soccorso

Soccorso istruttorio negli appalti PNRR: l’errata indicazione dei servizi di punta non è soccorribile

soccorsoCon una recente sentenza, il TAR Lazio ha ribadito l’inapplicabilità del soccorso istruttorio nel caso in cui l’operatore economico commetta un errore in merito all’indicazione dei servizi di punta. La sentenza è degna di nota anche perché valorizza il principio di autoresponsabilità con particolare riferimento agli appalti PNRR.

Al fine di comprendere la posizione assunta dal TAR, è necessario osservare i peculiari connotati della gara in contestazione.

Si trattava, infatti, di un accordo quadro per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana e di rivitalizzazione economica e, dunque, per la realizzazione di infrastrutture legate ai Piani Urbanistici Integrati, in attuazione del PNRR.

La gara era altresì suddivisa in sei lotti geografici in base alla dislocazione territoriale dei singoli interventi da realizzare. All’interno di ciascun lotto erano istituiti, a sua volta, cinque distinti sub-lotti prestazionali - raggruppati diversamente in base al tipo di prestazione richiesta, localizzazione, vincoli temporali e valore – all’interno dei quali sono individuati i c.d. “cluster”.

Il disciplinare di gara disponeva che per determinare i possibili aggiudicatari di ogni singolo lotto “si procederà allo scorrimento della graduatoria assegnando i cluster da quello che ha il valore più alto a quello che ha il valore più basso”, valore determinabile tenendo conto di vari fattori, tra cui i “servizi di punta”, che devono complessivamente raggiungere almeno lo 0,40% dell’importo complessivo del cluster.

La ricorrente risultava assegnataria di un cluster dal valore più basso rispetto a quello per cui sarebbe dovuta risultare aggiudicataria, in ragione dei requisiti posseduti. La mancata assegnazione del cluster di importo più elevato era stata causata da un errore commesso dalla società, che aveva dichiarato di possedere “servizi di punta” per un valore complessivo minore a quello reale, effettuando un calcolo numerico sbagliato, basato sul valore prestazione del servizio reso e non su quello di ciascuna classe a cui il servizio si riferisce.

L’errore commesso dalla società aveva dunque precluso alla stessa l’assegnazione del cluster di maggior valore, sebbene avesse tutti i requisiti per risultare utilmente aggiudicataria.

All’atto dell’aggiudicazione del cluster di minor valore, la ricorrente inoltrava alla stazione appaltante un’istanza di annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione e chiedeva una rimodulazione delle operazioni di assegnazione del cluster di maggior importo, in quanto le dichiarazioni dei requisiti dalla stessa effettuati era affetta da mero errore materiale.

La stazione appaltante respingeva tale istanza, osservando che l’errore dell’istante non era soggetta al soccorso istruttorio in quanto non oggettivamente riconoscibile in corso di gara. Inoltre, la modifica in autotutela della ripartizione dei cluster avrebbe determinato una gravissima violazione del principio della par condicio.

L’istante decide quindi di presentare ricorso, lamentando di essere stata penalizzata in sede di ripartizione dei cluster e che l’attivazione, da parte della stazione appaltante, del soccorso istruttorio avrebbe sanato il “mero errore materiale” commesso dalla stessa in sede di predisposizione della documentazione amministrativa.

Secondo la ricorrente, essere era stata indotta in errore dalla scarsa chiarezza degli atti di gara ed in specie da un disciplinare definito “impervio”, che non avrebbe specificato “in cosa consistesse il valore del servizio, vale a dire riferito alla prestazione fatturata del professionista o al valore dell’opera cui il servizio si riferisce”.

Il TAR Lazio ha ritenuto infondata la censura.

Secondo i giudici, il soccorso istruttorio viene autorizzato dalla stazione appaltante in caso di errori formali o aspetti meritevoli di approfondimento. Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, “sono rettificabili eventuali errori di scritturazione e di calcolo, ma sempre a condizione che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza, e comunque senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima o a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerta” (Cons. St., Sez. V, 9.12.2020, n. 7752).

In altre parole, spiegano i giudici, “affinché possa pretendersi dalla parte pubblica l’attivazione del soccorso istruttorio è necessario, anche alla luce dei principi sopra richiamati, che gli errori formali commessi dagli operatori economici siano oggettivamente “riconoscibili””.

Nel caso di specie, invece, dalla lettura del DGUE e della documentazione della gara non era rinvenibile nessun elemento o indizio tale da far presumere l’esistenza di un errore in merito all’indicazione “dei servizi di punta” da parte del ricorrente.

Secondo il Collegio, infatti, sarebbe bastata una lettura del bando meticolosa da parte dell’operatore per rendersi conto che l’importo minimo dei “servizi di punta” per l’assegnazione dei cluster era da riferirsi al fatturato dei “servizi di punta” di ogni concorrente, e non del fatturato maturato per quelle prestazioni.

I principi di par condicio tra i concorrenti, buon andamento e speditezza della gara escludono, dunque, a parere del Collegio, che sussista in capo alle stazioni appaltanti l’onere di avviare una “caccia all’errore” su tutte le dichiarazioni fornite dai concorrenti.

L’errore del ricorrente, quindi, è dettato da una superficiale lettura della lex specialis e ad un mancato approfondimento del quadro normativo di riferimento.

Degna di nota è l’ulteriore motivazione offerta dai giudici nel valorizzare l’autoresponsabilità e diligenza dei concorrenti, propria della gara di specie.

Secondo i giudici, infatti, ”la scelta dell’Amministrazione di non attivare il soccorso istruttorio si rivela coerente con i principi di autoresponsabilità e par condicio e con il principio di speditezza delle gare, il quale assume una particolare pregnanza nelle gare finalizzate all’attuazione di obiettivi finanziati da PNRR.

TAR Lazio, Roma, Sez. IV, 30.5.2023, n. 9149


NCC e Taxi: dalla Corte di Giustizia uno stop chiaro al contingentamento delle licenze.

In tema di servizio di trasporto pubblico non di linea, una delle questioni più discusse e delicate è quella del contingentamento delle licenze. Il tema, come è noto, non è oggetto di riflessione esclusivamente "giuridica" ma anche economica (note sono le proposte di liberalizzazione delle licenze Taxi, come ad esempio quelle illustrate dall'Istituto Bruno Leoni).

La più volte abbozzata, discussa e preannunciata riforma della "Legge quadro" n. 21/92 è ancora arenata e si trascina di legislatura in legislatura.

Un importante input perviene però, sul tema del contingentamento delle licenze, dalla Corte di Giustizia, con la sentenza della I Sezione 8.6.2023 in C.50/21.

I. Il caso sottoposto alla CGUE: il contingentamento licenze NCC a Barcellona.

In virtù dell'articolata disciplina nazionale e locale (catalana),  è determinata "la limitazione del numero di licenze di servizi di NCC a un trentesimo delle licenze di servizi di taxi" nel territorio dell'agglomerato urbano di Barcellona.

Il Tribunal Superior de justicia de Cataluña, a fronte di tale restrizione nell'accesso al mercato NCC, ha quindi sottoposto alla CGUE il quesito "Se [l’articolo] 49 e [l’articolo] 107, paragrafo 1, TFUE ostino a disposizioni nazionali – legislative e regolamentari – che, senza alcuna ragione plausibile, limitano le autorizzazioni NCC a una ogni trenta licenze di taxi o meno".

