NCC

Caos normativo per gli NCC: la Cassazione chiarisce la portata applicativa del d.l. 207/2008

NCCCon la sentenza n. 17541 del 2023, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno esaminato il tema della reviviscenza delle norme giuridiche abrogate. Il quadro normativo entro cui si muove la pronuncia della Corte è quello che regola i servizi pubblici non di linea, i c.d. NCC – noleggio con conducente.

Le regole che disciplinano i servizi di taxi e NCC sono contenute nella L. 21/1992: tale testo normativo è stato modificato numerose volte, con l’intento di aprire alla concorrenza del mercato dei servizi pubblici non di linea e di adeguare la legge all’utilizzo delle nuove tecnologie.

La stratificazione che si è determinata nel corso del tempo ha nutrito numerosi contenziosi sia innanzi al giudice amministrativo, che innanzi al giudice civile.

La sentenza oggetto del presente commento ne costituisce un chiaro esempio.

Per comprendere al meglio i principi enunciati dal Supremo Consesso, è necessario partire dal caso oggetto del ricorso.

Il caso

La vicenda ha inizio nel 2016, quando un conducente viene sanzionato per violazione dell’art. 85, comma 4 del Codice della strada, a seguito dello svolgimento di un servizio di autonoleggio tramite App Uber. Dato che l’acquisizione della corsa era avvenuta in modalità digitale, il servizio si era svolto senza effettuare il preventivo contratto con il cliente e senza rispettare la partenza dalla rimessa di riferimento, sita in un altro comune.

L’autista si era opposto dinnanzi al Giudice di Pace, sostenendo che l’efficacia delle disposizioni di cui all’art. 29, comma 1-quater del d.l. 207/2008 - che aveva comportato  modifiche  alla L. 21/1992 con riguardo proprio al servizio di NCC - era stata sospesa nel corso del tempo da più decreti già a partire dal 2009 e che quindi non sussisteva in capo a coloro che svolgevano servizio di NCC alcun tipo di obbligo né di stazionamento e né di partenza dalla rimessa.

Il Giudice di Pace ha accolto il ricorso, annullando il verbale impugnato, sul presupposto che l’efficacia degli artt. 3 e 11 L. 21/1992 che prevedevano l’obbligo di partenza e rientro delle corse necessariamente presso la rimessa, e che sarebbero stati oggetto di abrogazione dal d.l. 207/2008, risultavano sospesi al momento dell'applicazione della sanzione contestata.

In sede d’appello, il Tribunale aveva accolto il gravame proposto dall’amministrazione, sul presupposto che gli artt. 3 e 11 L. 21/1992 erano applicabili nel caso di specie giacché la sospensione dell’efficacia delle norme era stata prorogata solo fino al 31 marzo del 2010 e i successivi decreti di sospensione, adottati ciclicamente dal Ministero delle infrastrutture, non avevano effetto, in quanto non rinnovavano esplicitamente le disposizioni di cui al d.l. 207/2008, ma procedevano ad un mero rinvio.

Avverso la sentenza del Tribunale, il ricorrente ha proposto ricorso in Cassazione, sostenendo:

- che non sussisterebbe alcun tipo di violazione dell’art. 85, comma 4 del Codice della strada, dal momento che le disposizioni della L. 21/1992 sarebbero divenute oggettivamente inapplicabili, facendo riferimento ad una realtà del tutto superata, che non tiene in conto l’evoluzione tecnologica e informatica;

- la violazione dell’art. 3 e 41 Cost., dal momento che il comportamento e i provvedimenti adottati dal comune sanzionante “determinano una limitazione della libera attività economica privata non giustificata da nessun motivo di “utilità sociale”

- nel caso di specie le norme della L. 21/1992 risultavano sospese in forza dell’art. 29, comma 1-quater del d.l. 207/2008.

La decisione

Il ricorso è stato accolto dalle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione.

La questione, secondo la Corte, è dunque comprendere:

1) se, all’epoca dei fatti contestati al ricorrente (maggio 2016), le modifiche recate agli artt. 3 e 11 della L. 21/1992, introdotte dall’art. 29, comma-1 quater del d.l. 207/2008, debbano ritenersi vigenti o sospese;

2) se, durante il periodo di sospensione dell’efficacia delle disposizioni recate dall’art. 29, comma 1-quater del d.l. 207/2009, le norme di cui alla L. 21/1992 dovessero ritenersi reviviscenti o se tali norme non potessero più considerarsi in vigore.

I giudici hanno risposto in senso affermativo alla prima questione: con una motivazione molto complessa - e allo stesso tempo completa, atteso che ripercorrono l’intera disciplina dei servizi di NCC nel corso degli ultimi 30 anni -, i giudici hanno ritenuto che l’art. 9 del d.l. 244/2016 ha sospeso l’efficacia delle disposizioni introdotte dal d.l. 207/2008. Tale sospensione sarebbe intercorsa tra il 1 aprile 2010 ed il 31 dicembre 2016 (termine poi ulteriormente prorogato). Uno dei presupposti di tale operazione – che ha tuttavia lasciato un inevitabile confusione normativa - va individuato nella circostanza che la materia è così complessa che “non consente di dare attuazione alla nuova disciplina nella sua globalità senza la messa a regime dell’intero settore”.

Sul secondo punto, invece, i giudici hanno ritenuto che in virtù della sospensione dell’efficacia dell’art. 29, comma 1-quater del d.l. 207/2008, le disposizioni dettata della L. 21/1992, non devono ritenersi abrogate ma “solo integrate dalla successiva previsione e comunque sono da ritenere vigenti al momento della commissione della violazione contestata”. Sotto tale punto di vista strettamente giuridico, la sentenza è di particolare pregio in quanto affronta il tema della reviviscenza delle norme abrogate, che viene riconosciuta nel caso di specie.

La Corte, quindi, ha annullato la sentenza impugnata e ha rinviato il procedimento nuovamente al Tribunale di Milano, affinché riesamini la vicenda.

(Corte di Cassazione, Sez. Unite, n. 17541 del 20.06.2023)


Appalti pubblici. L’ accesso agli atti presuppone sempre la detenzione materiale dei documenti da parte dell’amministrazione.

In tema di appalti pubblici, condizione primaria perché sia possibile l’accesso agli atti di gara è la detenzione degli stessi da parte dell’amministrazione appaltante.

Come noto, finalità dell’istituto dell’accesso agli atti è consentire ai partecipanti alle procedure ad evidenza pubblica l’esame dell’offerta presentata dall’operatore designato aggiudicatario della commessa.

A rigor del vero, l’istituto dell’accesso agli atti presenta numerosi profili problematici, come abbiamo illustrato nella precedente news sul tema (che potete trovare a questo link).

Ma cosa accade nel caso in cui l’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso non è in possesso dei documenti di cui viene richiesta l’ostensione? Quesito, questo, cui viene offerta risposta dalla pronuncia oggi in commento.

Ma andiamo con ordine.

Un’impresa formulava istanza di accesso agli atti ex art. 22, L. 241/1990, per l’ostensione di tutta la documentazione afferente all’appalto di lavori indetto da una società pubblica per la ristrutturazione, il potenziamento e l’ammodernamento di un impianto di depurazione delle acque.

Sennonché la società pubblica destinataria dell’istanza negava l’accesso, sostenendo che le fosse impossibile esibire i documenti richiesti atteso che gli stessi non erano nella sua materiale disponibilità.

