Whistleblowing: linee guide per imprese e PA

Whistleblowing: linee guide per imprese e PA.

Aggiornato al d.lgs. 24/2023 e alle Linee guida ANAC del 2023.

Vista la confusione che regna sovrana, abbiamo predisposto un paper, a cura di Rosamaria Berloco e Giampaolo Austa, sull’istituto del whistleblowing in modo da rendere accessibile il quadro normativo in cui ci troviamo a operare.

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procedure mobility sharing - legal team

Micromobilità in sharing: esclusa l'applicazione del codice dei contratti pubblici

procedure mobility sharing - legal teamCome si individuano gli operatori che gestiscono i servizi di mobilità in sharing? In assenza di puntuali riferimenti normativi, i comuni hanno dato accesso al mercato della micromobilità cittadina tramite strumenti normativi differenti.

Ne abbiamo parlato diffusamente nel nostro Paper Smart mobility: un dialogo in continua evoluzione, scaricabile gratuitamente a questo link.

La domanda che spesso gli operatori e le amministrazioni si pongono è la seguente: per l’individuazione degli operatori si applica il codice dei contratti pubblici?

Il Consiglio di Stato, con la sentenza del 2 maggio 2023 n. 4368 (che abbiamo commentato qui), aveva già avuto modo di chiarire che le procedure comparative per l’assegnazione del servizio di monopattini elettrici in sharing non hanno né natura concessoria, né rappresentano un appalto di servizi, per cui resta esclusa l’applicazione della disciplina del Codice dei Contratti Pubblici.

Tale conclusione è stata di recente confermata dal Consiglio di Stato nella sentenza del 3 novembre 2023, n. 9541.

La pronuncia trae origine da una procedura indetta dal Comune di Bari per l’individuazione di operatori interessati a svolgere il servizio di noleggio di monopattini elettrici con sistema di free floating sul territorio comunale.

In questo caso i giudici hanno precisato che il servizio di noleggio di monopattini elettrici non è servizio pubblico mancando, nella fattispecie, quantomeno uno dei requisiti essenziali del servizio pubblico, ossia l’assunzione del servizio da parte dell’amministrazione, presupposto anche dell’eventuale affidamento a terzi.

Il servizio rientra, pertanto, tra le attività imprenditoriali svolte da privati tendenzialmente liberalizzate, così come descritte dalla nota direttiva 2006/123/CE, c.d. direttiva Bolkenstein.

Il servizio di noleggio monopattini è un servizio rivolto al pubblico indistinto degli utenti, per cui trova applicazione l’art. 9 della direttiva 2006/123/CE, “in base al quale queste attività sono soggette alla previa autorizzazione qualora lo richiedano ragioni imperative d’interesse generale, che nella specie possono essere rappresentate dalla tutela della sicurezza della circolazione stradale e dalla tutela degli stessi utenti che noleggiano i monopattini elettrici”.

L’arresto del Consiglio di Stato, dunque, conferma che il servizio in esame costituisce una attività imprenditoriale liberalizzata svolta dai privati.

Cons. St., Sez. V, 3.11.2023, n. 9541


pagamento diretto subappalto - legal team

Subappalto: quando è possibile il pagamento diretto del subappaltatore da parte della committente?

pagamento diretto subappalto - legal teamLa disciplina del pagamento diretto del subappaltatore da parte dell’Amministrazione committente ha subito un’evoluzione significativa a partire dal codice dei contratti pubblici del 2006 fino ad arrivare al nuovo codice del 2023.

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Sassari, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della pretesa di un subappaltatore di ottenere il pagamento delle proprie prestazioni da parte dell’Amministrazione, ha ripercorso l’evoluzione dell’istituto, fornendo alcuni chiarimenti sull’operatività delle varie disposizioni che si sono succedute nel tempo.

Ma andiamo per gradi, partendo dai fatti.

Una società subappaltatrice aveva ottenuto un decreto ingiuntivo per il pagamento di alcune forniture – nel caso di specie si trattava di fornitura e trasporto di inerti per il confezionamento di conglomerato bituminoso - nei confronti dell’amministrazione committente per un importo pari a € 80.118,32, oltre interessi.

Nell’opporsi decreto ingiuntivo, la committente evidenziava come il contratto d’appalto fosse stato stipulato nel 2011 e che le norme ratione temporis applicabili ponevano il pagamento diretto del subappaltatore come mera facoltà. In aggiunta, la Committente aveva sostenuto di non aver mai autorizzato il subappalto in parola e che il contratto di appalto stipulato con la società appaltatrice escludeva espressamente il pagamento diretto da parte dell’Amministrazione in favore del subappaltatore.

Il Tribunale di Sassari (sentenza 4 marzo 2021, n. 214) aveva accolto l’opposizione proposta dall’amministrazione committente e aveva revocato il decreto ingiuntivo emesso.

Il Tribunale aveva ritenuto che, poiché il contratto di appalto era stato stipulato nel 2011, nel caso di specie risultava applicabile la disciplina tracciata dall’art. 118 d.lgs. 163/2006 che escludeva espressamente il pagamento diretto dei subappaltatori e, conseguentemente, dei subfornitori.

Avverso tale sentenza ha proposto appello la società subappaltatrice.