Il tema, quindi, ruota sulle restrizioni alla liberta di stabilimento ai sensi dell'art. 49 TFUE che, ricorda la stessa CGUE nell'inquadramento giuridico della vicenda, "possono essere ammesse solo a condizione, in primo luogo, di essere giustificate da un motivo imperativo di interesse generale e, in secondo luogo, di rispettare il principio di proporzionalità, il che implica che esse siano idonee a garantire, in modo coerente e sistematico, la realizzazione dell’obiettivo perseguito e non eccedano quanto necessario per conseguirlo (sentenza del 7 settembre 2022, Cilevičs e a., C‑391/20, EU:C:2022:638, punto 65 nonché giurisprudenza ivi citata)".

Le ragioni imperative di interesse generale illustrate dalle Autorità spagnole dinanzi alla CGUE consistono nell'obiettivo di garantire "la qualità, la sicurezza e l’accessibilità dei servizi di taxi nell’agglomerato urbano di Barcellona, considerati come un «servizio di interesse generale», in particolare mantenendo un «equilibrio adeguato» tra il numero dei prestatori di servizi di taxi e quello dei prestatori di servizi di NCC, poi, una corretta gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico all’interno di tale agglomerato urbano e, infine, la protezione dell’ambiente in detto agglomerato".

In particolare, il contingentamento operante a Barcellona mirerebbe a proteggere la sostenibilità economica del servizio Taxi (soggetto ad obblighi di servizio universale e tariffe regolate) a fronte della concorrenza derivante dai prestatori di servizio NCC (p.ti 65-67 sentenza)

II. Le valutazioni della CGUE: la sostenibilità economica del servizio Taxi è inidonea a giustificare la misura protezionistica in danno degli NCC.

La Corte evidenzia, quale premessa generale e fondamentale, che "obiettivi di natura puramente economica non possono costituire un motivo imperativo di interesse generale idoneo a giustificare una limitazione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato (sentenze dell’11 marzo 2010, Attanasio Group, C‑384/08, EU:C:2010:133, punto 55, e del 24 marzo 2011, Commissione/Spagna, C‑400/08, EU:C:2011:172, punto 74 nonché giurisprudenza ivi citata). La Corte ha segnatamente dichiarato, in tal senso, che l’obiettivo di garantire la redditività di una linea d’autobus concorrente, quale motivo di natura puramente economica, non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (sentenza del 22 dicembre 2010, Yellow Cab Verkehrsbetrieb, C‑338/09, EU:C:2010:814, punto 51)".

Data tale premessa - pienamente in linea con precedenti arresti della medesima CGUE - si afferma conseguentemente che "l'obiettivo di garantire la praticabilità economica dei servizi di taxi deve essere considerato, anch’esso, un motivo di natura puramente economica che non può costituire un motivo imperativo di interesse generale (...)".

Un ulteriore ed importante passaggio della sentenza attiene alla qualificazione del servizio di Taxi quale "servizio di interesse economico generale" (c.d. SIEG).

Le Autorità spagnole avevano, infatti, cercato di giustificare la misura protezionistica in ragione del fatto che ai prestatori del servizio Taxi è affidato un SIEG.

Al riguardo la CGUE contrappone due ordini di rilievi.

Da un primo punto di vista la Corte mette in discussione la sussistenza di una così pregnante normativa pubblicistica (in punto di obblighi di servizio pubblico), atteso che " un servizio può rivestire un interesse economico generale quando detto interesse presenti caratteri specifici rispetto a quello di altre attività della vita economica" e che "dunque che le imprese beneficiarie siano state effettivamente incaricate dell’adempimento di obblighi di servizio pubblico e che tali obblighi siano chiaramente definiti nel diritto nazionale, il che presuppone l’esistenza di uno o più atti di esercizio del potere pubblico che definiscano in maniera sufficientemente precisa almeno la natura, la durata e la portata degli obblighi di servizio pubblico gravanti sulle imprese incaricate dell’adempimento di tali obblighi". 

Un secondo ordine di considerazioni attiene al rilievo che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 106 TFUE, le imprese incaricate di un SIEG sono comunque soggette alle regole di concorrenza potendosi derogare alle stesse solo laddove sia dimostrato che queste si pongano come un ostacolo all'adempimento del servizio di interesse economico generale.

La questione si sposta, quindi, sulla valutazione circa la proporzionalità delle misure adottate a tutela dei prestatori del servizio Taxi in danno dei prestatori del servizio NCC.

La Corte perviene alla conclusione che il contingentamento del servizio NCC non è idoneo a perseguire i dichiarati obiettivi di "gestione del trasporto, del traffico e dello spazio pubblico nonché di protezione dell’ambiente" e ciò in ragione dell'avvenuta dimostrazione del fatto che  (i) i servizi di NCC riducono il ricorso all’automobile privata; (ii) non determinano interferenze circa l'occupazione della viabilità pubblica (essendo precluso agli NCC lo stazionamento); (iii) sono caratterizzati da digitalizzazione e flessibilità; (iv) in base alla normativa statale è incentivata una flotta che adopera energie alternative.

Inoltre, sottolinea la conclusivamente la CGUE, in ogni caso il perseguimento di finalità di interesse generale (che non possono comunque coincidere con scopi meramente economici)  legate a talune forme di protezione dei prestatori del servizio Taxi ben potrebbe essere perseguita con misure meno invasive rispetto al contingentamento del numero delle licenze, previsione, quest'ultima, in ogni caso violativa del principio di proporzionalità.

III. I possibili impatti sul diritto interno.

La decisione è di sicuro interesse poiché, enunciando il principio per il quale la misura del contingentamento - oggi vigente nel nostro ordinamento per il rilascio delle licenze Taxi - è da considerarsi in linea di principio anticompetitiva e comunque non giustificabile se non in relazione ad altri interessi pubblici imperativi (tra i quali è da escludere la mera protezione dei soggetti già autorizzati ed operanti), rafforza i dubbi di legittimità del sistema a numero chiuso operante in Italia.

Ma il principio enucleato dalla sentenza CGUE nel ribadire che ogni misura restrittiva della concorrenza (i) deve essere connessa a un motivo imperativo di interesse generale e (ii) deve essere rigorosamente vagliata alla luce del principio di ragionevolezza ed adeguatezza rispetto alle finalità pubbliche perseguite, porta all'attenzione del Legislatore (e, semmai, dei Giudici nazionali che dovessero essere aditi dai singoli operatori economici lesi dalle restrizioni normative e regolamentari), pare estensibile anche a numerose altre prescrizioni che si sostanziano di fatto in contingentamenti di vario genere discendenti dall'assetto, per molti aspetti ormai obsoleto, della Legge 21/92 (si pensi, ad esempio, al necessario riferimento della licenza ad un singolo veicolo).


concessione

Concessioni demaniali: la decadenza di una concessione non è un automatismo

concessioneCon sentenza 2 maggio 2023, n. 4413, la Sezione VII del Consiglio di Stato si è pronunciata con riguardo al potere esercitato dall'amministrazione di disporre la decadenza della concessione demaniale.

In particolare, i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sull’appello promosso dal beneficiario di una concessione demaniale marittima avverso la sentenza del TAR Calabria che aveva affermato la legittimità della determinazione del comune con cui era stata dichiarata la decadenza dal provvedimento favorevole.

Un comune calabrese, difatti, in applicazione dell’art. 47 cod. nav. - che sancisce il potere per le amministrazioni di dichiarare la decadenza di un concessionario al ricorrere di determinati presupposti - aveva ritenuto che fossero venuti meno i requisiti soggettivi necessari per assicurare e garantire l’uso corretto ed efficiente del bene pubblico concesso, dal momento che il concessionario era risultato inadempiente agli obblighi dedotti nella concessione.

In particolare, il concessionario: aveva mantenuto oltre il termine assegnato alcuni manufatti amovibili; aveva illegittimamente realizzato, senza titolo, talune opere sul suolo dello Stato; aveva infine disatteso le ordinanze di rimessione in pristino.