A fronte del rifiuto dell’amministrazione, l’impresa si rivolgeva al Difensore civico regionale, il quale veniva portato a conoscenza della circostanza che, all’esito di un procedimento tenutosi dinanzi la Commissione governativa per l’accesso ai documenti amministrativi, la società aveva sostenuto di non essere più in possesso dei richiesti documenti allorché, a seguito di cessione di ramo d’azienda, aveva trasferito tutta la propria documentazione (ivi inclusa quella di cui era richiesta l’ostensione), alla cessionaria.

Espletato il procedimento, il Difensore civico rilevava come la cessionaria non poteva sostenere di non essere in possesso della documentazione richiesta, atteso che i medesimi documenti – prima della cessione del ramo d’azienda – erano comunque in possesso della società cedente.

A fronte del rilievo critico così formulato dal Difensore civico, la cessionaria si limitava a confermare il rigetto dell’istanza di accesso, con la duplice motivazione che la cessione di ramo d’azienda non riguardava il contratto di appalto cui la documentazione richiesta si riferiva nonché che la documentazione richiesta, in ogni caso, riguardava documenti molto datati (di cui era venuto meno l’obbligo di conservazione a norma di legge).

La controversia veniva, pertanto, portata all’attenzione del giudice amministrativo. Il Collegio investito del contenzioso riguardante l’accesso ai predetti documenti, tuttavia, respingeva il ricorso, sostenendo che “il diritto di accesso trovava un limite nella disponibilità che l’Amministrazione intimata avesse della documentazione di cui si chiedeva l’ostensione: postulando l’accesso che i documenti fossero materialmente detenuti dall’amministrazione cui era rivolta l’istanza” (così TAR Lombardia Milano, Sez. I, 2.1.2023, n. 31).

In altri termini, il Collegio riteneva che, mancando la prova che la richiesta documentazione fosse nel possesso della cessionaria (prova che, sostiene il giudice amministrativo, non veniva in alcun modo fornita), nel caso di specie la richiesta di accesso andava respinta (anche in ragione della circostanza che la cessionaria negava di essere in possesso dei documenti richiesti), in applicazione del principio “ad impossibilia nemo tenetur”.

A medesime conclusioni giunge il Consiglio di Stato.

In particolare, secondo i giudici di Palazzo Spada è assolutamente condivisibile l’assunto secondo cui “il diritto di accesso trova un limite (che è ad un tempo di ordine materiale e di ordine giuridico) nella disponibilità che l’Amministrazione abbia della documentazione di cui si chiede l’ostensione”.

Ciò significa, in altre parole, che la possibilità di acquisire determinati documenti è, come è logico attendersi, subordinata al possesso degli stessi da parte dell’amministrazione destinataria dell’istanza di accesso.

La pronuncia si colloca nel solco dell’orientamento giurisprudenziale prevalente che, a tal proposito, ha costantemente affermato che “la possibilità di acquisire (anche tramite visione od estrazione di copia) i documenti postula la materiale detenzione dell’Amministrazione cui è rivolta l’istanza (e ciò allorché alla stessa sia giuridicamente imputabile la relativa formazione, sia – ancor più – allorché, come nella specie, la stessa sia stata destinataria del relativo trasferimento)ove l’amministrazione dichiari di non detenere il documento, assumendosi la responsabilità della veridicità della sua affermazione, non sarà possibile l’esercizio dell’accesso. Al cospetto di una dichiarazione espressa dell’amministrazione di inesistenza di un determinato atto, non vi sono margini per ordinare l’accesso, rischiandosi altrimenti una statuizione impossibile da eseguire per mancanza del suo oggetto, che si profilerebbe, dunque, come inutiliter data” (in questo senso si è pronunciato Cons. St., Sez. IV, 27.3.2020, n. 2142)

(Cons. St., Sez. V, 17.8.2023, n. 7787)


Appalto servizi ristorazione: quando sono ammesse le varianti contrattuali ex art. 106 d.lgs. 50/2016.

Quando è possibile autorizzare le varianti contrattuali?

Questo il quesito sottoposto all’attenzione del Consiglio di Stato che si è espresso sul punto con una recente pronuncia.

Partiamo dai fatti. Successivamente all’aggiudicazione dell’appalto per la somministrazione del servizio di ristorazione, l’amministrazione appaltante e l’aggiudicatario ritenevano necessaria l’esecuzione anticipata del servizio oggetto dell’appalto medesimo. Tale decisione si fondava:

  1. sulla necessità di salvaguardare i lavoratori interessati dalla clausola sociale, cui doveva essere garantita continuità lavorativa (lavoratori, è bene evidenziarlo, che non ricevevano più alcuno stipendio);
  2. sulla necessità di procedere ad opere di adeguamento strutturale dei fabbricati entro i quali il servizio oggetto dell’appalto si sarebbe dovuto svolgere (con la connessa determinazione degli investimenti che, a tal scopo, l’aggiudicatario doveva effettuare).

Il servizio transitorio, in particolare, doveva essere erogato derogando sia alle disposizioni contenute nella lex di gara (segnatamente, il capitolato) sia a quanto previsto dall’offerta tecnica, nonché alle medesime condizioni previste dall’offerta economica presentata dall’aggiudicatario.

A seguito della stipula del contratto, l’amministrazione accoglieva la proposta di variante avanzata dall’aggiudicatario finalizzata a consentire l’utilizzo di un centro cottura fino a quel momento destinato al solo confezionamento dei pasti. Detta proposta veniva accolta in quanto non solo consentiva l’integrale assorbimento del personale uscente, ma anche per il fatto che la produzione di pasti nel succitato centro di cottura avrebbe comportato il miglioramento sia del servizio sia del bene pubblico medesimo.

Sennonché, l’impresa seconda classificata – ritenendo illegittimo il descritto operato della stazione appaltante – impugnava i provvedimenti in questione dinanzi al giudice amministrativo. L’impresa ricorrente sosteneva che l’amministrazione, autorizzando la variante, avrebbe di fatto legittimato una inammissibile modifica dell’offerta tecnica ed economica formulata dall’aggiudicatario.

Nel corso del giudizio l’amministrazione ha invece sostenuto che la variante accordata sarebbe stata legittima ex art. 106 del d.lgs. 50/2016 atteso che si sarebbe trattato di prestazioni aggiuntive, relative al ripristino della funzionalità del centro di cottura e che le modifiche sarebbero state richieste ed autorizzate dall’amministrazione in ragione della situazione epidemica emergenziale verificata nel frattempo.

Il TAR di prime cure accoglieva il proposto ricorso, ritenendo in estrema sintesi che “le modifiche apportate avrebbero avuto una valenza sostanziale, non essendo riconducibili al concetto di variante di cui all’art. 106 del d.lgs. n. 50/2016, e comunque, le ragioni di opportunità dedotte dalla stazione appaltante sarebbero state conosciute prima della stipula del contratto (in particolare, quella relativa all’assorbimento del personale) e, quindi, avrebbero potuto indurre la stazione appaltante a revocare l’aggiudicazione procedendo ad una nuova gara”. In definitiva, secondo il TAR, il servizio “non potrà che essere erogato dalla società aggiudicatrice alle condizioni indicate nell’offerta tecnica ed economica inizialmente presentate”.

A conclusioni di segno diametralmente opposto, invece, sono giunti i giudici del Consiglio di Stato.