La società ha sostenuto che il pagamento diretto non è stato introdotto dal codice dei contratti pubblici d.lgs. 50/2016, bensì dall’art. 13, comma 2, lett. a) L. 180/2011 e successivamente meramente recepito dall’art. 105 comma 13 d.lgs. 50/2016. Sulla scorta di quanto previsto dall’art. 118 comma 3 d.lgs. 163/2006, gli artt. 13, comma 2, lett. a) e 15 L. 180/2011 avrebbero ampliato l’ambito applicativo dell’istituto del pagamento diretto, estendendolo agli esecutori in subcontratto di forniture e garantendo la corresponsione diretta dei pagamenti, mediante bonifico bancario, in favore dei subappaltatori. La disciplina di cui alla L. 180/2011 non si sarebbe limitata a disciplinare le modalità di pagamento diretto tramite bonifico bancario, ma avrebbe espressamente introdotto l’obbligo di pagamento diretto da parte della committenza in favore del subappaltatore.

La Corte ha tuttavia rigettato l’appello promosso.

Ricordano i giudici come la disciplina del pagamento diretto del subappaltatore ha subito importanti modifiche a livello normativo: dall’originaria previsione dell’istituto del pagamento diretto del subappaltatore da parte del committente quale mera facoltà, in alternativa al suo pagamento mediato e indiretto per tramite dell’appaltatore ex art. 118 d.lgs. 163/2006, si è passati all’obbligatorietà del pagamento diretto del subappaltatore – e del subfornitore – da parte della stazione appaltante, espressamente prevista dall’art. 105 comma 13 d.lgs. 50/2016.

Nel solco di tale evoluzione normativa è intervenuta la disciplina degli artt. 13 e 15 L. 180/2011, che avrebbe semplicemente contribuito a chiarire le modalità operative del pagamento diretto mediante bonifico bancario nell’ipotesi in cui l’Ente committente avesse previsto nel contratto di appalto il pagamento diretto del subappaltatore, in ossequio della disciplina contemplata dal d.lgs. 163/2006.

In base all’art. 118 d.lgs. 163/2006, dunque, la stazione appaltante, al momento della pubblicazione del bando di gara, poteva scegliere la modalità di pagamento del subappaltatore, o mediante corresponsione diretta “al subappaltatore o al cottimista dell'importo dovuto per le prestazioni dagli stessi eseguite” o prevedendo l’obbligo per gli affidatari “di trasmettere, entro venti giorni dalla data di ciascun pagamento effettuato nei loro confronti, copia delle fatture quietanzate relative ai pagamenti da essi affidatari corrisposti al subappaltatore o cottimista, con l'indicazione delle ritenute di garanzia effettuate”. In caso di ritardo nella trasmissione di tali fatture quietanziate, la norma prevedeva la sospensione da parte della stazione appaltante del successivo pagamento nei confronti dell’appaltatore.

La norma, secondo il parere della Corte, racchiudeva una “disciplina di minor favore per il subappaltatore, posto che, ai sensi del previgente art. 118 co. 3 d.lgs. 163/2006, l’istituto del pagamento diretto del subappaltatore era previsto quale mera facoltà – e non obbligo – per la stazione appaltante”. La scelta, dunque, era rimessa alla stazione appaltante e non al subappaltatore.

Successivamente, gli artt. 13 e 15 L. 180/2011 hanno introdotto una disciplina che certamente ha dato adito ad alcuni dubbi interpretativi.

In particolare, l’art. 13, comma 2 lett. a) ha disposto che “ nel rispetto della normativa dell'Unione europea in materia di appalti pubblici, al fine di favorire l'accesso delle micro, piccole e medie imprese, la pubblica amministrazione e le autorità competenti, purché ciò non comporti nuovi o maggiori oneri finanziari, provvedono a: a) suddividere, nel rispetto di quanto previsto dall'articolo 29 del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, gli appalti in lotti o lavorazioni ed evidenziare le possibilità di subappalto, garantendo la corresponsione diretta dei pagamenti da vari stati di avanzamento”.

L’art. 15 ha invece esteso l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 118, comma 3 d.lgs. 163/2006 “anche alle somme dovute agli esecutori in subcontratto di forniture con posa in opera le cui prestazioni sono pagate in base allo stato di avanzamento lavori ovvero stato di avanzamento forniture”.

La Corte ricorda che, a seguito dell’entrata in vigore delle predette norme, ci si è chiesti se le stesse avessero portata derogatoria ed innovativa rispetto a quelle contenute nel d.lgs. 163/2006, ovvero meramente specificativa dell’art. 118 d.lgs. 163/2006 e del successivo art. 105 d.lgs. 60/2016.

A parere della Corte d’Appello, gli artt. 13 e 15 della L. 180/2011 non hanno comportato una abrogazione parziale dell’art. 118 comma 3 d.lgs. 163/2006, introducendo l’obbligo di pagamento diretto del subappaltatore da parte del committente, perché tali norme avrebbero meramente una portata specificativa della disciplina del subappalto, prevedendo espressamente la modalità di pagamento mediante bonifico bancario, nella sola ipotesi in cui la stazione appaltante avesse optato per il pagamento diretto del subappaltatore: “Tale norma, dunque, sarebbe espressiva di una mera modalità operativa (il bonifico bancario) attraverso cui eseguire il pagamento diretto, laddove previsto dalla stazione appaltante”.

L’obbligatorietà del pagamento diretto del subappaltatore in determinate ipotesi, continuano i giudici, è stata sancita espressamente soltanto con l’entrata in vigore del codice dei contratti pubblici d.lgs. 50/2016 (non abbicabile al caso di specie), “peraltro recepito dall’art. 119 co. 11 del novellato codice degli appalti pubblici, di cui al d.lgs. 36/2023”.