Ebbene, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la legittimità del provvedimento di decadenza della concessione demaniale marittima di cui l’appellante era concessionario.

L’aspetto più rilevante della sentenza è tuttavia il ragionamento ricognitivo che i giudici compiono nel tracciare il perimetro della discrezionalità che in tali procedimenti l’amministrazione esercita.

Nel dichiarare la decadenza da una concessione ex art. 47 comma 1 cod. nav., difatti, le amministrazioni esercitano un potere discrezionale, che consta di due fasi: in un primo momento, a monte, l’amministrazione deve verificare la sussistenza dei presupposti normativamente previsti per l’esercizio del suo potere, applicando una regola tecnica suscettibile di apprezzamenti opinabili (discrezionalità tecnica); in un secondo tempo, a valle, l’amministrazione è chiamata ad operare una scelta di opportunità tra le diverse modalità di esercizio del potere (discrezionalità pura).

In altre parole, anche quando viene ravvisata la sussistenza di uno dei presupposti di cui all’art. 47 cod. nav., ossia un inadempimento del concessionario, l’Amministrazione competente non è obbligata a dichiarare la decadenza dalla concessione, ma è tenuta a ponderare tutti gli interessi coinvolti e a verificare la sussistenza dei presupposti di un’eventuale proficua prosecuzione del rapporto concessorio, avuto riguardo alla gravità caratterizzante l’inadempimento del concessionario.

In tal senso, dunque, militerebbe - secondo i giudici - la stessa formulazione dell’art. 47 comma 1 cod. nav., nella parte in cui afferma che l’amministrazione “può” e non “deve” dichiarare la decadenza. La ponderazione tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti effettuata dall’amministrazione sfugge tuttavia al sindacato giurisdizionale, “se non per eccesso di potere dipendente da manifesta contraddittorietà, illogicità, irragionevolezza o sproporzionalità della decisione”.

Il comune, infatti, deve valutare volta per volta, nel caso concreto, la gravità dell’inadempimento del concessionario, alla stregua delle regole previste dagli artt. 1453 e 1455 c.c. in materia di contratti a prestazioni corrispettive, secondo cui l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza: non ogni inadempimento, perciò, giustifica l’automatica decadenza dalla concessione.

Osservando il rapporto di durata che si determina nell’ambito delle concessioni demaniali, in effetti, queste presentano significative analogie con i contratti di locazione e da questi ultimi si differenziano per la natura demaniale del bene concesso.

Spiegano i giudici che “La concessione di beni demaniali, infatti, è un atto complesso bilaterale preordinato a garantire, a talune condizioni, il godimento del bene ad un unico soggetto, con contestuale estromissione di tutti gli altri, nella prospettiva di assicurare il miglior soddisfacimento di predeterminate finalità pubblicistiche”.

Data la particolare natura del bene concesso, pertanto, per dichiarare la decadenza dalla concessione occorre considerare che l’interesse perseguito dall’amministrazione concedente non si esaurisce nella sola riscossione dei canoni demaniali pattuiti, “comprendendo anche e soprattutto il soddisfacimento delle finalità pubblicistiche perseguite con la concessione”. Per questo, ad assumere rilievo sono le inadempienze del concessionario tali da compromettere significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero da rendere inattuabili gli scopi sottesi al rilascio della concessione.

Ricordano i giudici, infatti, che secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato “l’inadempimento che, ai sensi dell'art. 47 cod. nav., può dar luogo alla decadenza del titolo «deve essere di una certa consistenza» e gli elementi probatori della sussistenza di un'effettiva inadempienza rispetto agli obblighi nascenti dal titolo, «devono essere inequivoci, precisi e concordanti». L'Amministrazione concedente, «in osservanza del principio di gradualità e di proporzionalità nell'applicazione del provvedimento lato sensu sanzionatorio, può diffidare il concessionario dal perseverare in comportamenti violativi degli obblighi, facendo luogo al ritiro del titolo concessorio in occasione dell'accertata reiterazione del comportamento inadempiente» (così C.d.S., Sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232)”.

Ai fini della definitiva pronuncia di decadenza della concessione, dunque, per ravvisare l’inadempienza degli obblighi derivanti dalla concessione o imposti da norme di legge o di regolamento, “assumono rilievo le inadempienze del concessionario che compromettano significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero rendano inattuabili gli scopi per i quali la concessione stessa è stata rilasciata (v. Consiglio di Stato, sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232; 23 maggio 2011, n. 3046)”.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, alcune delle opere realizzate senza autorizzazione, e non prontamente rimosse, avevano determinato un parziale mutamento della destinazione prevista del bene demaniale concesso in uso da semplice stabilimento balneare a ulteriore area ristoro, essendo stata realizzata una pizzeria ed un’area ristorante non contemplati nell’originario provvedimento concessorio. Allo stesso tempo alcuna autorizzazione ad un siffatto mutamento, o comunque ampliamento di scopo, poteva essere rinvenuta nel rilascio dei titoli edilizi per la realizzazione delle opere stesse. Non poteva neanche dirsi sufficiente, al fine di scongiurare la decadenza, una postuma rimozione delle opere amovibili, tanto più che da questo punto di vista la condotta del concessionario era stata più volte inadempiente, avendo disatteso più ordinanze di sgombero.

Infine, il Consiglio di Stato ha precisato che, nel caso di specie, l’effetto della decadenza non poteva essere evitato neppure dalla presentazione di un’istanza per l’estensione della concessione, da stagionale ad annuale, presentata dal concessionario, né dalla presentazione di una domanda di sanatoria delle opere abusive. In particolare, con riguardo all’istanza per l’estensione della concessione, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come non sia possibile il consolidarsi di un simile provvedimento secondo il meccanismo del silenzio-assenso, dal momento che la variazione di un provvedimento concessorio, al pari del suo rilascio, richiede ancora una volta una valutazione discrezionale della sua compatibilità con le esigenze del pubblico uso (cfr. art. 36 e 37 cod. nav.).

Cons. St., Sez. VII, 2.5.2023, n. 4413


soccorso

Appalti pubblici. Soccorso procedimentale: la giurisprudenza trova spazio nel nuovo codice

soccorsoNel nuovo codice dei contratti pubblici il soccorso istruttorio trova finalmente compiuta disciplina in un articolo ad hoc: il d.lgs. 50/2016, infatti, lo disciplinava nel solo comma 9 dell’art. 83, mentre ad oggi la disciplina dell’istituto è contenuta nell’art. 101 (rubricato, per l’appunto, “Soccorso istruttorio”).

Nell'articolo dedicato al soccorso istruttorio viene disciplinato anche il c.d. soccorso procedimentale. Tra le novità contenute nella disposizione, infatti, il comma 3 prevede che:

La stazione appaltante può sempre richiedere chiarimenti sui contenuti dell’offerta tecnica e dell’offerta economica e su ogni loro allegato. L’operatore economico è tenuto a fornire risposta nel termine fissato dalla stazione appaltante, che non può essere inferiore a cinque giorni e superiore a dieci giorni. I chiarimenti resi dall’operatore economico non possono modificare il contenuto dell’offerta tecnica e dell’offerta economica”.

Il soccorso procedimentale può essere attivato per consentire all’operatore partecipante ad una procedura di appalto di fornire chiarimenti nel caso in cui parti dell’offerta tecnica e/o economica presentata non siano di agevole comprensione.

L’istituto nasce in verità tra la prassi e la giurisprudenza: il precedente codice del 2016 non conteneva una vera e propria disciplina, che restava contenuta nelle sentenze dei giudici amministrativi che sul punto venivano chiamati ad esprimersi (ne ho parlato  diffusamente anche nel mio libro dedicato al soccorso istruttorio).

