lo stesso art. 38 in esame) ma anche in presenza di vizi sostanziali e, quindi, opererebbe per ogni tipo di abuso.

Si sarebbe, secondo tale prospettiva, di fronte ad una sorta di “condono”, giustificato dalla necessità di offrire la più ampia tutela possibile al soggetto che – in buona fede – dopo aver riposto affidamento nel titolo abilitativo, si veda poi privato dello stesso ex post (ad es. Cons. Stato n. 5089/2019).

La P.A., quindi, deve rimuovere eventuali vizi formali e, ove ciò non sia possibile (in quanto i vizi siano non emendabili o abbiano portata sostanziale), prima di ordinare la rimessione in pristino è tenuta a valutare se la stessa sia “possibile” (e vedremo a breve cosa può, per la giurisprudenza, intendersi per "possibilità di ripristino").

Un secondo orientamento, invece, ritiene che la sanatoria sia possibile soltanto nel caso di vizi formali o procedurali non emendabili: diversamente – in caso di vizi sostanziali –  la P.A. dovrebbe sempre disporre la demolizione.

Dunque, l’inciso “qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino” starebbe a significare che si può passare alla seconda verifica (circa l’impossibilità della demolizione) solo allorquando il vizio non rimovibile sia procedurale (ossia: formale e non sostanziale). Laddove, invece, il vizio che inficia il titolo sia sostanziale, non sarebbe possibile svolgere la seconda verifica.

Tale orientamento, oltre ad essere seguito da talune decisioni (ad es. Cons. Stato 1861/2016) si fonda anche sui principi enunciati da Corte cost. 11.6.2010, n. 209, la quale ha chiarito che l’espressione “vizi delle procedure amministrative” “non si presta ad una molteplicità di significati, tale da abbracciare i “vizi sostanziali”, che esprimono invece un concetto ben distinto da quello di vizi procedurali e non in quest’ultimo potenzialmente contenuto, con la conseguenza di escludere la sanatoria nelle ipotesi di violazioni diverse da quelle formali-procedurali”.

Un terzo orientamento, intermedio, infine, teorizza la possibilità di rilasciare la sanatoria ex art. 38 D.P.R. 380/2001 non solo in presenza di vizi formali, ma anche di vizi sostanziali, purché emendabili, ossia  con la materiale modifica del progetto prima del rilascio della sanatoria. In altri termini, si sarebbe al cospetto di una sorta di “accertamento di conformità”, ma con prescrizioni atte a ricondurre l’immobile alla necessaria legalità (ad es. Cons. Stato n. 4221/2015)

 

2. La soluzione della Plenaria.

A fronte di soluzioni così differenti (antitetiche), la IV Sezione del Consiglio di Stato, con l'ord. n. 1735/2020 ha rimesso la questione relativa al primo presupposto (la natura dei vizi "emendabili") all'Adunanza Plenaria.

La quale, con la decisione n. 17/2020 del 7.9 u.s. è intervenuta aderendo alla lettura più restrittiva, affermando, in particolare, il seguente principio in diritto:

i vizi cui fa riferimento l’art. 38 sono esclusivamente quelli che riguardano forma e procedura che, alla luce di una valutazione in concreto operata dall’amministrazione, risultino di impossibile rimozione”.

A tali conclusioni, l'Adunanza Plenaria è pervenuta valorizzando , in primo luogo, argomenti letterali (la disposizione si riferisce a "vizi delle procedure", il che esclude profili di sostanziale contrasto con la disciplina urbanistico-edilizia).

In secondo luogo, sono stati esaminati alcuni profili sistematici.

Così, anche sulla scorta delle indicazioni di Corte Cost. 209/2010, la Plenaria ha evidenziato che il legittimo affidamento del titolare del permesso annullato deve essere bilanciato con la regola fondamentale della tendenzialmente necessaria rimozione delle opere in contrasto con la pianificazione urbanistica (da cui la limitazione della sanatoria ai soli vizi "procedurali") nonché con gli interessi ed il contrapposto legittimo affidamento di chi abbia agito in giudizio per ottenere l'annullamento del titolo abilitativo illegittimo (che sarebbe frustrato da una sanabilità che prescinda dalla natura "formale" o sostanziale del vizio).