I giudici hanno così rigettato l’appello promosso dalla società subappaltatrice. In aggiunta, i giudici hanno chiarito che il contratto di appalto in questione risultava stipulato in data 24.11.2011, a seguito dell’aggiudicazione avvenuta in data 23.09.2011, per cui il bando era senza dubbio anteriore rispetto all’entrata in vigore della L. 180/2011 che, dunque, non poteva in ogni caso trovare applicazione.

Corte d’Appello Sassari, 11.10.2023, n. 332


antitrust risarcimento danni - legal team

Private enforcement antitrust: quando è possibile chiedere il risarcimento dei danni da illecito antitrust?

antitrust risarcimento danni - legal teamCon una recente sentenza, il Tribunale di Napoli si è pronunciato in merito ad una richiesta di risarcimento del danno derivante da una presunta violazione della normativa antitrust.

Nel caso di specie, la condotta anticoncorrenziale era costituita dal coinvolgimento della Società convenuta in un procedimento avviato dall’AGCM per violazione degli artt. 101 e 102 TFUE e dell’artt. 2 e 3 della L. 287/1990, che aveva posto in luce la sussistenza di due intese restrittive della concorrenza. Più precisamente, secondo l’AGCM, la società convenuta avrebbe preso parte ad una intesa anticoncorrenziale relativa al mercato degli imballaggi in cartone ondulato, consistente nella definizione in comune di prezzi maggiorati.

Secondo la società attrice, che acquistava le materie prime e semilavorati necessari per la propria produzione, l’intesa avrebbe provocando consistenti danni a suo carico. La società attrice, dunque, asseriva di aver patito un danno quantificato in euro 171.924,83.

La Società convenuta evidenziava l’inammissibilità e l’infondatezza della pretesa, finalizzata esclusivamente alla precostituzione di un alibi volto a giustificare le insolvenze di parte attrice: questa, infatti, non avrebbe onorato le scadenze dei pagamenti. Allo stesso tempo, la società dava atto di aver impugnato innanzi al giudice amministrativo il provvedimento sanzionatorio dell’AGCM.

Al fine di risolvere la controversia, il Tribunale di Napoli offre una ricognizione della normativa europea e nazionale in relazione al private enforcement antitrust.

La tutela della concorrenza, infatti, si realizza tramite un doppio sistema: uno di public enforcement, ed uno di private enforcement.

Il primo svolge una funzione propriamente punitiva ed è rimesso al controllo e alle decisioni delle AGCM. Le decisioni dell’Autorità incidono in maniera considerevole sul potere del giudice, teso a verificare se il comportamento anticoncorrenziale abbia o meno violato il diritto del consumatore.

Il secondo, invece, prevede la possibilità di ricorrere in giudizio al fine di ottenere un risarcimento del danno causato dalla lesione del diritto della concorrenza su iniziativa dei privati.

Nell’ottica del legislatore comunitario, spiega il Tribunale, “la repressione pubblicistica (fondata anche sulle decisioni della Commissione Europea) debba avere comunque la priorità sul private enforcement, il quale però anche se soltanto in chiave complementare deve approntare quei rimedi civilistici che servono a rafforzare il sistema, sanzionando ogni comportamento idoneo a restringere o falsare il gioco della concorrenza.”

Il sistema di private enforcement trova la propria fonte nella disciplina europea, la Direttiva 2014/104/UE, e nella relativa legge interna di recepimento, d.lgs. 3/2017: le due fonti normative individuano una disciplina essenzialmente unitaria.

Le azioni in cui si concretizza tale tutela sono distinte in due gruppi: le c.d. azioni stand-alone e le c.d. azioni follow-on, che si distinguono a seconda che l’azione venga promossa previo accertamento della violazione da parte di un’autorità garante della concorrenza o meno.

Nei casi di private enforcement, spiega il Tribunale, le difficoltà maggiori risiedono nella disponibilità delle prove idonee a fondare una domanda di risarcimento del danno, atteso che spesso le prove sono detenute dalla controparte o da terzi e non sono accessibili, riguardando spesso documenti aziendali, anche sottoposti a segreto.

Si tratta di una vera e propria asimmetria informativa, continua il Tribunale, che rende arduo per la controparte danneggiata fornire la prova del danno e allo stesso tempo determinare il quantum del pregiudizio sofferto.

A tal fine, sulla scorta di quanto previsto a livello europeo, il d.lgs. 3/2017 sostiene che nel caso di cartelli, l’esistenza del danno si presume, rendendo in ogni caso salva la prova contraria.

Allo stesso tempo, l’art. 7 del d.lgs. 3/2017, prevede che: “Ai fini dell'azione per il risarcimento del danno si ritiene definitivamente accertata, nei confronti dell'autore, la violazione del diritto della concorrenza constatata da una decisione dell'autorità garante della concorrenza e del mercato di cui all'articolo 10 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, non più soggetta ad impugnazione davanti al giudice del ricorso, o da una sentenza del giudice del ricorso passata in giudicato”.

Le decisioni dell’AGCM, dunque, assumerebbero valore di “prova privilegiata”, che consente al convenuto di fornire una prova contraria, impedendo allo stesso tempo che vengano messi in discussione i fatti costitutivi posti alla base della decisione dell’AGCM.

In altre parole, chiariscono i giudici, “l’effetto dell’accertamento definitivo da parte dell’autorità antitrust o dal giudice del ricorso in caso di impugnazione è vincolante nei confronti dell’autore della violazione che ha partecipato o poteva partecipare al procedimento davanti all’autorità stessa. Non vi sono margini, quindi, per fornire prova contraria della natura della violazione e della sua “portata materiale, personale, temporale e territoriale”.”.