Anche la giurisprudenza amministrativa più recente è pressoché unanime nel ritenere che la stazione appaltante può attivare il soccorso procedimentale “per risolvere dubbi riguardanti gli elementi essenziali dell’offerta tecnica ed economica, tramite l’acquisizione di chiarimenti da parte del concorrente che non assumano carattere integrativo dell’offerta, ma siano finalizzati unicamente a consentirne l’esatta interpretazione e a ricercare l’effettiva volontà del concorrente, superandone le eventuali ambiguità” (TAR Emilia-Romagna, Bologna, Sez. I, 22.5.2023, n. 318).

In altri termini, nel caso in cui l’offerta tecnica o economica siano caratterizzate da profili di non intellegibilità (ossia ove il contenuto dell’offerta de qua sia caratterizzato da carenza o incertezza assoluta nei suoi elementi essenziali), si potrà attivare il soccorso procedimentale al fine di correggere “gli errori materiali inficianti l’offerta, a condizione che l’effettiva volontà negoziale dell’impresa partecipante alla gara sia individuabile in modo certo nell’offerta presentata, senza margini di opacità o ambiguità, così che si possa giungere a esiti univoci circa la portata dell’impegno ivi assunto” (così Cons. St., Sez. V, 9.1.2023, n. 290).

Il soccorso procedimentale (a differenza del soccorso istruttorio) potrà dunque essere impiegato per “richiedere al concorrente di fornire chiarimenti volti a consentire l’interpretazione della sua offerta e a ricercare l’effettiva volontà dell’offerente, superando le eventuali ambiguità dell’offerta, ciò fermo il divieto di integrazione dell’offerta, senza attingere a fonti di conoscenza estranee alla stessa e a condizione di giungere a esiti certi circa la portata dell’impegno negoziale con essa assunta” (Cons. St., n. 290/2023 cit.).

Sono ammissibili, dunque, quei chiarimenti finalizzati a ricercare “la volontà negoziale dalla stessa offerta e non ab externo o tramite la produzione di nuovi documenti” (Cons. St., Sez. V, 26.5.2023, n. 5205).

L’ammissibilità del soccorso procedimentale nei termini qui descritti è, peraltro, pienamente conforme all’indirizzo espresso dalla Corte di giustizia UE, la quale (sia pur in tema di soccorso istruttorio in caso di riscontrate carenze dell’offerta tecnica) ha evidenziato come “una richiesta di chiarimenti non può ovviare alla mancanza di un documento o di un’informazione la cui comunicazione era richiesta dai documenti dell’appalto, se non nel caso in cui essi siano indispensabili per chiarimento dell’offerta o rettifica di un errore manifesto dell’offerta e sempre che non comportino modifiche tali da costituire, in realtà, una nuova offerta” (CGUE, Sez. VIII, 10.5.2017, C-131/16).

L’attuale formulazione del soccorso procedimentale contenuta nell’art. 101, comma 3 del Codice è dunque il frutto del lavoro svolto dalla giurisprudenza, che nel corso del tempo ha contribuito a tracciare il perimetro di applicazione dell’istituto.

Fermo restando il principio di immodificabilità dell’offerta, dunque, la stazione appaltante potrà sempre chiedere dei chiarimenti sui contenuti dell’offerta presentata dai concorrenti.

Cons. St., Sez. V, 26.5.2023, n. 5205

TAR Emilia-Romagna Bologna, Sez. I, 22.5.2023, n. 318

Cons. St., Sez. V, 9.1.2023, n. 290


sharing

Micro-mobilità in sharing: non si applica il codice dei contratti pubblici

sharingIn tema di affidamento dei servizi di micro-mobilità in sharing, la confusione tra i comuni in ordine alle modalità con cui affidare tali tipologie di servizi regna sovrana. In assenza di una espressa previsione normativa, infatti, il dubbio è il seguente: per l’affidamento dei servizi di micro-mobilità in sharing si applica il codice degli appalti pubblici?

Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 maggio 2023, si è di recente pronunciato sul punto, precisando che la procedura comparativa per l’assegnazione del servizio di monopattini elettrici in sharing non ha né natura concessoria, né rappresenta un appalto di servizi, sicché non risulta applicabile la disciplina del Codice dei Contratti Pubblici.

La pronuncia trae origine da una procedura indetta dal Comune di Verona per l’individuazione di operatori interessati a svolgere il servizio di noleggio di monopattini elettrici con sistema di free floating sul territorio comunale.

Nell’individuazione dei requisiti di partecipazione, il bando poneva un espresso rinvio ai requisiti di ordine generale previsti dall’art. 80 del d.lgs. 50/2016. Veniva altresì individuato un numero massimo di operatori economici abilitati a svolgere il servizio (pari a 3) , ognuno dei quali poteva proporre un numero di monopattini non inferiore a 300 e non superiore a 400.

La procedura aveva visto la partecipazione di 12 operatori economici, di cui 3 erano risultati regolari vincitori. L’amministrazione aveva approvato la graduatoria, autorizzando le prime tre classificate a presentare una SCIA per l’avvio del servizio di noleggio.

Uno degli operatori partecipanti, non risultato vincitore, aveva impugnato gli atti della procedura comparativa innanzi al TAR Veneto, avanzando numerose censure relative alla presunta violazione delle norme del Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016)

Con sentenza n. 476/2022 il TAR Veneto aveva tuttavia respinto il ricorso ritenendo infondate tutte le censure proposte (nello stesso senso si veda TAR Veneto n. 477/2022 di cui abbiamo parlato in questa news). A parere dei giudici di primo grado, la procedura in esame non poteva essere ricondotta “né a un appalto né a una concessione di servizi e nemmeno rientra nell’ambito di applicazione del d.lgs. n. 50 del 2016”.

Secondo i giudici, infatti, una procedura di evidenza pubblica si era resa necessaria, nel caso di specie, in attuazione dell’art. 16 del d.lgs. 59/2010 (attuativo dell’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE, c.d. direttiva Bolkenstein), il quale prevede espressamente che ove il numero di autorizzazioni per una data attività sia limitato per ragioni legate alle risorse naturali o alle capacità tecniche disponibili sul mercato, le Amministrazioni applicano comunque una procedura di selezione dei candidati, mediante la predeterminazione e la pubblicazione dei criteri e delle modalità di individuazione, in modo da poter assicurare l’imparzialità.

Nel caso di specie, dunque, la procedura ad evidenza pubblica era giustificata dal numero limitato di monopattini che poteva essere introdotto nel territorio comunale e quindi dalla natura ristretta del mercato di riferimento.

Sotto altro aspetto, il TAR aveva precisato che nella documentazione di gara non si rinveniva alcun auto-vincolo, da parte del Comune, rispetto alle disposizioni del Codice dei contratti pubblici (tant’è che ove l’avviso aveva inteso applicare una disposizione del d.lgs. 50/2016, come nel caso dell’art. 80, lo aveva fatto con una prescrizione specifica), né era possibile attribuire al Codice dei contratti pubblici portata auto-applicativa: “al di fuori dell’ambito di applicazione del Codice e delle c.d. Direttive appalti trovano applicazione, non le singole disposizioni del d.lgs. n. 50 del 2016, ma solo i principi generali – nazionali e unionali – di non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, mutuo riconoscimento e proporzionalità, principi tutti che richiedono la predeterminazione dei criteri e delle modalità di selezione dei candidati”.

La sentenza è stata impugnata dall’appellante che, nel riporre i motivi di ricorso già esposti in primo grado, ha sostanzialmente contestato la sentenza nella parte in cui non ha ritenuto applicabile alla procedura in questione le norme del Codice dei contratti pubblici.

Il Consiglio di Stato ha condiviso l’orientamento esposto dalla sentenza di primo grado.