Secondo il Collegio, infatti, la fattispecie oggetto di contenzioso è pienamente riconducibile entro l’ambito delle varianti contrattuali di cui all’art. 106, comma 1, lett. c), d.lgs. 50/2016.

La decisione del Collegio muove dalla precisazione per cui sono tre i presupposti perché possa disporsi una variante ex art. 106 d.lgs. 50/2016, ossia:

  1. la sopravvenienza di circostanze impreviste ed imprevedibili per l’amministrazione aggiudicatrice;
  2. la mancata alterazione della natura generale del contratto;
  3. l’eventuale aumento (nei limiti del 50%) del valore del contratto iniziale.

A differenza di quanto sostenuto dal TAR, il Consiglio di Stato ha ritenuto che tutte e tre tali presupposti fossero sussistenti nel caso di specie.

Con riferimento al dato economico, sebbene l’importo relativo ai lavori aggiuntivi previsti a seguito della modifica contrattuale sia economicamente rilevante, questo resta ben al di sotto del 50% del valore dell’appalto iniziale indicato.

Il TAR ha poi erroneamente ritenuto la natura sostanziale della variante autorizzata.

La modifica al contratto è infatti possibile purché non sia tale da alterare “la natura generale del contratto”: con tale nozione il legislatore vuole impedire che attraverso il ricorso allo ius variandi si possa addivenire ad una modificazione radicale del contratto, eludendo così la disciplina del codice degli appalti.

L’ammissibilità di varianti al contratto di appalto, prosegue il Collegio, è sancita non solo dal citato art. 106, d.lgs. 50/2016, ma anche dalla normativa sovranazionale: come affermato dallo stesso Collegio in primo grado, è ragionevole ipotizzare che, nel lungo periodo, possono emergere circostanze sopravvenute, non prevedibili al momento dell’indizione della gara, tali da richiedere aggiustamenti in corso di esecuzione, al fine di garantire la miglior soddisfazione dell’interesse pubblico.

Nel caso di specie, secondo i giudici non risulta mutato, con la variante, l’oggetto del contratto: la variazione, infatti, non investe la natura complessiva del contratto, che prevedeva, fin dall’inizio, la prestazione di lavori e di servizi; per effetto dello ius variandi l’oggetto della prestazione non è mutato, ma la variazione si riferisce alle sole modalità di esecuzione del servizio di ristorazione (diverse modalità di preparazione dei pasti, utilizzazione di un punto di cottura differente, modificazione dell’organizzazione relativa ai trasporti dei pasti ai presidi sanitari) che ha richiesto, per la sua attuazione, lo svolgimento di lavori aggiuntivi da quelli che erano stati preventivati in origine, sicuramente più complessi e più onerosi per la stazione appaltante, che hanno comportato, anche, la modificazione dell’assetto organizzativo del servizio che, a sua volta, ha inciso sull’utilizzazione del personale da utilizzare nella sua gestione.

In conclusione, pertanto, è dunque legittimo il provvedimento con cui vengono autorizzate le varianti al contratto di appalto, in quanto non solo non è in alcun modo provata la circostanza secondo cui le prestazioni aggiuntive autorizzate abbiano alterato in maniera considerevole l’equilibrio contrattuale in favore dell’aggiudicatario, ma anche che le proteste del personale rimasto senza stipendio abbiano costituito una circostanza imprevista ed imprevedibile.

Cons. St., Sez. III, 11 luglio 2023, n. 6797


procedura

Errato ricorso alla procedura negoziata: c’è responsabilità erariale?

proceduraL’errato ricorso della procedura negoziata può determinare una responsabilità erariale?

Una amministrazione aveva avviato due procedure negoziate ex art. 63, d.lgs. 50/2016 per l’upgrading e il revamping di alcuni macchinari. Il contraente – in palese violazione del contratto stipulato con l’amministrazione – aveva tuttavia eseguito in maniera errata il contratto, consegnando macchine nuove in luogo degli interventi di upgrading e revamping oggetto dell’affidamento.

La difformità nell’esecuzione del contratto aveva determinato un costo decisamente maggiore per l’amministrazione: ove fossero stati rispettati gli accordi contrattuali esistenti, i costi che l’ente pubblico avrebbe dovuto sostenere per tali operazioni sarebbero stati ben inferiori rispetto a quelli poi effettivamente sostenuti.

A fronte del danno erariale potenzialmente cagionato, la questione è stata portata all’attenzione della magistratura contabile.

Secondo la procura contabile, le procedure negoziate in questione erano state predisposte al fine di giustificare la c.d. infungibilità tecnica che, come noto, costituisce il presupposto di legittimità delle procedure negoziate ex art. 63 d.lgs. 50/2016. La procura ha così chiamato in giudizio i RUP, per “danni da omessa indizione di una gara pubblica”, nonché per l’omesso rilievo che i beni consegnati erano diversi da quelli pattuiti.

Secondo il giudice contabile, il pregiudizio sotteso al procedimento portato alla sua attenzione è riconducibile alla violazione di quanto statuito dall’art. 63, d.lgs. 50/2016. In particolare, l’art. 63, comma 2, lett. b), n. 2 d.lgs. 50/2016 statuisce che il ricorso alla procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è possibile, tra i vari casi, qualora “la concorrenza è assente per motivi tecnici” (ci si riferisce, in altri termini, alla c.d. “infungibilità tecnica”). Il codice dei contratti pubblici ammette infatti l’utilizzo della procedura negoziata senza previa pubblicazione nei casi in cui la prestazione può essere fornita da un unico operatore perché “la concorrenza è assente per motivi tecnici” o per “la tutela di diritti esclusivi, inclusi i diritti di proprietà intellettuale”. Simili eccezioni, però, come precisato dalla stessa disposizione, “si applicano solo quando non esistono altri operatori economici o soluzioni alternative ragionevoli e l'assenza di concorrenza non è il risultato di una limitazione artificiale dei parametri dell'appalto”.

Ove un bene risulti infungibile, dunque, questo può essere reperito sul mercato derogando al principio della massima concorrenzialità nell’affidamento dei contratti pubblici. In altre parole, la procedura negoziata senza bando costituisce un’eccezione al principio della c.d. “messa in concorrenza”: con tale espressione, il legislatore europeo intende l’obbligo, per le stazioni appaltanti, di subordinare l’affidamento di qualsivoglia contratto pubblico al previo espletamento di una gara. In tal senso, la procedura negoziata senza previa pubblicazione del bando è applicabile esclusivamente in casi ben specifici e tassativamente determinati, al pari dei casi in cui è ammessa la modifica dell’oggetto contrattuale.

A tal proposito, ricordano i giudici contabili, la Corte UE ha in più occasioni ricordato come una delle violazioni più gravi del diritto comunitario si verifica, appunto, nel caso di affidamento diretto senza gara in assenza dei presupposti richiesti, a tal scopo, dalle direttive UE e dalla relativa normativa di recepimento. In casi di questo tipo, in particolare, ad essere violati sono anche i principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione tra operatori economici nell’accesso al mercato delle commesse pubbliche (ai sensi di quanto previsto dagli artt. 4 e 30, d.lgs. 50/2016 – disposizioni che recepiscono quanto statuito dall’art. 76, direttiva 2014/24/UE).