D'altra parte, la decisione sottolinea che in caso di non sanabilità ex art. 38, il privato potrà agire (davanti al Giudice ordinario) per l'eventuale risarcimento del danno subito.

 

3. La questione dell'impossibilità della demolizione.

Come anticipato, la norma individua due presupposti:

(...) qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino (...)

Alla Plenaria, come visto, è stata rimessa l'interpretazione solo del primo profilo.

Resta, tuttavia, sullo sfondo il tema dei rapporti tra i due presupposti dettati dalla norma.

Come già ricordato, inoltre, secondo l'orientamento "restrittivo" - al quale la Plenaria ha aderito in merito alla questione della natura del vizio, solo procedurale, che consente l'applicazione dell'art. 38 -  si può passare alla seconda verifica (circa l’impossibilità della demolizione) solo allorquando il vizio non rimovibile sia procedurale (ossia: formale e non sostanziale). Laddove, invece, il vizio che inficia il titolo sia sostanziale, non è possibile svolgere la seconda verifica.

Occorre, al riguardo, una lettura attenta degli ultimi due passaggi della decisione del'Ad. Plenaria.

In particolare, in un primo passaggio delle conclusioni si afferma che  in presenza di  "vizi del titolo  (...) che ne hanno provocato l’annullamento in sede giurisdizionale (...) relativi all’insanabile contrasto del provvedimento autorizzativo con le norme di programmazione e regolamentazione urbanistica" deve essere esclusa"l’applicabilità del regime di fiscalizzazione dell’abuso in ragione delle non rimovibilità del vizio".

Successivamente, la sentenza aggiunge che, andranno comunque compiuti gli "eventuali altri accertamenti in fatto relativi alla sussistenza dell’altra condizione, pur prevista dall’art. 38, di “impossibilità della riduzione in pristino” ".

Si deve ritenere che la decisione della Plenaria (nel rimettere alla Sezione ordinaria del Cons. Stato la definizione del giudizio) abbia voluto, aderendo all'orientamento restrittivo, voluto prescrivere che solo nel caso  (eventuale) in cui il vizio sia qualificato come "procedurale" (e non emendabile) sarà possibile vagliare il secondo presupposto (la "impossibilità della demolizione").

Ma cosa si deve intendere per tale "impossibilità"?

Tale locuzione, infatti, appare a prima lettura assonante alle ipotesi di indemolibilità di cui agli artt. 33 e 34 del D.P.R. 380/2001: impossibilità “tecnica” e oggettiva, ossia di tipo "strutturale".

In tal senso milita un primo  e più  risalente orientamento giurisprudenziale (in tal senso TAR Campania, Napoli, 17938/2010;  TAR Emilia-Romagna, Bologna, 34/2016; Cons. Stato 1776/2008).

Più di recente, tuttavia, è emerso un secondo orientamento ad avviso del quale la valutazione circa la impossibilità di ripristino deve essere estesa a profili anche non strettamente tecnici.

Ad esempio per Cons. Stato  5089/2019, essendo l’art. 38, D.P.R. 380/2001 una norma  di favore per il privato che ha costruito in base ad un titolo rilasciato dalla P.A., nel valutare la ripristinabilità rileva non solo il caso di mera impossibilità o grave difficoltà tecnica, ma anche quello ove si riconoscano “ragioni di equità o al limite anche di opportunità”. Così anche Cons. Stato 6753/2018, secondo cui  occorre valutare l’opportunità di ricorrere alla demolizione e si deve comparare l’interesse pubblico al recupero dello status quo ante con il rispetto delle posizioni giuridiche soggettive del privato che aveva confidato incolpevolmente  nel provvedimento positivo rilasciatogli.