Il ragionamento seguito dai giudici parte tuttavia da una ricognizione della disciplina del servizio di noleggio dei monopattini elettrici. Questa è contenuta nell’art. 1, comma 75-ter e ss. della legge 190/2019, in cui si stabilisce che per lo svolgimento del servizio di noleggio dei monopattini elettrici è necessario il rilascio di un titolo autorizzativo e il numero di atti che possono essere rilasciati è contingentato.

Tali aspetti rendono evidente, secondo i giudici, l’applicazione dell’art. 16 del d.lgs. 59/2010 all’affidamento di tali tipologie di servizi.

Osservano i giudici che la gestione del noleggio di monopattini in modalità free floating è una  attività da esercitarsi in regime di libero mercato, soggetta ad atti autorizzatori amministrativi. E’ dunque in ragione delle peculiarità del settore e della sua normativa che i giudici hanno confermato che ““nel caso in cui - per il contingentamento del numero di titoli disponibili - il rilascio delle autorizzazioni avvenga all'esito di una procedura comparativa tra gli interessati, non oggetto di specifica disciplina normativa, le regole proprie di un ordinario procedimento di autorizzazione devono essere declinate in rigoroso rispetto dei criteri di imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità e pubblicità cui ogni procedura selettiva deve conformarsi per dirsi conforme ai principi costituzionali dell'azione amministrativa (così come accade, ad esempio, per le procedure dirette a selezionare i concessionari di finanziamenti pubblici, sulle quali cfr. Cons. Stato, sez. V, 7 gennaio 2021, n. 208; V, 29 gennaio 2020, n. 727).”.

Il Collegio ha così confermato la legittimità della procedura comparativa realizzata dall’amministrazione comunale per l’individuazione degli operatori economici da autorizzare per esercitare il servizio di sharing su territorio comunale, escludendo l’applicabilità del Codice dei contratti pubblici, e confermato le argomentazioni del TAR prime cure.

La sentenza in parola contribuisce così a dare certezza non solo alla normativa applicabile nel settore dei monopattini in sharing, ma anche a rendere più chiare quali regole possono veicolare l’accesso al mercato per gli operatori dei servizi di sharing mobility.

Cons. St., Sez. VII, 2.5.2023, n. 4368


gara

Appalti pubblici: il malfunzionamento della piattaforma di e-procurement può comportare la riedizione della gara

garaCon sentenza 4 aprile 2023, n. 3452, la sezione V del Consiglio di Stato si è pronunciata in merito alla possibilità di annullare una gara e riordinarne la riedizione, nel caso in cui la piattaforma informatica utilizzata per la presentazione delle offerte abbia avuto dei malfunzionamenti.

Il tema è certamente di rilievo anche in considerazione dell’entrata in vigore del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023) che, come noto, impone una forte accelerazione alla digitalizzazione delle procedure di gara, spingendosi finanche all’esecuzione.

La sentenza oggetto di appello era stata resa dal TAR Campania a seguito del ricorso presentato da una società che, a causa di un malfunzionamento del sistema MePA, non era riuscita a perfezionare l’inoltro della documentazione per partecipare alla gara.

A seguito dell’istruttoria ordinata dal giudice e condotta da Consip, risultava che nel sistema informatico si era realizzato un “malfunzionamento generalizzato riguardante il caricamento di file […] imputabile a problemi infrastrutturali”, sicché il TAR aveva ritenuto di procedere all’annullamento della gara, affermando la necessità di procedere alla riedizione della stessa, essendosi verificato un evento che aveva sottratto alla società ricorrente la possibilità di partecipare alla gara.

Il Consiglio di Stato, in sede d’appello, ha confermato siffatta conclusione.

La società ricorrente, infatti, aveva ampiamente dedotto di non essere riuscita ad inserire la propria domanda di partecipazione nella piattaforma telematica.

Secondo i giudici, infatti, il solo fatto che una società avesse voluto presentare una domanda di partecipazione con la relativa documentazione, a prescindere dalle valutazioni sulla bontà dell’offerta, costituisce ragione sufficiente per procedere all’annullamento della precedente aggiudicazione e, dunque, alla riedizione della procedura competitiva.

La rinnovazione della gara – proseguono i giudici di Palazzo Spada – non rappresenta una forma di risarcimento in forma specifica a favore della società pregiudicata dal malfunzionamento, quanto piuttosto una “conseguenza conformativa della caducazione degli atti impugnati a causa del malfunzionamento della piattaforma telematica di presentazione delle offerte”: quando vengono annullate le operazioni di gara, spiegano i giudici, al fine di ammettere i concorresti rimasti esclusi o coloro a cui è rimasta impedita la partecipazione, l’esigenza di tutelare la segretezza delle offerte e la par condicio dei concorrenti impone di procedere alla rinnovazione della intera gara, specie qualora le offerte siano già state rese note e valutate secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa.

Nel caso di specie, la rinnovazione della gara rappresenta peraltro, a parere dei giudici, il rimedio più congruo, non avendo la stazione appaltante proceduto, ai sensi dell’art. 79, comma 5-bis del d.lgs. 50/2016, alla sospensione o proroga del termine per la presentazione dell’offerta.

L’art. 79, comma 5-bis del Codice del 2016, infatti, prevede che nel caso di utilizzo delle piattaforme telematiche per la gestione della gara, “qualora si verifichi un mancato funzionamento o un malfunzionamento di tali mezzi tale da impedire la corretta presentazione delle offerte, la stazione appaltante adotta i necessari provvedimenti al fine di assicurare la regolarità della procedura nel rispetto dei principi di cui all'articolo 30, anche disponendo la sospensione del termine per la ricezione delle offerte per il periodo di tempo necessario a ripristinare il normale funzionamento dei mezzi e la proroga dello stesso per una durata proporzionale alla gravità del mancato funzionamento. Nei casi di sospensione e proroga di cui al primo periodo, la stazione appaltante assicura che, fino alla scadenza del termine prorogato, venga mantenuta la segretezza delle offerte inviate e sia consentito agli operatori economici che hanno già inviato l'offerta di ritirarla ed eventualmente sostituirla.”.

Si legge nella sentenza, infatti, che sebbene la lex specialis prevedesse l’esonero dell’ente comunale da eventi estranei alla propria sfera di conoscibilità e dovuti a responsabilità altrui, come quelli del sistema MePA, tali disposizioni non sono sufficienti ad escludere la responsabilità per la mancata osservanza, da parte della stazione appaltante, “di una regola imposta dalla legge, quale quella del citato art. 79, comma 5 bis”. E ciò, dunque, anche se la piattaforma è gestita da un soggetto terzo rispetto all’ente che procede all’affidamento. In un caso del genere, peraltro, secondo i giudici, non potrebbe invocarsi il principio di auto-responsabilità del concorrente: non era ragionevole esigere, infatti, che la società inoltrasse l’offerta nei tre minuti in cui il malfunzionamento non era stato rilevato, tanto più ove comprensibilmente la stessa aveva fatto affidamento su un arco temporale ben più ampio.

Sulla scorta di queste stesse argomentazioni, il Consiglio di Stato ha altresì chiarito che la decisione della commissione giudicatrice di proseguire nelle operazioni di gara nonostante il malfunzionamento doveva ritenersi illegittima; la stazione appaltante, piuttosto, avrebbe dovuto garantire la correttezza e la legittimità della procedura, dal momento che risultava provata una situazione impeditiva della presentazione delle offerte, così come richiesto dall’art. 79, comma 5-bis d.lgs. 50/2016.