Nel caso di specie, dalla documentazione depositata, emergeva chiaro il danno erariale compiuto, imputabile alla mala gestio dell’attività, con particolare riguardo alla scelta di dare avvio alla procedura e alla modifica del contratto originario in un contratto di acquisto di dispositivi nuovi, senza procedere alla gara.

I giudici hanno così ritenuto sussistente un “danno da affidamento senza gara e modifica dell’oggetto contrattuale” atteso che:

  1. sebbene l’amministrazione abbia beneficiato di macchinari nuovi, essi non erano necessari in quanto le macchine già in possesso erano perfettamente utilizzabili ove sottoposte ad un mero revamping/upgrading. Non vi sarebbero stati, dunque, nel caso di specie, i presupposti per ricorrere alla procedura negoziata senza bando;
  2. il lamentato danno erariale sarebbe conseguenza del fatto che, ove attivate le ordinarie procedure di gara, la stazione appaltante avrebbe ben potuto ottenere prezzi più vantaggiosi “soprattutto ove tale procedura fosse stata preceduta dalla doverosa indagine di mercato, anche considerando l’eccessività del costo autorizzato per i servizi di upgrading e revamping”.

Corte dei conti, Sez. giurisdizionale Lazio, 17.7.2023, n. 510


cct

CCT: è consentito l’intervento su questioni già pendenti prima della sua costituzione?

cctDisciplinato per la prima volta nel d.lgs. 50/2016 all’art. 207 e subito abrogato nel 2017 (reintrodotto a tempo con l’art. 1, comma 11-14 del c.d. decreto Sblocca Cantieri, d.l. 32/2019 conv. in L. 55/2019), il Collegio consultivo tecnico (CCT) ha subito una sostanziale ristrutturazione grazie al c.d. decreto Semplificazioni 2020.

L’art. 6, d.l. 76/2020 (convertito, con modificazioni, in l. 120/2020) lo ha dunque riportato alla luce, confermandone lo scopo: garantire la rapida risoluzione di controversie eventualmente insorte nell’esecuzione del contratto. Non sono mancate, come sempre, alcuni dubbi in merito alla sua applicazione, specie considerando che il d.l. 76/2020 ne ha imposto la costituzione anche ai contratti di lavori sopra-soglia in corso di esecuzione.

Il CCT può pronunciarsi su questioni relative a contratti pubblici già in esecuzione al momento di entrata in vigore del d.l. 76/2020? Il CCT può deliberare su una questione già pendente alla data di entrata in vigore del summenzionato decreto?

Tali quesiti sono giunti all’attenzione dell’ANAC che, con una recente delibera, ha precisato alcuni aspetti rilevanti in merito ai compiti e alle questioni che possono formare oggetto delle determinazioni del CCT.

Lo scopo ed il campo di applicazione dell’art. 6 del d.l. 76/2020 sono assolutamente rilevanti nel caso di specie.

Nel dare una risposta ai predetti quesiti, l’ANAC ha innanzitutto ricordato che l’art. 6 ha reso obbligatoria per i contratti di lavori sora-soglia la costituzione di un CCT “prima dell’avvio dell’esecuzione, o comunque non oltre dieci giorni da tale data”. La norma ha previsto altresì che “Per i contratti la cui esecuzione sia già iniziata alla data di entrata in vigore del presente decreto, il collegio consultivo tecnico è nominato entro il termine di trenta giorni decorrenti dalla medesima data”.

Il decreto MIMS del 17 gennaio 2022 n. 12, recante le Linee guida per l’applicazione delle funzioni del CCT da parte delle stazioni appaltanti, ha stabilito poi, con riguardo a tutti i lavori già in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore del menzionato d.l. 76/2020, che le parti saranno tenute a sottoscrivere un apposito “atto aggiuntivo”, con il quale saranno individuate le tipologie di quesiti sottoponibili all’esame del Collegio, fattispecie che potranno anche essere già pendenti alla data di entrata in vigore del d.l. 76/2020, purché non definite.

Ne deriva, pertanto, l’obbligatorietà della costituzione del Collegio consultivo tecnico per tutti gli appalti di lavori di importo superiore alle soglie comunitarie; detto istituto dovrà quindi essere costituito prima dell’avvio dell’esecuzione del contratto (e, comunque, entro e non oltre dieci giorni da tale data) ovvero, per i contratti già in corso di esecuzione al momento di entrata in vigore del d.l. 76/2020, entro i trenta giorni successivi.

Quanto alle controversie che possono essere portate all’attenzione del CCT, invece, secondo l’ANAC “in caso di costituzione obbligatoria (…) il dato normativo esclude la possibilità, da parte della stazione appaltante, di sottrarre specifiche questioni all’esame del Collegio”. Diversamente, infatti, spiega l’Autorità, “si realizzerebbe una limitazione al suo funzionamento in possibile contrasto con l’obbligatorietà della relativa costituzione e con la predeterminazione ex lege delle relative attribuzioni”.

La stazione appaltante ha la facoltà di circoscrivere l’ambito di azione del Collegio nei soli casi di costituzione facoltativa dello stesso, ossia quando la costituzione del CCT e l’individuazione dei suoi compiti siano rimesse alla volontà delle parti (in questi termini, cfr. delibere ANAC nn. 206/2021 e 532/2021).

Tali conclusioni sono confermate, secondo ANAC, anche nel nuovo codice dei contratti pubblici, il d.lgs. 36/2023: gli artt. 215-218 (recanti la disciplina del CCT) – che, per espressa previsione dell’art. 224, comma 1, d.lgs. 36/2023, si applicano anche ai Collegi già costituiti e operanti al 1° aprile 2023 (data di entrata in vigore del predetto testo normativo) –, letti in combinato disposto con quanto previsto dall’Allegato V.2 al d.lgs. 36/2023, forniscono la compiuta disciplina dell’istituto in questione, confermandone la finalità deflattiva e preventiva del contenzioso, senza possibilità di sottrarre specifiche questioni all’esame del Collegio.

Con riferimento, infine, alla possibilità di sottoporre al CCT le controversie aventi ad oggetto la revisione del PEF – oggetto dello specifico quesito posto all’Autorità – l’ANAC ha precisato che la normativa di settore succedutasi nel tempo ha sempre previsto la possibilità di modificare il PEF in corso di esecuzione. In particolare, per espressa previsione degli artt. 165, comma 6 e 182, comma 3, d.lgs. 50/2016, è possibile la revisione del PEF in tutti i casi in cui si verifichino fatti – non riconducibili all’operato del concessionario – che incidano sull’equilibrio del piano economico finanziario medesimo. In conclusione, pertanto, l’Autorità ha rilevato che il PEF può essere modificato nel rispetto di quanto stabilito dalle summenzionate disposizioni “le quali costituiscono eccezione alla regola per cui i termini economici di un rapporto concessorio non possono essere modificati nel corso del suo svolgimento in quanto, così facendo, verrebbe del tutto vanificato lo scopo del meccanismo concorrenziale di scelta del contraente”.

ANAC, parere funzione consultiva, 20 giugno 2023, n. 29


whistleblowing

Whistleblowing: nuova disciplina e scadenze agli sgoccioli

whistleblowingCon il d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24 (pubblicato in G.U. il 15 marzo 2023 ed entrato in vigore il 30 marzo del 2023), è stata introdotta la nuova disciplina del whistleblowing in Italia.