Nel caso di specie, dunque, trattandosi di un’azione follow-on, sussistendo un provvedimento dell’AGCM, il giudice è tenuto ad analizzare la richiesta di risarcimento del danno sulla base di quanto contenuto nel provvedimento sanzionatorio dell’AGCM.

Il provvedimento dell’AGCM in questione aveva tuttavia accertato la partecipazione della società convenuta solo ad una intesa anticoncorrenziale e non ad entrambe quelle segnalate dalla società attrice.

Pertanto in relazione alla domanda di risarcimento del danno relativa all’intesa alla quale non aveva partecipato la società convenuta, l’azione si qualifica come stand-alone e, dunque, priva di prova; in relazione invece all’intesa a cui ha partecipato la società convenuta, la società non aveva provato il danno concretamente derivante dall’intesa. La società attrice, dunque, non aveva provato che il sovrapprezzo lamentato era riconducibile all’intesa anticoncorrenziale.

Il Tribunale ha così rigettato la richiesta di risarcimento del danno avanzata dalla società attrice.

Tribunale Napoli, Sez. III, 30.8.2023, n. 8138

 


La condanna per reato estinto o depenalizzato non determina l'esclusione

La condanna per un reato estinto oppure depenalizzato non comporta l'esclusione dell'operatore economico da una procedura ad evidenza pubblica.

Si tratta di un principio che, sebbene sia stato a lungo accolto positivamente nella giurisprudenza amministrativa, è stato sempre oggetto di un vivace dibattito, forse a causa di una normativa, quella dei contratti pubblici, non molto chiara.

Ci siamo occupati in passato delle incertezze interpretative che risiedevano nell'art. 80, d.lgs. 50/2016 e s.m.i. (qui il link per una consultazione integrale della news).

Ed infatti, il previgente codice dei contratti pubblici (d.lgs. 50/2016 e s.m.i.) disciplinava all'art. 80, comma 3, ultimo periodo, una casistica alquanto complessa, stabilendo i casi in cui l'esclusione dell'operatore economico non poteva essere disposta qualora, fra l'altro, il reato fosse stato depenalizzato ovvero quando il reato fosse stato dichiarato estinto dopo la condanna.

Il problema di fondo si è sempre posto in relazione all'ipotesi di patteggiamento della pena ex art. 444 e ss. c.p.p. accolta favorevolmente dal Pubblico ministero (poi formalizzata con un pronunciamento del Tribunale).

Orbene, il Giudice amministrativo campano, interrogandosi sulla legittimità dell'esclusione comminata da una stazione appaltante nei confronti di un operatore economico che aveva dichiarato la pendenza di applicazione delle pena su richiesta delle parti ai sensi dell'art. 444 c.p.p. per un reato ambientale, ha stabilito la palese violazione della normativa da parte dell'ente in considerazione del fatto che l'esclusione fosse stata disposta su di un reato estinto, in quanto inefficace a produrre effetti circa i requisiti soggettivi della società concorrente della procedura selettiva.

L'iter logico seguito dal Giudice amministrativo è chiaro e lineare: ricostruendo la vicenda penale ed i relativi risvolti, il Tar campano ha chiaramente evidenziato la finalità che ha portato la Società a ricorrere innanzi al Giudice amministrativo, ovvero quella di non vedersi escludere per carenza di un requisito morale tale da minare, specie per il futuro, la sua affidabilità compromettendo la partecipazione a successive gare ad evidenza pubblica.

La pronuncia, in realtà, pone un'ulteriore riflessione fondamentale, laddove si interroga sulla natura e sulla portata escludente della sentenza di patteggiamento: "Il provvedimento di estinzione del reato determina il venire meno di “ogni effetto penale” (art. 460, comma 5, c.p.p.) della condanna e della portata preclusiva della stessa, con l’ulteriore effetto di escludere dagli obblighi di dichiarazione del partecipante le condanne penali per “reati gravi” quelli estinti o depenalizzati. Ciò non perché, una volta intervenuta l’estinzione, il reato non rivesta più il carattere della “gravità”, quanto perché il provvedimento giudiziale dichiarativo di estinzione del reato incide sul potere della stazione appaltante di apprezzare l’incidenza delle sentenze di condanna cui si riferiscono i fatti penalmente rilevanti".

Dunque, secondo il giudizio critico espresso dal Tar campano, l'intervenuta estinzione non fa venir meno il carattere della gravità, bensì influisce sulla discrezionalità della stazione appaltante circa i fatti oggetto della condanna; da tale premessa, il Giudice ne ricava la successiva conseguenza per cui "L’intervenuta dichiarazione di estinzione del reato prevale su ogni valutazione discrezionale della stazione Appaltante in merito all’incidenza della condanna sul requisito di affidabilità morale e professionale dell’operatore economico".

Nell'individuare il paradigma normativo su cui fonda la pronuncia, il Giudice amministrativo coglie l'occasione, per un verso, di acclarare che la sentenza di patteggiamento, a mente del Codice del 2016, è irrilevante essendo decorso il termine del triennio previsto dall'art. 80, comma 10-bis, per altro verso, che il legislatore con il nuovo Codice dei contratti pubblici, in relazione alla sentenza di patteggiamento, "ha reso applicabili ... le indicazioni contenute all’art. 445, comma 1-bis, c.p.p. - disposizione introdotta dall'art. 1, comma 4, lett. e), num. 2) l. 9 gennaio 2019, n. 3 (c.d. “Riforma Cartabia”) - secondo cui <<la sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi>>".