Perciò, la stazione appaltante avrebbe dovuto disporre la proroga del termine “per una durata proporzionale alla gravità del mancato funzionamento”; non avendo provveduto in tal senso, dunque, la stazione appaltante aveva operato illegittimamente. Peraltro, rispetto alla possibilità di procedere alla riedizione della gara non poteva dirsi ostativa l’avvenuta scadenza del termine per l’erogazione di taluni finanziamenti, esulando siffatte valutazioni di convenienza economica e di opportunità dalla decisione dei giudici.

Cons. St., Sez. V, 4 aprile 2023, n. 3452


inviti

Appalti pubblici, procedura negoziata: legittimi gli inviti rivolti solo alle imprese di un dato territorio?

invitiA che condizioni è permesso, ad una stazione appaltante, circoscrivere, dal punto di vista territoriale, gli inviti rivolti alle imprese ad una procedura negoziata?

Vediamo la risposta fornita da una recente delibera dell’Autorità anticorruzione.

In una procedura negoziata ex art. 1, comma 2, lett. b) d.l. 76/2020, avente ad oggetto lavori di restauro, una specifica disposizione di lex specialis prevedeva che, delle dieci imprese invitate alla procedura, cinque dovessero avere sede legale in Valle d’Aosta. All’esito delle operazioni di gara, l’appalto veniva aggiudicato all’unico operatore – tra quelli invitati – avente sede legale nel territorio della regione Valle d’Aosta.

Ritenendo lesiva tale disposizione, uno dei partecipanti inoltrava atto di segnalazione all’ANAC. La previsione contestata sanciva che la selezione degli operatori da invitare alla predetta procedura negoziata sarebbe stata effettuata “tenendo conto della diversa dislocazione territoriale, nel rispetto dei seguenti criteri: - n. 5 operatori economici con sede legale in Valle d’Aosta; - n. 5 operatori economici con sede legale nel restante territorio nazionale e dell’Unione Europea”.

Tale previsione risultava, secondo il segnalante, restrittiva della concorrenza, in quanto riconosceva all’amministrazione procedente la facoltà di circoscrivere l’invito a presentare l’offerta, per metà degli operatori economici selezionati, ad imprese con sede legale nel territorio della regione Valle d’Aosta.

L’Autorità, nell’esaminare la questione ai sensi dell’art. 213, comma 3, d.lgs. 50/2016, statuisce, anzitutto, che la previsione di cui all’art. 1, comma 2, lett. b, del d.l. 76/2020, è norma di carattere emergenziale, che contiene “una disciplina derogatoria, temporalmente limitata (…) che (…) prevale sulla disciplina dei contratti sotto-soglia” (in questi termini, delibera ANAC 21.12.2021, n. 837). Tale disposizione, in altri termini, costituisce “la consapevole scelta del legislatore di privilegiare la finalità di maggiore celerità nella definizione delle procedure ad evidenza pubblica in favore della rapidità dell’erogazione delle risorse pubbliche per sostenere l’economica in un periodo emergenziale” (così, TAR Lazio Roma, Sez. III quater, 23.11.2022, n. 15643).

Ciò premesso, secondo l’ANAC, il contestato criterio della “diversa dislocazione territoriale” di cui all’art. 1, comma 2, lett. b) citato, sebbene derogatorio della normativa del codice dei contratti pubblici, sarebbe inciso ambiguo e di non agevole lettura. Detto criterio, più nello specifico, deve essere rispettato in maniera rigorosa, in particolare nei casi in cui le stazioni appaltanti operino restrizioni della platea dei concorrenti (ciò al fine di evitare che vengano invitate unicamente imprese dello stesso territorio e, segnatamente, imprese locali).

Un eventuale impiego distorto del criterio in parola, infatti, porterebbe alla inammissibile conseguenza di una non accettabile chiusura del mercato verso l’esterno (ossia favorendo unicamente imprese del territorio, come accaduto nel caso in commento). Introdurre limitazioni di natura territoriale, in altre parole, potrebbe, infatti, produrre “effetti discriminatori che (…) la giurisprudenza e l’ANAC censurano in quanto lesivi dei principi di uguaglianza, non discriminazione, parità di trattamento, concorrenza” (v. nota Presidente ANAC, prot. n. 63825 del 3.8.2022).

Ne deriva, dunque, che, come osservato dal Ministero delle infrastrutture, “la stazione appaltante dovrà evitare la concentrazione territoriale degli inviti, che potrebbe dar luogo ad una chiusura del mercato, in contrasto con i principi comunitari di parità di trattamento e di non discriminazione richiamati dallo stesso disposto di cui all’art. 1 del D.L. 76/2020, i quali vietano ogni discriminazione dei concorrenti in base all’elemento territoriale”  (in questi termini, parere MIMS, 13.11.2020, n. 790).

In conclusione, l’ANAC osserva che, in linea di principio,  è ben possibile per l’amministrazione formulare gli inviti ad una procedura di gara ricorrendo al criterio contestato (a condizione che tale decisione sia “specificatamente motivata nell’avviso pubblico di manifestazione di interesse”). Nel caso di specie, tuttavia, la scelta operata dall’amministrazione non è legittima, sicché meritano conferma “i profili di anomalia prospettati nella segnalazione (…) non risultando motivata la scelta (…) di circoscrivere la metà degli inviti a presentare offerta alle ditte aventi sede legale nella regione Valle d’Aosta, tenuto conto che il criterio della diversa dislocazione territoriale (…) non deve dunque essere discriminante per gli operatori economici né condurre ad improprie ed ingiustificate restrizioni per la concorrenza”.

ANAC, Atto del Presidente, 12.5.2023


Il principio del risultato negli appalti pubblici: il (difficile) bilanciamento dei principi nel nuovo codice

In materia di appalti pubblici, la funzione a cui assolvono i principi amministrativi è certamente quella di precisare la portata applicativa delle disposizioni permettendo, a seconda delle circostanze, di chiarire la volontà del legislatore. In più occasioni ci siamo occupati di esaminare tale aspetto rispetto a singole fattispecie concrete, come nella vicenda illustrata consultabile a questo link, relativa al principio di rotazione e alle concrete modalità applicative.

In vista dell'acquisizione di efficacia delle previsioni del nuovo Codice, le pronunce giurisprudenziali che operano un richiamo alle neo disposizioni sono molteplici.

Tra queste, merita certamente un cenno quella recentemente resa pubblica dal Supremo Consesso amministrativo che, a seguito di una lite insorta tra due Amministrazioni (un comune e l'Ente regionale) sull'avvenuta revoca di un contributo concesso per lavori attinenti l'efficienza di un edificio scolastico, si è soffermato sulla disciplina degli appalti pubblici e, in particolare, sull'attualità del principio di proporzionalità cui deve essere informata l'attività delle pubbliche amministrazioni.

Deve evidenziarsi sin d'ora che il Giudice amministrativo di secondo grado, confermando la statuizione resa dal TAR, è giunto a respingere l'atto di appello perchè infondato, riformando in parte il contenuto della pronuncia di primo grado che aveva avallato la tesi difensiva (e dunque la correttezza) dell'Amministrazione comunale.

L'aspetto centrale della vicenda (che trae origine sulla scorta del codice di cui al d.lgs. 163/2006) e sul quale ci si vuol soffermare attiene alla portata applicativa dei principi di cui alla disciplina appalti, ma muove dalla modalità prescelta dall'Ente comunale circa l'individuazione dei concorrenti: nel caso di specie, quanto alla componente lavori, il tipo di procedura prescelta dall'Ente civico (procedura negoziata senza pubblicazione del bando di importo ridottissimo pari a circa 111.650 euro), secondo la prospettazione operata dalla Regione, sarebbe affetta da illegittimità (per violazione degli obblighi pubblicitari e di trasparenza) stante la mancata pubblicazione di un apposito avviso, nonché dalla carente motivazione. Sempre secondo la tesi regionale, a fronte di tali criticità, il contributo concesso avrebbe dovuto essere (come poi verificatosi) oggetto di revoca.