Le nuove regole produrranno effetti a partire dal 15 luglio 2023, mentre per i soggetti privati per i quali opera l’obbligo di istituire un canale interno di segnalazione, detto obbligo decorre dal 17 dicembre 2023. Fino al 14 luglio 2023, dunque, le segnalazioni e le denunce all’autorità giudiziaria o contabile continueranno ad essere disciplinate dal previgente assetto normativo e regolamentare previsto per le pubbliche amministrazioni e per i soggetti privati (d.lgs. 190/2012, c.d. “Legge Severino”).

La prima scadenza è, dunque, agli sgoccioli ed è bene prestare attenzione alle novità più importanti apportate dal decreto. In particolare, gli enti già in possesso di propri canali di segnalazione dovranno adeguarli alle nuove disposizioni, mentre gli enti privi di canali interni dovranno tempestivamente attivarsi allo scopo di implementare nella propria organizzazione dei canali di whistleblowing.

Partiamo chiarendo che il d.lgs. 24/2023, attuativo della direttiva europea 2019/1937, raccoglie in un unico testo normativo l’intera disciplina delle segnalazioni di illeciti sul luogo di lavoro e delle tutele riconosciute ai segnalanti, al fine di incentivare il c.d. whistleblowing. È bene ricordare che con il termine whistleblowing si intende la rilevazione spontanea da parte di un individuo, detto whistleblower, di un illecito o di un’irregolarità commessa all’interno dell’ente pubblico o privato, del quale lo stesso sia stato testimone nell’esercizio delle proprie funzioni.

Viste le novità introdotte dal decreto, l’ANAC ha predisposto delle Linee Guida al fine di fornire tutte le indicazioni necessarie sia a chi intende presentare una segnalazione direttamente all’ANAC, sia agli enti pubblici e privati nell’organizzazione dei canali e modelli organizzativi di segnalazione interni (allo stato attuale, le predette Linee guida sono in attesa di essere definitivamente approvate).

Vediamo nel dettaglio le novità più importanti apportate dal d.lgs. 24/2023.

Il decreto estende il perimetro degli enti a cui si applica la nuova disciplina. L’art. 2, comma 1, lett. p) del d.lgs. 24/2023, infatti, contempla finalmente tra gli enti del settore pubblico anche gli organismi di diritto pubblico e i concessionari di diritto pubblico; mentre, per quanto concerne gli enti privati, il decreto prevede l’applicazione della disciplina per tutte le imprese che hanno impiegato, nell’ultimo anno, la media di 50 lavoratori subordinati con contratti di lavoro a tempo indeterminato o determinato (art. 2, comma 1, lett. q) del d.lgs. 24/2023). In precedenza, la disciplina trovava applicazione solo per le imprese che avessero adottato modelli di organizzazione e di compliance ai sensi del d.lgs. 231/2001.

Ad essere esteso è altresì il novero dei soggetti che possono presentare una segnalazione e, dunque, che godono della relativa protezione: oltre ai dipendenti degli organismi di diritto pubblico e dei dipendenti dei concessionari di pubblico servizio, l’art. 3 del d.lgs. 24/2023 individua anche i volontari e tirocinanti che prestano la loro attività per soggetti del terzo settore, azionisti e lavoratori autonomi che prestano la propria attività presso soggetti del settore pubblico, compresi soggetti del settore pubblico che forniscono beni o servizi o che realizzano opere in favore di terzi.

Altra novità degna di nota è l’introduzione della c.d. “segnalazione esterna”, dove il segnalante, oltre a rivolgere la propria segnalazione ai canali interni previsti dalla sua impresa o dal proprio ente pubblico, può rivolgersi direttamente all’ANAC o ai canali di divulgazione pubblica, così come individuati dalla stessa Autorità nelle proprie Linee guida (art. 7 del d.lgs. 24/2023).

La segnalazione presso il canale dell’ANAC è possibile quando, ad esempio, il segnalante teme il rischio di ritorsioni oppure ha già effettuato una segnalazione interna e non ha avuto seguito. Le modalità concrete di presentazione e gestione delle segnalazioni esterne sono contenute nelle Linee guida predisposte dalla stessa autorità.

Un ulteriore aspetto innovativo su cui porre attenzione riguarda la tutela dei soggetti che intervengono nel corso della segnalazione – a sostegno, dunque, del segnalante - e che potrebbero essere destinatari, a loro volta, di ritorsioni in ragione del ruolo intrapreso. In tale senso, il nuovo art. 2, comma 1, lett. m) del decreto, specifica chiaramente che la ritorsione è una condotta perseguibile anche quando solo “tentata o minacciata”. I soggetti che intervengo – per così dire, ad adiuvandum – nella segnalazione e ai quali viene estesa la tutela, sono individuati all’art. 3, comma 5 dalla lett. a) alla lett. d). Tra questi rientra, ad esempio: il facilitatore, persona fisica che assiste il segnalante nel processo di segnalazione; le persone che sono legate, nell’ambito di un medesimo contesto lavorativo del segnalante, da un legale affettivo; colleghi di lavoro del segnalante.

A tutela del segnalante e dei soggetti che partecipano alla segnalazione, il decreto enfatizza i 'meccanismi finalizzati a preservare la riservatezza, oltre che l’identità del segnalante, nonché qualsiasi altra informazione o elemento della segnalazione dal cui disvelamento si possa dedurre direttamente o indirettamente l’identità del segnalante, così come disciplinato dall’art. 12.

Anche su quali siano le violazioni oggetto di segnalazione o denuncia, vi è una sostanziale differenza rispetto al passato. La legge Severino, infatti, prevedeva tra le violazioni segnalabili solo gli illeciti civili e amministrativi, gli illeciti penali limitatamente ai delitti contro la pubblica amministrazione, previsti dal codice penale – come, ad esempio, il reato di corruzione – e le condotte illecite rilevanti ai sensi del d.lgs. 231/2001. Oggi, invece, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1 e 2 distinguiamo le violazioni del diritto nazionale, in cui adesso è possibile segnalare tutti gli illeciti penali, gli illeciti contabili e ogni tipo di irregolarità e tutta una serie di disposizioni in materia di diritto dell’UE, come atti od omissioni riguardanti il mercato interno, che compromettono la libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali.

Infine, in merito alla responsabilità della persona segnalante, l’art. 16 comma 3 prevede che “quando  è  accertata, anche con sentenza di primo grado, la  responsabilità  penale  della persona segnalante per i  reati  di  diffamazione  o  di  calunnia  o comunque per i medesimi reati commessi con la denuncia  all’autorità giudiziaria o contabile ovvero la sua responsabilità civile, per  lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave, le tutele  di  cui  al presente  capo  non  sono  garantite  e  alla  persona  segnalante  o denunciante è irrogata una sanzione disciplinare”.

Il decreto conclude, infine, disciplinando un nuovo apparato sanzionatorio per il soggetto segnalato che ha tenuto dei comportamenti illeciti: fermo restando le varie forme di responsabilità, l’art. 21 consente all’ANAC di irrogare una sanzione amministrativa pecuniaria fino a 50.000 euro.

d.lgs. 10 marzo 2023, n. 24

Linee guida ANAC whistleblowing


irregolarità

Irregolarità nella procedura di gara e revoca dei finanziamenti: i presupposti secondo la CGUE

irregolaritàCon una recente sentenza, la CGUE è intervenuta a chiarire il concetto di irregolarità nella gestione delle procedure di erogazione di finanziamenti europei – nel caso di specie una gara d’appalto – che legittima la domanda di restituzione di somme di denaro indebitamente percepite (nel caso, percepite dalla stazione appaltante e da questa corrisposte all’aggiudicatario dell’appalto).