Pur ritenendo il secondo orientamento non condivisibile (appare francamente arduo svolgere una valutazione di "impossibilità" secondo parametri di "opportunità")  , si può affermare che, una volta circoscritto il primo requisito ex art. 38 all'ipotesi dei soli vizi "procedurali", appare, in una prospettiva di bilanciamento dei contrapposti interessi, "accettabile" che, in presenza di titolo illegittimo per ragioni formali, la PA possa svolgere valutazioni anche di "opportunità".

Insomma, la soluzione restrittiva offerta da Ad. Plen. 17/2020, anche se non affronta direttamente il tema (controverso) della "indemolibilità" ex art. 38 ne "sdrammatizza", indirettamente la rilevanza.

 


Inibizione della SCIA: il termine ex art. 19 L. 241/90 è perentorio (e con il D.L. semplificazioni "di più"?)

L'art. 19, co. 3  L. 241/90 prevede che, ricevuta una SCIA, la P.A. possa provvedere alla sua "inibizione" entro il termine di 60 giorni (o 30 in caso di SCIA edilizia in base al co. 6-bis).

Sempre più la giurisprudenza si è orientata nel ritenere che tale termine sia perentorio e che, quindi, superato lo stesso residui solo la possibilità di intervenire in presenza dei requisiti per l'autotutela di cui all'art. 21-nonies L. 241/90.

Così, ad esempio, con la recente sentenza del TAR Lazio, Sez. II-bis, 18.8.2020. n. 9248, il giudice amministrativo ha ritenuto violativo dell'art. 19, co. 6-bis il provvedimento con cui Roma Capitale, ricevuta una SCIA per un intervento di rigenerazione urbana ex L.R. 7/2017, ha inibito la stessa oltre il termine di 30 giorni.

In particolare, il TAR ha rilevato l'illegittimità del provvedimento di inibizione della SCIA adottato "dopo aver fatto scadere invano il termine di 30 giorni stabilito dalla legge per rilevare la carenza dei requisiti e dei presupposti per l’integrazione della fattispecie di cui alla SCIA presentata per il cambio di destinazione, abbia solo tardivamente ingiunto ai ricorrenti di non effettuare i lavori (peraltro già terminati), pretendendo di comunicare loro anche la mancanza di efficacia del titolo comunque formatosi e l’archiviazione dell’intera pratica, senza aver in alcun modo dato inizio ad un procedimento di “autotutela”, e senza alcun avviso, necessario, invece, nel caso de quo".

La regola, ormai pacifica in giurisprudenza, è peraltro stata anche "rinforzata" dal D.L. semplificazioni (in corso di conversione in questi giorni), laddove, è stato introdotto il nuovo co. 8-bis dell'art. 2 della L. 241/90, in base al quale:

(....)  i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell'attivita' e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all'articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall'articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni.";

A prima lettura - ed al netto di quanto potrà accadere in sede di conversione in legge del D.L. semplificazioni - la norma suscita l'interrogativo circa la automaticità, o meno, della sanzione di inefficacia: in particolare, si pone, in astratto, l'interrogativo se, ricevuta un provvedimento "tardivo" della PA, di inibizione di una SCIA, il privato possa considerare lo stesso come non produttivo di effetti e, ad esempio, contestare l'atto inibitorio tardivo anche oltre i 60 giorni (termine per ricorrere al TAR) in sede di impugnazione dell'eventuale provvedimento ripristinatorio adottato sulla base dell'atto "inefficace" stesso.

Ovviamente, nell'incertezza della norma e dei suoi effetti, l'approccio migliore è sempre quello prudenziale, che suggerisce una "normale" impugnativa del provvedimento inibitorio adottato oltre i termini ex art. 19, co. 3 e 6-bis L. 241/90, ciò con la consapevolezza (ed il vantaggio, per il privato) di una ancor più rafforzata tutela (costituita dalla espressa sanzione di "inefficacia") a fronte di atti inibitori tardivi.