La pronuncia resa dal Consiglio di Stato opera, innanzitutto, un richiamo della normativa regionale speciale, la quale prevede una semplificazione delle procedure in materia di opere pubbliche i cui lavori finanziati vengono affidati mediante ricerca di mercato: il Giudice amministrativo, tuttavia, ne esclude l'applicazione diretta al caso, evidenziandone il perimetro applicativo, traendo comunque la conseguenza che tale esclusione non comporta l'illegittimità della revoca per violazione dei principi eurounitari.

Il Giudice amministrativo, nel ripercorrere l'iter argomentativo, pone un rinvio alle previsioni di cui al cottimo fiduciario introdotte dal previgente art. 125, comma 11, d.lgs. 163/2006, per lavori di importo inferiore alla soglia di 200.000 euro, deducendo che "il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata, ossia una scelta altamente discrezionale che è temperata soltanto dal rispetto dei principi di trasparenza ed imparzialità da attuare attraverso la rotazione tra le ditte da consultare e con le quali negoziare le condizioni dell’appalto".

Descrivendo, sinteticamente, l'istituto, con rinvio operato anche alla cd. "legge Merloni", il Giudice amministrativo ne chiarisce la ratio di previsione, affermando che "il cottimo fiduciario non è una vera e propria gara, ma una trattativa privata che si traduce in una scelta ampiamente discrezionale. Tale discrezionalità si esercita in due momenti: primo, l’individuazione delle cinque ditte da “consultare”; secondo, la scelta del contraente fra le ditte consultate. La discrezionalità è temperata, ma non eliminata, da alcuni princìpi, quali la trasparenza e la parità di trattamento (che implicano il dovere di una previa formulazione e comunicazione dei criteri della scelta, etc.) e, appunto, la “rotazione” (per evitare che il carattere discrezionale della scelta si traduca in uno strumento di favoritismo)" giungendo poi ad esplicitare che "le regole procedurali anche minime che l'amministrazione si deve dare per concludere il cottimo fiduciario implicano il rispetto dei principi generali di imparzialità, correttezza, buona fede, proporzionalità".

Operando, poi la ricostruzione a sistema dell'istituto in chiave comparativa con la normativa europea, il Giudice amministrativo giunge a focalizzare la prospettiva critica sul principio di proporzionalità "inteso nella specifica materia dei contratti pubblici come garanzia di un ragionevole equilibrio tra i mezzi utilizzati e fini perseguiti".

Da tale premessa, secondo la prospettiva del Giudice amministrativo, il principio di trasparenza assume un ruolo essenziale come mezzo in vista del raggiungimento del risultato di una effettiva concorrenza, nonché uno strumento utile per porre a sistema i principi, da ultimi quelli introdotti con il d.lgs. 36/2023: "le procedure di cottimo fiduciario devono essere idonee a garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza. L'osservanza di tali principi costituisce, tra l'altro, attuazione delle stesse regole costituzionali dell'imparzialità e del buon andamento, che devono guidare l'azione della pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 della Costituzione. Il principio di proporzionalità, inteso nei termini suindicati, comprende in sé il divieto di aggravio del procedimento, impedendo che nella fissazione o nell'interpretazione delle prescrizioni della legge di gara possano essere previsti adempimenti superflui o ridondanti. Dal principio di proporzionalità deriva, pertanto, il corollario della c.d. «strumentalità delle forme» ad un interesse sostanziale dell'Amministrazione, di cui la giurisprudenza amministrativa ha fatto costante applicazione nel contenzioso in materia di appalti pubblici, e che di recente è stato codificato, mediante l’icastica formula del principio del risultato, dall’art. 1 del nuovo codice degli appalti di cui al decreto legislativo n. 36 del 31 marzo 2023.".

Come è evidente, la pronuncia del Consiglio di Stato appare essenziale al fine di delimitare la portata applicativa dei principi i quali, come sopra evidenziato, seppur non assumono una natura vincolante, consentono di interpretare correttamente le previsioni legislative in senso conforme al loro tenore letterale poiché contribuiscono validamente a chiarire la volontà del legislatore; sebbene alcuni siano incompatibili tra loro, tutti i principi (ivi compresi quelli afferenti agli appalti pubblici) che entrano in gioco nell'ordinamento giuridico devono coesistere ed essere ragionevolmente bilanciati ed attuati secondo diverse graduazioni (mai invece massimizzati).

Dal bilanciamento, dunque, si ricava il criterio di proporzionalità nel rapporto costi - benefici nelle scelte relative all'affidamento di contratti pubblici.

(Cons. St., Sez. IV, 24 aprile 2023, n. 4014)


garanzia

Garanzia provvisoria priva di firma dell’assicuratore: legittimo il soccorso istruttorio?

garanziaIl giudice amministrativo è stato chiamato a deliberare se sia legittimo o meno il soccorso istruttorio, disposto dalla stazione appaltante, nel caso in cui la garanzia provvisoria venga prodotta ancorché priva della sottoscrizione dell’assicuratore.

Nei fatti è accaduto che, all’esito di una procedura di gara avente ad oggetto l’esecuzione di lavori di manutenzione da eseguirsi su immobili di proprietà di un ente comunale, una delle partecipanti ha impugnato dinanzi al giudice amministrativo l’aggiudicazione definitiva disposta dall’amministrazione procedente (nonché gli atti ad essa connessi).

Con l’atto introduttivo del giudizio, l’impresa ricorrente ha censurato l’operato della stazione appaltante la quale, nel corso della procedura di gara, aveva invitato, uno dei concorrenti, ad integrare, mediante il soccorso istruttorio, l’offerta presentata. Nello specifico, il concorrente era stato invitato ad emendare la garanzia provvisoria, prodotta in assenza sia della richiesta firma dell’assicuratore, sia della autentica notarile accompagnata da copia del documento di identità dell’assicuratore medesimo.

Per la ricorrente, la mancata allegazione all’offerta della garanzia provvisoria sottoscritta con firma digitale non può essere sanata mediante attivazione del soccorso istruttorio (cui, invece, può ricorrersi per l’integrazione di documenti aventi data certa e preesistente al termine di scadenza per la presentazione delle offerte).

In altri termini, a parere della ricorrente, il deposito – quale allegato all’offerta – della garanzia provvisoria sottoscritta dal solo contraente (quindi priva della firma dell’assicuratore) avrebbe dovuto spingere l’amministrazione ad escludere il concorrente responsabile di tale inadempimento.

Il TAR, non ritenendo condivisibili gli argomenti della ricorrente, ha rigettato il ricorso. Nel dettaglio, il Collegio ha osservato che:

- per espressa previsione del disciplinare di gara “La successiva correzione o integrazione documentale è ammessa laddove consenta di attestare l’esistenza di circostanze preesistenti, vale a dire requisiti previsti per la partecipazione e documenti/elementi a corredo dell’offerta. Nello specifico valgono le seguenti regole: - la mancata presentazione di documenti a corredo dell’offerta (es. garanzia provvisoria o impegno del fideiussore) (…) sono sanabili, solo se preesistenti e comprovabili con documenti di data certa, anteriore al termine di presentazione dell’offerta”;

- ancorché sottoscritta dal solo contraente, è documentalmente provato che la richiesta garanzia presentava una data di emissione e di decorrenza del premio entrambe antecedenti il termine di scadenza per la presentazione delle offerte (dati che rimanevano inalterati anche a seguito dell’attivazione del soccorso istruttorio, mediante il quale il concorrente inoltrava la garanzia sottoscritta dall’assicuratore).