Nel giungere alla conclusione, il Tar Campano si pone sulla scia dei pronunciamenti giurisprudenziali consolidati, affermando il principio di diritto secondo cui "l’obbligo del partecipante di dichiarare le condanne penali «non ricomprende le condanne per reati estinti o depenalizzati […] in ragione dell’effetto privativo che l’abrogatio criminis (ovvero il provvedimento giudiziale dichiarativo della estinzione del reato) opera sul potere della stazione appaltante di apprezzare la incidenza, ai fini partecipativi, delle sentenze di condanna cui si riferiscono quei fatti di reato”.

Deve cogliersi positivamente l'art. 94, comma 7, d.lgs. 36/2023, il quale conferma, mediante una formulazione più chiara, che l'esclusione non è disposta allorquando il reato è stato dichiarato estinto dopo la condanna.

(Tar Campania Sez. I, 27 settembre 2023, n. 5246)


concessioni

Concessioni Balneari: le sentenze del TAR Lecce smuovono le acque

concessioniLo scorso 2 novembre, il TAR Lecce, con due distinte sentenze, è tornato a parlare delle concessioni demaniali marittime e della loro proroga.

Il TAR è stato chiamato a pronunciarsi su gli atti di proroga delle concessioni balneari al 2033 disposti da due comuni pugliesi.

Per il Collegio, la c.d. Legge Concorrenza 2021 – L. 5 agosto 2022, n. 118 – e il successivo c.d. decreto Milleproroghe - D.L. 29 dicembre 2022, n. 198, convertito con L. 24 febbraio 2023, n. 14 - hanno reso i ricorsi avviati dall’AGCM improcedibili “atteso che tutte le CDM in essere verranno a scadere – ex lege – alla data del 31 dicembre 2024”.

Il caso specifico

Come accaduto anche in altre occasioni, l’AGCM ha impugnato, con separati ricorsi, le delibere di due giunte municipali di approvazione dell’atto di indirizzo di applicazione della Legge 145/2018 dispositiva della proroga ex lege del termine finale di durata fino a dicembre 2033.

A sostegno dei ricorsi, l’AGCM ha dedotto la violazione dell’art. 12 della Direttiva 2006/123/CE, c.d. direttiva Bolkestein, nonché la violazione dei principi di liberà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi nel mercato interno di cui agli artt. 49 e 56 TFUE, nonché eccesso di potere per difetto di istruttoria.

In vista della trattazione della causa, l’AGCM ha depositato istanza di sopravvenuto difetto di interesse, ritenendolo soddisfatto all’esito delle sentenze dell’Adunanza Plenaria nn. 17 e 18 del 2021, nonché in considerazione dell’entrata in vigore della Legge Concorrenza 2021.

Con successiva ordinanza, il TAR ha però disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea il cui procedimento si è concluso con l’ormai nota sentenza del 20 aprile 2023.

La decisione del TAR

Dopo una sintetica ricostruzione della vicenda, il TAR Lecce ha evidenziato che la sentenza della CGUE dello scorso 20 aprile deve costituire per il Giudice un indiscutibile punto di riferimento, essendo qualificabile come sopravvenienza normativa.

Per il TAR Lecce, dunque, la sentenza della CGUE del 20 aprile, per un verso, si pone in continuità rispetto alla precedente sentenza Promoimpresa del 2016, venendo confermata l’irrilevanza del requisito dell’ “interesse transfrontaliero certo” ai fini dell’applicazione della direttiva Bolkenstein, per altro, ha una portata decisamente modificativa ed innovativa.

Sotto quest’ultimo aspetto, due le novità che, a parere del TAR Lecce, la Corte di Giustizia avrebbe introdotto:

  • La valutazione della scarsità delle risorse naturali disponibili come “preliminare accertamento”, al cui esito risulta subordinata espressamente l’applicabilità stessa dell’articolo 12, paragrafi 1 e 2 della direttiva Bolkestein;
  • il soggetto tenuto ad effettuare tale preliminare valutazione è individuato nello Stato-amministrazione e non nel Giudice nazionale.

I giudici hanno, quindi, affermato che alla luce delle innovative statuizioni di cui alla sentenza CGUE del 20 aprile 2023 deve ritenersi che:

  1. risulta precluso al Giudice nazionale di statuire in via generale ed astratta sulla scarsità della risorsa, in assenza della previa definizione di criteri obiettivi ed uniformi da parte del Governo;
  2. l’applicabilità del disposto di cui all’art. 12 paragrafi 1 e 2 della Direttiva Bolkestein è subordinata alla previa verifica e valutazione da parte dello Stato membro della scarsità della risorsa naturale, procedimento che si caratterizza per l’ampia discrezionalità e che costituisce adempimento doveroso e necessario, in quanto primo presupposto o pre-condizione.

Sulla base di tali considerazioni, il TAR Lecce ha dichiarato i ricorsi improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse poiché tutti i provvedimenti impugnati dall’AGCM risultano privi di efficacia per effetto della normativa sopravvenuta: la Legge Concorrenza 2021 e il successivo decreto Milleproroghe hanno fatto venire meno il paventato danno derivante all’AGCM dalla proroga delle concessioni al 31.12.2033, “atteso che tutte le CDM in essere verranno a scadere – ex lege – alla data del 31 dicembre 2024”.

In altre parole, per il TAR la scadenza delle concessioni è al momento fissata dalla legge al 31 dicembre 2024 in attesa del riordino in materia annunciato dalla Legge Concorrenza: in attesa di conoscere le determinazioni del governo in merito alla scarsità della risorsa, la possibilità che alle concessioni demaniali marittime si applichi la c.d. direttiva Bolkenstein e che, dunque, le stesse vadano affidate tramite procedure di selezione, resta in discussione.