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Lazio (ord. TAR Lazio, 4 agosto 2021, n. 9204), che ha disposto il rinvio pregiudiziale alla CGUE, il Ministero dei Trasporti aveva disposto il recupero delle somme erogate per l’esecuzione di opere finalizzate all’ammodernamento di un tratto stradale (opere che erano state, medio tempore, completate ed aperte al pubblico), dichiarando contestualmente che il residuo non ancora erogato non era dovuto. L’opera in questione era stata finanziata con fondi derivanti dal bilancio dell’Unione europea.

La richiesta di restituzione di tali somme, indirizzata alla stazione appaltante che aveva bandito la gara e che aveva a sua volta pagato l’appaltatore, era essenzialmente motivata dal fatto che, secondo il Ministero, l’aggiudicazione dell’appalto era viziata da un’irregolarità con carattere di frode.

Orbene, secondo gli artt. 4 e 5 del Regolamento n. 2988/1995 – che mira a combattere le frodi contro gli interessi finanziari dell'Unione europea –, in presenza di irregolarità nell’applicazione del diritto europeo è possibile disporre la revoca del vantaggio indebitamente ottenuto.

Nel caso di specie, il Ministero era stato informato di un’indagine penale che aveva messo in luce un sistema corruttivo che coinvolgeva alcuni funzionari componenti della commissione aggiudicatrice che aveva diretto le operazioni di gara. Due componenti della commissione giudicatrice, infatti, erano sotto indagine per corruzione, in quanto – secondo l’accusa – avevano ricevuto, da un dirigente dell’aggiudicataria, somme di denaro al fine di favorire quest’ultima nell’appalto in questione.

Il provvedimento di recupero delle somme è stato ritenuto illegittimo dalla stazione appaltante – e quindi impugnato dinanzi al giudice amministrativo – atteso che:

1) la stazione appaltante non aveva subito alcuna condanna per le presunte attività corruttive poste in essere;

2) non vi sarebbe un nesso tra l’irregolarità e le spese sostenute, in quanto i fondi europei impiegati per la realizzazione erano stati correttamente impiegati per l’esecuzione dell’opera (come detto, realizzata ed aperta al pubblico);

3) non vi erano elementi per sostenere che l’aggiudicatario avesse ottenuto l’appalto in maniera illecita.

Nel rimettere la questione alla Corte UE, il TAR Lazio ha innanzitutto osservato che l’unica potenziale irregolarità (di cui, peraltro, veniva raggiunta una prova soltanto parziale) era stata commessa dal legale rappresentante dell’aggiudicataria, il quale avrebbe tentato di influenzare la decisione sull’aggiudicazione della gara (c.d. corruzione attiva). Tuttavia, nei suoi confronti il processo penale risultava ancora pendente.  La dirigente della stazione appaltare, invece, si era limitata a chiedere a due membri della commissione di favorire l’aggiudicatario, ma durante il processo penale non era stato possibile chiarire se tale condotta avesse di fatto favorito o meno l’aggiudicatario.

Il Collegio si chiede, dunque, se la nozione di «irregolarità», legittimante il recupero delle somme utilizzate per un finanziamento, sia applicabile anche in assenza di una sentenza di condanna penale e in mancanza di prove circa l’illegalità dell’aggiudicazione e se, in caso di irregolarità, gli Stati membri siano tenuti ad applicare automaticamente un tasso di rettifica finanziaria del 100% oppure possano stabilire il tasso caso per caso.

La Corte di Giustizia ha innanzitutto rilevato che nel caso di specie non sussiste elemento che consenta di dare per certa l’esistenza di una frode, dal momento che i procedimenti penali sono tuttora pendenti e, dunque, non sussiste una condanna per «atti di corruzione». Le condotte, dunque, possono costituire, in tale fase, solo un «sospetto di frode», ai sensi dell’art. 27, lett. c), del Regolamento n. 1828/2006, ossia un’irregolarità che ha determinato l’inizio di un procedimento amministrativo o giudiziario a livello nazionale volto a determinare l’esistenza di un comportamento intenzionale.

Proseguono poi i giudici ricordando che con il termine irregolarità si intende, per espressa previsione dell’art. 2, punto 7, del Regolamento n. 1083/2006,  “qualsiasi violazione di una disposizione del diritto comunitario derivante da un'azione o un'omissione di un operatore economico che abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale delle Comunità europee mediante l'imputazione di spese indebite al bilancio generale”.

Sono, dunque, tre le condizioni che devono simultaneamente verificarsi perché sussista l’irregolarità, ossia:

1) la violazione del diritto comunitario;

2) l’azione (o l’omissione) dell’operatore economico;

3) il pregiudizio al bilancio UE che ne deriva.

Quanto alla prima condizione, secondo il Collegio, assumono rilevanza non soltanto le violazioni di disposizioni del diritto dell’Unione in quanto tali, ma anche disposizioni del diritto nazionale che sono applicabili alle operazioni sostenute dai fondi strutturali dell’Unione e che contribuiscono, in tal modo, a garantire l’applicazione del diritto dell’Unione relativo alla gestione dei progetti finanziati tramite tali fondi.

L’Unione Europea finanzia, mediante i suoi fondi, solo azioni attuate in piena conformità ai principi e alle norme di aggiudicazione degli appalti pubblici e, dunque, nel rispetto del principio di parità di trattamento degli offerenti e del principio di trasparenza.

Applicando tali principi nel caso di specie, secondo la Corte emerge che le accuse di atti di corruzione diretti a influire sul procedimento decisionale di aggiudicazione dell’appalto pubblico sono tali da non poter escludere che taluni membri della commissione di gara abbiano favorito uno degli offerenti e discriminato i suoi concorrenti, violando così i principi di trasparenza e di parità di trattamento degli offerenti.

Per quel che riguarda la seconda condizione, spiega il Collegio, perché l’azione o l’omissione costitutive della violazione del diritto comunitario possano considerarsi irregolarità, non è necessario dimostrare la sussistenza di qualsivoglia negligenza ovvero intenzionalità da parte dell’operatore economico in questione.

Con riferimento, infine, alla terza condizione, - ossia che la violazione del diritto dell’Unione o del diritto nazionale da parte di un operatore economico abbia o possa avere come conseguenza un pregiudizio al bilancio generale dell’Unione -,  il fatto che la disposizione utilizzi l’espressione “possa avere come conseguenza”, significa, secondo la Corte, che la sussistenza dell’irregolarità si avrà ogniqualvolta non sia possibile escludere che la violazione abbia avuto effetti sul bilancio comunitario.

Sulla scorta di tali considerazioni, la Corte ha statuito che il termine irregolarità deve interpretarsi nel senso che esso ricomprende tutti quei “comportamenti che possono essere qualificati come atti di corruzione praticati nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico avente ad oggetto la realizzazione di lavori cofinanziati da un fondo strutturale dell’Unione europea e per i quali è iniziato un procedimento amministrativo o giudiziario, anche quando non è provato che tali comportamenti abbiano avuto una reale incidenza sulla procedura di selezione dell’offerente e non è stato accertato alcun danno effettivo al bilancio dell’Unione”.