In conclusione, secondo il Collegio, “non può condividersi l’assunto della ricorrente, secondo cui la polizza non fosse esistente al momento della presentazione della domanda – e sarebbe stata emessa, in sostanza, successivamente alla scadenza - fattispecie alla quale si riferisce il disciplinare nell’escluderne la sanabilità”. Ciò è altresì provato, laddove si consideri che “a) la polizza era stata comunque sottoscritta digitalmente dal contraente; b) quella inviata a seguito del soccorso istruttorio presenta lo stesso numero di quella inizialmente emessa; c) quest’ultima presenta comunque la firma olografa del garante, la quale – per quanto verosimilmente generata direttamente da un applicativo informatico – conferma indirettamente che l’Agenzia ha comunque emesso la polizza”.

Da ciò consegue, in definitiva, che “legittimamente la commissione ha consentito la regolarizzazione mediante soccorso istruttorio, nel rispetto di quanto previsto dal disciplinare di gara”.

TAR Sicilia Palermo, Sez. I, 20.4.2023, n. 1307


corte di giustizia

La Corte di giustizia sulle concessioni demaniali: la proroga del titolo concessorio deve essere disapplicata dai giudici nazionali e dalle autorità amministrative, comprese quelle comunali.

La Corte di giustizia, con la sentenza del 20 aprile 2023 resa nella causa C-348/22, ha definitivamente chiuso ogni partita possibile in tema di concessioni demaniali marittime.

Dopo aver esaminato le questioni pregiudiziali formulate, in sede di rinvio, dal TAR Puglia, sede di Lecce, la Corte di giustizia ha affermato che i giudici nazionali e le autorità amministrative, comprese quelle comunali, debbano applicare le norme pertinenti di diritto dell’Unione, disapplicando le disposizioni di diritto nazionale non conformi alle stesse.

Con la pronuncia in commento è stata definitivamente messa una pietra sopra ad ogni ulteriore possibilità di sostenere che sia esclusa l’applicabilità della direttiva Bolkestein al settore delle concessioni balneari.

Per la Corte di Giustizia, infatti, la direttiva 2006/123 è perfettamente valida, in quanto correttamente adottata con la maggioranza necessaria; la stessa, inoltre, deve applicarsi alle concessioni di occupazione del demanio marittimo anche quando non presentino un interesse transfrontaliero certo, ma meramente interno.

Gli obblighi contenuti nella Bolkestein, inoltre, devono ritenersi enunciati in modo incondizionato e sufficientemente preciso, sicché gli stessi sono immediatamente produttivi di effetti diretti. Ne consegue che l’obbligo di disapplicare le disposizioni nazionali anticomunitarie incombe non solo in capo ai giudici, ma pure in capo alle autorità amministrative, ivi comprese quelle comunali.

Un punto importante, inoltre, è quello relativo alla valutazione della scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili: l’art. 12 della direttiva Bolkestein, - afferma la CGUE-, deve essere interpretato nel senso che non osta a che tale valutazione avvenga combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un’analisi del territorio costiero del comune in questione. Si tratta di una precisazione degna di nota dopo la sentenza Promoimpresa, nella quale invece l’accertamento sulla scarsità della risorsa era stato demandato al giudice nazionale, prescrivendo di prendere in considerazione anche il fatto che le concessioni sono rilasciate a livello comunale.

È stata ritenuta irricevibile, invece, in quanto irrilevante ai fini della decisione principale, la questione pregiudiziale relativa alla compatibilità con l’art. 12 della direttiva Bolkestein dell’art. 49 del Codice della navigazione, che prevede l’automatica devoluzione, al termine del periodo concessorio, delle opere inamovibili realizzate sul demanio, senza che sia corrisposto alcun indennizzo. Sul punto, ad ogni modo, anche la VII sezione del Consiglio di Stato, con l’ordinanza 5 settembre 2022, n. 8010, ha interpellato la Corte di Giustizia, che dunque avrà modo di pronunciarsi.

L’esito della decisione della Corte di giustizia era dai più già annunciato.

La sentenza in commento si inserisce in uno scenario normativo e giurisprudenziale, in cui l’incertezza e la confusione la fanno da padrona. Infatti, dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce al pronunciamento della Corte di Giustizia, la vicenda normativa delle concessioni demaniali, nel nostro ordinamento, è stata particolarmente intensa.

A soli tre mesi di distanza dal rinvio pregiudiziale disposto dal TAR Lecce, il legislatore italiano, messo anche alle strette dall’Adunanza plenaria con le ormai note sentenze nn.  17 e 18 del 2021, ha adottato la Legge 5 agosto 2022, n. 118 entrata in vigore il 27 agosto 2022, con la quale è stato individuato quale termine ultimo di validità delle concessioni vigenti il 31 dicembre 2023.

Sennonché, il sistema di riforma introdotto dalla legge Concorrenza, apparentemente improntato all’accelerazione, è stato parzialmente frenato dal c.d. decreto Milleproroghe (d.l. 29 dicembre 2022, n. 198, conv. in L. 24 febbraio 2023, n. 14) che ha previsto un generale differimento dei termini inizialmente previsti per l’attuazione della riforma delle concessioni demaniali in chiave concorrenziale, prorogando, di fatto, di un altro anno, le concessioni in essere che avrebbero dovuto cessare al 31 dicembre 2023.

Se, da un lato, però, il legislatore italiano, con il decreto Milleproroghe, ha voluto concedere maggiore tempo al Governo per dare attuazione alla riforma introdotta dalla legge Concorrenza, dall’altro, il Consiglio di Stato si è sempre contrapposto, in maniera netta, a qualsiasi proroga, anche a quella introdotta dalla legge di conversione del decreto Milleproroghe, ritenendola in contrasto con il diritto europeo.

Emblematica, in tal senso, è stata la sentenza n. 2192 del 1° marzo 2023, con la quale, a distanza di pochi giorni dalla conversione del D.L. 29 dicembre 2022, n. 198 (c.d. Milleproroghe), il Consiglio di Stato, pronunciandosi su un ricorso proposto dall’Autorità Garante della Concorrenza (AGCM) avverso una delibera di giunta comunale che aveva disposto l’estensione delle concessioni demaniali marittime fino al 2033 in base a quanto stabilito dalla L. 145/2018, ha espressamente statuito che: “sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenza nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

La sentenza del 1° marzo 2023, che ha generato grande scalpore, non è però stata l’unica, in tema di concessioni demaniali, ad esser stata pubblicata, dopo la conversione in legge del decreto Milleproroghe. Con la sentenza n. 2740 del 15 marzo 2023, la sezione settima del Consiglio di Stato, chiamata a pronunciarsi sul rigetto di un’istanza di rinnovo o proroga di una concessione di un’area boscata, ha nuovamente ribadito che alle concessioni demaniali si applicano l’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 (ne abbiamo parlato qui).

I giudizi di Palazzo Spada, dunque, nel ribadire l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva servizi 2006/123 alle concessioni demaniali, hanno continuato a disapplicare la proroga del titolo concessorio, di volta in volta, invocata dal concessionario uscente.

Ora, a seguito del pronunciamento della Corte di Giustizia, in tema di concessioni demaniali, sembra essere inevitabile, oltre che indifferibile, un’inversione di rotta del Governo e del Parlamento.

Ora più che mai è necessario un repentino intervento legislativo, con il quale venga assunta una posizione chiara in merito alla riforma delle concessioni demaniali marittime.

In attesa, dunque, di conoscere le prossime indicazioni che il Governo intenderà assumere, i principi espressi dalla Corte di giustizia con la decisione dello scorso 20 aprile rappresentano il faro guida per i giudici amministrativi e per le amministrazioni comunali.

CGUE, 20 aprile 2023, c-348/22