Considerazioni conclusive

Il TAR Lecce – un tribunale che è apparso sul tema delle concessioni demaniali una “voce fuori dal coro” – sembra in parte contraddire il noto responso in materia reso dalle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 17 e 18 del 2021.

Ricorderete che con le sentenze gemelle, il Consiglio di Stato aveva affermato l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva 2006/123 al rilascio e al rinnovo delle concessioni demaniali marittime, sottolineando che dall’insieme dei dati emerge che “le aree demaniali marittime (ma analoghe considerazioni valgono per quelle lacuali o fluviali) a disposizione di nuovi operatori economici sono caratterizzate da una notevole scarsità, ancor più pronunciata se si considera l’ambito territoriale del comune concedente o comunque se si prendono a riferimento porzioni di costa ridotte rispetto alla complessiva estensione delle coste italiane, a maggior ragione alla luce della già evidenziata capacità attrattiva delle coste nazionali e dell’elevatissimo livello della domanda in tutto il periodo estivo (che caratterizza l’intero territorio nazionale, al di là della variabilità dei picchi massimi che possono differenziare le singole zone). Pertanto, nel settore delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, le risorse naturali a disposizione di nuovi potenziali operatori economici sono scarse, in alcuni casi addirittura inesistenti, perché è stato già raggiunto il – o si è molto vicini al – tetto massimo di aree suscettibile di essere date in concessione.”.

Richiamando alcuni passaggi della sentenza della CGUE dello scorso 20 aprile 2023, il TAR ribadisce che per poter affermare che alle concessioni demaniali si applica la direttiva Bolkestein è necessario prima valutare la scarsità o meno della risorsa e che, in ogni caso, tale valutazione, allo stato attuale non ancora definitiva, spetta solo ed esclusivamente al Governo e non al Giudice nazionale. È lo Stato-amministrazione, dunque, ad indicare i criteri per determinare se una risorsa può dirsi scarsa o meno: al giudice spetta unicamente valutare se i risultati derivano dalla corretta applicazione dei criteri definiti.

Tuttavia, appare doveroso precisare che dalla lettura della sentenza della CGUE dello scorso 20 aprile non sembra che la Corte di Giustizia abbia inteso escludere la possibilità per il giudice nazionale di valutare la scarsità della risorsa.

Al punto 78, la CGUE si è così espressa: “A tal riguardo, occorre precisare che l'indicazione contenuta al punto 43 della sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a. (C-458/14 e C-67/15, EU:C:2016:558), secondo la quale spettava al giudice nazionale verificare se il requisito relativo alla scarsità delle risorse naturali, previsto dall'articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123, fosse soddisfatto, non può significare che solo i giudici nazionali siano tenuti a verificare la sussistenza di tale requisito. Infatti, allorché il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività è limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili, ogni amministrazione è tenuta ad applicare, in forza di tale disposizione, una procedura di selezione tra i candidati potenziali e a garantire che tutte le condizioni previste da detta disposizione siano rispettate, disapplicando, se del caso, le norme di diritto nazionale non conformi”.

A parere di chi scrive, dunque, contrariamente a quanto ritenuto dal TAR Lecce, la CGUE sembra essersi limitata a valorizzare come la valutazione circa la scarsità delle risorse sia demandata non solo al giudice nazionale, ma coinvolge anche le stesse amministrazioni e, dunque, lo Stato, quale soggetto tenuto ad applicare la normativa europea.

TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 2.11.2023, n. 1223

TAR Puglia, Lecce, Sez. I, 2.11.2023, n. 1224

 

 


L’illecito professionale grave: ANAC interviene con delibera n. 397/2023

L’illecito professionale grave: ANAC interviene con delibera n. 397/2023

L’illecito professionale grave: ANAC interviene con delibera n. 397/2023L’ANAC, con delibera n. 397 del 6 settembre 2023, si è pronunciata in seguito ad una richiesta di parere avanzata da una pubblica amministrazione, in ordine ai requisiti necessari alla configurabilità del c.d. grave illecito professionale, alla luce della riformata disciplina contenuta negli articoli 94, 95 e 98 del d.lgs. 36/2023.

Nel caso di specie – riguardante una procedura di affidamento di un contratto sotto soglia, nell’ambito della quale l’operatore economico individuato come possibile affidatario risultava destinatario di un provvedimento di conclusioni di indagini preliminari per alcuni reati - l’amministrazione si è posta un interrogativo: la circostanza che l’operatore economico risulti indagato è di per sé sufficiente a configurare, a norma dell’art. 95 co. 1 lett. e) del d.lgs. 36/2023, l’illecito professionale grave oppure il principio di tassatività delle cause di esclusione previsto dalla disciplina in esame lo esclude?

È importante premettere che le disposizioni previste dal d.lgs. in oggetto sono divenute efficaci a partire dal 1° luglio 2023 e di conseguenza applicabili esclusivamente alle procedure disposte a decorrere da tale data.

Precedentemente operava la disciplina di cui all’art. 80 co. 5 lett. c) del d.l.gs. 50/2016, che aveva dato luogo a numerosi dubbi ermeneutici.

In una precedente news (qui il link) abbiamo affrontato il tema, constatando che il concetto di grave illecito professionale si riferiva a tutti quei comportamenti che assumevano rilievo penale e che erano stati attuati nel corso dell’esercizio dell’attività professionale, tali da minare l’integrità e l’affidabilità del concorrente sulla base di una valutazione  meramente discrezionale compiuta dalla stazione appaltante.