Secondo la Corte, dunque, possono essere qualificati come «atti di corruzione praticati nell’ambito di una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico» tutti quei comportamenti che, per loro stessa natura, possono influire sull’aggiudicazione di tale appalto. Di conseguenza, non si può escludere che le condotte poste in essere nel caso di specie abbiano avuto un’incidenza sul bilancio del fondo di cui trattasi.

In merito, invece, al tasso di rettifica finanziaria da applicare, questo, secondo la Corte, deve essere valutato caso per caso, nel rispetto del principio di proporzionalità, prendendo segnatamente in considerazione la natura e la gravità delle irregolarità constatate, nonché la loro incidenza finanziaria.

CGUE, Sez. III, 8.6.2023, C-545/2021


concessioni

Concessioni demaniali: la cessione non autorizzata è causa di decadenza

concessioniCon sentenza 7 giugno 2023, n. 5616, la Sezione VII del Consiglio di Stato si è pronunciata con riguardo alla decadenza di una concessione demaniale (se non l'hai ancora scaricato, cliccando qui potrai ottenere gratuitamente il paper sulle concessioni) nel caso di cessione non autorizzata del rapporto concessorio ad altri soggetti.

I FATTI

Nel 2004 l’appellante aveva partecipato ad un bando per l’assegnazione in concessione di nuove aree demaniali per finalità turistiche, da destinare a stabilimento balneare.

Nonostante l’assegnazione provvisoria della concessione fosse avvenuta nel 2005, il Comune aveva rilasciato la concessione demaniale solo nel 2017, all’esito di una lunga istruttoria finalizzata a risolvere alcuni problemi progettuali.

Nel 2020, la titolare dello stabilimento aveva avanzato una richiesta di subentro nella titolarità della concessione demaniale a favore di una società e una domanda per il prosieguo dei lavori di completamento dello stabilimento balneare, direttamente a nome della nuova società.

Il Comune aveva tuttavia respinto sia la richiesta di subentro che la richiesta di ripresa dei lavori a nome della società subentrante. La ragione del diniego veniva giustificata dal Comune in quanto “la realizzazione delle opere e il godimento del bene oggetto di concessione non si erano ancora realizzati”.

La titolare dello stabilimento presentava allora una nuova comunicazione di prosieguo dei lavori che veniva tuttavia respinta dal Comune in quanto la cartellonistica di cantiere attribuiva ancora la comunicazione di inizio lavori a nome della società a cui era stato negato il subentro.

Dopo aver rettificato la cartellonistica i lavori riprendevano ma contestualmente il Comune notificava l’avvio del procedimento di decadenza della concessione demaniale. A circa 10 giorni dall’apertura dello stabilimento, avvenuta per la stagione balneare 2020, il Comune dichiarava decaduta la concessione, vietando il prosieguo dell’attività.

La decadenza della concessione demaniale veniva motivata dal Comune in ragione innanzitutto della violazione dell’art. 47, comma 1, lett. e) cod. nav., con riferimento alla ipotesi di “abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione”.

La decadenza della concessione era stata altresì motivata dall’amministrazione, seppure marginalmente ed in via subordinata, al “mancato utilizzo prolungato nel tempo” risalendo la concessione al giugno 2017 e essendo stato lo stabilimento aperto solo ad agosto 2020.

LA SENTENZA DI PRIMO GRADO

La titolare dello stabilimento ha impugnato il provvedimento innanzi al TAR Lazio che con sentenza n. 6018/2021 ha confermato l’operato del Comune.

Secondo il TAR, infatti, la ricostruzione dei fatti posta alla base della dichiarazione di decadenza dalla concessione, relativa ad un’illegittima sostituzione di altri nel rapporto concessorio di cui è titolare la ricorrente, è apparsa corretta. In particolare:

  • l’effettuazione dei lavori di sistemazione dello stabilimento non era stata commissionata dalla ricorrente, titolare della concessione demaniale, ma da altre società amministrate da altro soggetto;
  • il deposito cauzionale non era stato effettuato dalla titolare dello stabilimento balneare ma da un’altra società amministrata da altro soggetto;
  • il cartello di cantiere indicava come committente dei lavori un’altra società;
  • la titolare dello stabilimento risultava avere la funzione ora di “barista precaria” ora di preposta alle attività di somministrazione di cibi e bevande, con evidente incongruenza rispetto alla posizione di amministratrice di un gruppo di società.

IL GIUDIZIO D'APPELLO

Avverso la sentenza del TAR la titolare ha proposto appello al Consiglio di Stato.

Secondo l’appellante, il provvedimento di decadenza sarebbe illegittimo in quanto nel caso di specie non si sarebbe trattato di una sostituzione nel godimento della concessione ma di un avvalimento da parte del concessionario dell’opera di terzi per realizzare le opere necessarie e autorizzate per la gestione del bene demaniale.

Un concessionario, infatti, ben può avvalersi anche di altri soggetti per la gestione concreta dell’attività nel suo complesso, utilizzando un socio in grado di comprovare la specifica esperienza nel settore, senza che ciò determini un subingresso non autorizzato nella concessione; proprio nelle attività di somministrazione di alimenti e bevande, peraltro, è possibile distinguere la figura del preposto da quella del titolare o rappresentante legale.

Quanto alla decadenza della concessione per il “mancato utilizzo prolungato nel tempo”, l’appellante ha lamentato che il procedimento amministrativo per arrivare alla concessione del tratto di arenile in questione si era protratto per ben 13 anni (dal 2005 al 2017) e che la concessione rilasciata alla ricorrente aveva la durata complessiva di 6 anni e non prevedeva alcun termine di avvio, mentre il Comune non aveva mai sollecitato la realizzazione dello stabilimento.

Il Consiglio di Stato ha tuttavia respinto l’appello, confermando la sentenza di primo grado.

In merito al protratto mancato utilizzo della concessione, secondo i giudici, questo era assolutamente riscontrabile nel caso di specie e legittimante la decadenza. Più precisamente, a fronte di una comunicazione di inizio lavori del luglio 2017, la titolare aveva comunicato la fine parziale dei lavori circa un mese dopo, salvo poi comunicarne la ripresa soltanto nel maggio 2020, a tre anni dal rilascio della concessione: “Si tratta di tre anni in cui il bene demaniale non è mai stato utilizzato né usufruito dalla collettività”.

In merito i giudici hanno altresì escluso la lesione dei principi di correttezza, buona fede e tutela dell’affidamento che l’amministrazione avrebbe ingenerato con i suoi provvedimenti favorevoli. La concessionaria, infatti, era pienamente consapevole di non aver dato attuazione per lungo tempo agli obblighi previsti nel titolo conseguito.

Quanto alla motivazione riferita all’indebito subentro nel godimento della concessione, questa è stata ritenuta del tutto legittima in ragione dell’incongruenza tra i nominativi dei soggetti che avanzavano richieste all’amministrazione.

La comunicazione di inizio lavori del maggio 2020, infatti, veniva effettuata non dalla concessionaria, ma dalla rappresentante legale di una società del tutto estranea al rapporto concessorio ed immesso illegittimamente nella gestione. Dai verbali della Guardia Costiera risultavano poi una serie di circostanze tali da far ritenere non solo il subentro abusivo della società nel rapporto concessorio, ma anche un quadro ben più complesso di presumibili intrecci occulti o simulati con più società.