In altri termini, quella dell’illecito professionale grave era considerata una categoria aperta, suscettibile di ricomprendere al suo interno qualsiasi comportamento dell’operatore economico ritenuto idoneo a minare la sua affidabilità e/o integrità.

L’ANAC, investita sulla questione, ha ritenuto utile fornire chiarimenti anche con riferimento all’attuale disciplina contenuta nel nuovo Codice dei contratti pubblici.

Osservando con attenzione il nuovo testo legislativo, infatti, emerge che la formulazione di cinque nuovi articoli ha avuto il pregio di garantire agli operatori economici ed alle stazioni appaltati un maggior grado di semplificazione: gli articoli 94 e 95, infatti, individuano rispettivamente le clausole di esclusione automatica e non dalla procedura di appalto, riconoscendo solo nel secondo caso margini di discrezionalità in capo alla stazione appaltante; mentre l’art. 97 è dedicato alle cause di esclusione dei partecipanti ai raggruppamenti, ravvisando la possibilità di operare una modifica per sostituzione di un componente del raggruppamento, oltre all’ipotesi già prevista di modifica per riduzione.

L’art. 96 risulta appositamente dedicato al procedimento di esclusione, menzionando altresì le misure di self cleaning adottate dall’operatore economico e sufficienti a dimostrarne la sua affidabilità.

Di particolare rilevanza è l’attuale articolo 98, che provvede a tipizzare da un lato i gravi illeciti professionali, dall’altro i mezzi di prova utili per la valutazione degli stessi.

Nello specifico, il comma 2 individua le condizioni necessarie ai fini della esclusione di un operatore economico:

  • Elementi sufficienti ad integrare il grave illecito professionale;
  • Idoneità del grave illecito professionale ad incidere sull’affidabilità e integrità dell’operatore;
  • Adeguati mezzi di prova di cui al comma 6.

Il comma 3 prosegue con l’elencazione delle fattispecie che possono configurare un grave illecito professionale (ad esempio le sanzioni irrogate dall’AGCM; il tentativo di influenzare indebitamente il processo decisionale della stazione appaltante; ecc.).

La valutazione della gravità, a norma del comma 4, tiene conto del bene giuridico e dell’entità della lesione inferta dalla condotta integrante uno degli elementi di cui al comma 3.

Il comma 5 si sofferma, poi, sulle false dichiarazioni che possono essere utilizzare a supporto della valutazione di gravità.

Tra gli adeguati mezzi di prova - elencati al comma 6 – non figura specificatamente l’iscrizione nel registro degli indagati di cui all’art. 335 c.p.p., con la conseguente ed inevitabile impossibilità che tale condizione possa incidere negativamente – in ambito amministrativo – in capo all’operatore economico.

In sintesi, quello che rileva in questa sede è che in tema di illecito professionale grave, secondo l’Autorità, l’iscrizione dell’operatore economico nel registro degli indagati (nel caso di specie del concorrente iscritto nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. per il reato di istigazione alla corruzione e concorso morale e materiale con altri funzionari e amministratori), e quindi la sola previsione di un provvedimento non definitivo del giudice penale, non rientra tra gli adeguati mezzi di prova tassativamente previsti per valutarne o meno la sussistenza, tenuto conto della disciplina prevista dal nuovo Codice dei contratti pubblici (d. lgs. 36/2023).

(ANAC, Delibera 6.9.2023, n. 397)


Punteggio premiale: è necessario produrre i documenti oppure no?

Appalti pubblici e punteggio premiale: è necessario produrre i documenti oppure no?

Punteggio premiale: è necessario produrre i documenti oppure no?L’attribuzione del punteggio premiale negli appalti pubblici comporta, di regola, un onere ben preciso in capo al concorrente: allegare i documenti richiesti dalla legge di gara.

Cosa succede se l’operatore economico non vi provvede ovvero se vi provvede ma non nelle forme indicate dalla legge di gara? È applicabile o no il soccorso istruttorio? Le risposte sono fornite da un’interessante sentenza del TAR Lazio, la quale offre spunti di riflessione sul soccorso istruttorio di cui all’art. 83, comma 9, d.lgs. 50/2016 (e art. 101, d.lgs. 36/2023); l’istituto in questione è di particolare interesse – ne abbiamo trattato, di recente, in questa news.

All’esito di una procedura di gara, il secondo classificato impugnava la determina di aggiudicazione. A sostegno del ricorso sosteneva che l’amministrazione avrebbe errato a riconoscere solamente 2 punti per lavori da questi precedentemente eseguiti in luogo dei 4 che dovevano essere assegnati su base tabellare automatica.

L’errore della stazione appaltante, in altre parole, consisteva nel non aver attribuito il punteggio massimo, giustificando tale mancata attribuzione con il fatto che il ricorrente non aveva allegato alla propria offerta documentazione comprovante la circostanza che questi era un soggetto con consolidata esperienza nella realizzazione delle infrastrutture (limitandosi ad una mera dichiarazione), avendo portato a termine ristrutturazioni di queste ultime per un totale complessivo di 165 milioni di euro.

Quindi, il motivo di doglianza era fondato sulla modalità di dimostrazione del fatto: a ragion del ricorrente, la mera dichiarazione era da ritenersi sufficiente.

Tale ultima circostanza, più nel dettaglio, trovava comprova nella relazione tecnica allegata all’offerta, in cui il concorrente precisava in termini dichiarativi che “il raggruppamento vanta una vasta e consolidata esperienza nel campo della realizzazione di infrastrutturali”, per poi specificare che “ha espletato 2 interventi di esecuzione di infrastrutture lineari con importo complessivo superiore a 165 milioni di euro”.