Alla luce delle risultanze documentali, dunque, a parere dei Giudici, l’adozione di un provvedimento di decadenza risultava da parte del Comune assolutamente legittimo e doveroso: “Al ricorrere delle ipotesi decadenziali disciplinate dall'art. 47 del codice della navigazione l'Amministrazione concedente esercita una discrezionalità limitata al riscontro dei relativi presupposti fattuali. Ciò comporta sul piano sostanziale che, una volta appunto accertata la sussistenza di detti presupposti, il provvedimento di decadenza ha natura sostanzialmente vincolata, con conseguente esclusione di ogni possibile bilanciamento tra l'interesse pubblico e le esigenze del privato concessionario.” (Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 3044, del 17 giugno 2014).

Cons. St., Sez. VII, 7.6.2023, n. 5616

 


Nuovo codice dei contratti pubblici: le novità nel paper di Legal Team

NOTES – Nuovo codice dei contratti pubblici.

Focus su servizi e forniture

Vista la confusione che regna sovrana, abbiamo predisposto un paper, a cura di Rosamaria Berloco e Giampaolo Austa con la collaborazione di Giulio Rivellini e sulle novità del nuovo codice dei contratti pubblici in modo da rendere accessibile il quadro normativo in cui ci troviamo a operare.

Compila il form per ricevere gratuitamente il Notes Nuovo codice dei contratti pubblici

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soccorso

Soccorso istruttorio negli appalti PNRR: l’errata indicazione dei servizi di punta non è soccorribile

soccorsoCon una recente sentenza, il TAR Lazio ha ribadito l’inapplicabilità del soccorso istruttorio nel caso in cui l’operatore economico commetta un errore in merito all’indicazione dei servizi di punta. La sentenza è degna di nota anche perché valorizza il principio di autoresponsabilità con particolare riferimento agli appalti PNRR.

Al fine di comprendere la posizione assunta dal TAR, è necessario osservare i peculiari connotati della gara in contestazione.

Si trattava, infatti, di un accordo quadro per la realizzazione di interventi di rigenerazione urbana e di rivitalizzazione economica e, dunque, per la realizzazione di infrastrutture legate ai Piani Urbanistici Integrati, in attuazione del PNRR.

La gara era altresì suddivisa in sei lotti geografici in base alla dislocazione territoriale dei singoli interventi da realizzare. All’interno di ciascun lotto erano istituiti, a sua volta, cinque distinti sub-lotti prestazionali - raggruppati diversamente in base al tipo di prestazione richiesta, localizzazione, vincoli temporali e valore – all’interno dei quali sono individuati i c.d. “cluster”.

Il disciplinare di gara disponeva che per determinare i possibili aggiudicatari di ogni singolo lotto “si procederà allo scorrimento della graduatoria assegnando i cluster da quello che ha il valore più alto a quello che ha il valore più basso”, valore determinabile tenendo conto di vari fattori, tra cui i “servizi di punta”, che devono complessivamente raggiungere almeno lo 0,40% dell’importo complessivo del cluster.

La ricorrente risultava assegnataria di un cluster dal valore più basso rispetto a quello per cui sarebbe dovuta risultare aggiudicataria, in ragione dei requisiti posseduti. La mancata assegnazione del cluster di importo più elevato era stata causata da un errore commesso dalla società, che aveva dichiarato di possedere “servizi di punta” per un valore complessivo minore a quello reale, effettuando un calcolo numerico sbagliato, basato sul valore prestazione del servizio reso e non su quello di ciascuna classe a cui il servizio si riferisce.

L’errore commesso dalla società aveva dunque precluso alla stessa l’assegnazione del cluster di maggior valore, sebbene avesse tutti i requisiti per risultare utilmente aggiudicataria.

All’atto dell’aggiudicazione del cluster di minor valore, la ricorrente inoltrava alla stazione appaltante un’istanza di annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione e chiedeva una rimodulazione delle operazioni di assegnazione del cluster di maggior importo, in quanto le dichiarazioni dei requisiti dalla stessa effettuati era affetta da mero errore materiale.

La stazione appaltante respingeva tale istanza, osservando che l’errore dell’istante non era soggetta al soccorso istruttorio in quanto non oggettivamente riconoscibile in corso di gara. Inoltre, la modifica in autotutela della ripartizione dei cluster avrebbe determinato una gravissima violazione del principio della par condicio.

L’istante decide quindi di presentare ricorso, lamentando di essere stata penalizzata in sede di ripartizione dei cluster e che l’attivazione, da parte della stazione appaltante, del soccorso istruttorio avrebbe sanato il “mero errore materiale” commesso dalla stessa in sede di predisposizione della documentazione amministrativa.

Secondo la ricorrente, essere era stata indotta in errore dalla scarsa chiarezza degli atti di gara ed in specie da un disciplinare definito “impervio”, che non avrebbe specificato “in cosa consistesse il valore del servizio, vale a dire riferito alla prestazione fatturata del professionista o al valore dell’opera cui il servizio si riferisce”.

Il TAR Lazio ha ritenuto infondata la censura.

Secondo i giudici, il soccorso istruttorio viene autorizzato dalla stazione appaltante in caso di errori formali o aspetti meritevoli di approfondimento. Secondo giurisprudenza consolidata, infatti, “sono rettificabili eventuali errori di scritturazione e di calcolo, ma sempre a condizione che alla rettifica si possa pervenire con ragionevole certezza, e comunque senza attingere a fonti di conoscenza estranee all’offerta medesima o a dichiarazioni integrative o rettificative dell’offerta” (Cons. St., Sez. V, 9.12.2020, n. 7752).

In altre parole, spiegano i giudici, “affinché possa pretendersi dalla parte pubblica l’attivazione del soccorso istruttorio è necessario, anche alla luce dei principi sopra richiamati, che gli errori formali commessi dagli operatori economici siano oggettivamente “riconoscibili””.

Nel caso di specie, invece, dalla lettura del DGUE e della documentazione della gara non era rinvenibile nessun elemento o indizio tale da far presumere l’esistenza di un errore in merito all’indicazione “dei servizi di punta” da parte del ricorrente.

Secondo il Collegio, infatti, sarebbe bastata una lettura del bando meticolosa da parte dell’operatore per rendersi conto che l’importo minimo dei “servizi di punta” per l’assegnazione dei cluster era da riferirsi al fatturato dei “servizi di punta” di ogni concorrente, e non del fatturato maturato per quelle prestazioni.

I principi di par condicio tra i concorrenti, buon andamento e speditezza della gara escludono, dunque, a parere del Collegio, che sussista in capo alle stazioni appaltanti l’onere di avviare una “caccia all’errore” su tutte le dichiarazioni fornite dai concorrenti.

L’errore del ricorrente, quindi, è dettato da una superficiale lettura della lex specialis e ad un mancato approfondimento del quadro normativo di riferimento.

Degna di nota è l’ulteriore motivazione offerta dai giudici nel valorizzare l’autoresponsabilità e diligenza dei concorrenti, propria della gara di specie.

Secondo i giudici, infatti, ”la scelta dell’Amministrazione di non attivare il soccorso istruttorio si rivela coerente con i principi di autoresponsabilità e par condicio e con il principio di speditezza delle gare, il quale assume una particolare pregnanza nelle gare finalizzate all’attuazione di obiettivi finanziati da PNRR.

TAR Lazio, Roma, Sez. IV, 30.5.2023, n. 9149