La tesi del ricorrente, dunque, si poggiava sulla dichiarata esperienza delle lavorazioni eseguite, già sufficiente a suo dire per comprovarne il possesso ai fini dell’attribuzione del punteggio premiale.

Tuttavia, ad avviso della stazione appaltante, per espressa previsione della lex specialis di gara, infatti, la comprova dell’esecuzione del requisito per cui si prevedeva un punteggio ulteriore poteva avvenire soltanto mediante la produzione di certificati di esecuzione lavori o documentazione equivalente. In altre parole, non era ritenuta valida alcuna autodichiarazione o autocertificazione redatta dai concorrenti.

Esaminando lo specifico motivo di censura, il Collegio rigetta il ricorso.

Nel motivare il rigetto, il giudice amministrativo evidenzia come la lex specialis di gara richiedesse, per l’assegnazione del punteggio oggetto di contestazione, la produzione della documentazione comprovante i lavori eseguiti e non la mera autodichiarazione contenuta nella relazione tecnica. Era necessaria, ai fini dell’attribuzione del predetto punteggio, la produzione dei certificati di esecuzione lavori. Non è, pertanto, sufficiente, ad avviso del TAR “la mera produzione (…) di parte dei vari elaborati documentali richiesti dal disciplinare”.

Sotto altro profilo, conclude il giudice amministrativo, non può attivarsi il soccorso istruttorio per consentire al concorrente di produrre la documentazione omessa, in quanto vi osta la corretta applicazione del principio della par condicio tra i vari partecipanti alla procedura in questione. Invero, sia l’art. 83, comma 9, d.lgs. 50/2016, sia l’art. 101, d.lgs. 36/2023, prevedono che il soccorso istruttorio sia mezzo per “sanare ogni omissione, inesattezza o irregolarità della domanda di partecipazione, del documento di gara unico europeo e di ogni altro documento richiesto dalla stazione appaltante per la partecipazione alla procedura di gara, con esclusione della documentazione che compone l’offerta tecnica e l’offerta economica”.

In definitiva, pertanto, il soccorso istruttorio non può trovare applicazione nel caso di specie, atteso che, per costante giurisprudenza, è stata affermata “la non soccorribilità (…) degli elementi integranti, anche documentalmente, il contenuto dell’offerta (tecnica od economica)”, atteso che con il soccorso istruttorio è possibile emendare “le carenze o le irregolarità che attengano alla allegazione dei requisiti di ordine generale (…), non quelle inerenti ai requisiti di ordine speciale”.

(TAR Lazio Roma, Sez. IV, 26.9.2023, n. 14255)


Avvalimento: legittimo anche con corrispettivo irrisorio?

Avvalimento: legittimo anche con corrispettivo irrisorio?

Avvalimento: legittimo anche con corrispettivo irrisorio?È possibile il ricorso all’avvalimento nel caso in cui il corrispettivo indicato nel relativo contratto appaia, prima facie, irrisorio? Quesito, questo, cui offre risposta, con un esame della disciplina dell’avvalimento contenuta nel d.lgs. 50/2016 e nel d.lgs. 36/2023, la pronuncia in commento.

Nella precedente news sul tema ci siamo occupati delle problematiche legate all’ipotesi di gratuità del contratto di avvalimento se, fra le clausole, le parti abbiano omesso di indicare espressamente il corrispettivo (a questo link è possibile consultare la news).

Il caso esaminato presenta molteplici profili meritevoli di approfondimento.

La controversia sorge allorquando, all’esito di una procedura di gara per l’affidamento del servizio di trasporto sanitario di emergenza, la concorrente seconda classificata impugnava la determina di aggiudicazione di uno dei lotti in cui la procedura era suddivisa.

A sostegno di tale impugnazione, la ricorrente lamentava, per quanto in questa sede di interesse, la circostanza che il contratto di avvalimento prodotto dall’aggiudicataria (controinteressata nel giudizio) sarebbe invalido in ragione dell’esiguità del corrispettivo offerto (quantificato in € 4.128,00, pari allo 0,5% dell’importo posto a base di gara dalla stazione appaltante determinato in € 825.600,00).

Ulteriore motivo di contestazione era l’errata attribuzione di un punteggio c.d. premiale.

Secondo il ricorrente, infatti, tale punteggio non doveva essere attribuito in quanto la concorrente (poi aggiudicataria) si era avvalsa, per dimostrare il possesso del requisito tecnico-professionale di cui era carente, di una ausiliaria che aveva svolto analogo servizio nel territorio della Regione Puglia. Per tale motivo, poiché la lex specialis di gara subordinava l’attribuzione del predetto punteggio “premiale” allo svolgimento di attività limitatamente nella Regione Campania, esso non doveva essere attribuito (non essendo consentito, ad opinione del ricorrente, il ricorso all’avvalimento c.d. premiale).

Il Collegio investito della questione non condivide l’argomentazione formulata dal ricorrente. Già in sede cautelare, infatti, il giudice amministrativo – chiamato a delibare sulla possibilità o meno di disporre la sospensione dei provvedimenti impugnati – ritiene insussistente il fumus boni iuris richiesto dalla legge per la concessione della misura cautelare, affermando che “il contratto di avvalimento prevede comunque un corrispettivo che non appare inadeguato considerate le risorse messe a disposizione dal medesimo contratto” (in questi termini, cfr. TAR Campania Salerno, Sez. I, ord. 27.2.2023, n. 103).

All’esito dell’udienza pubblica, il Collegio conferma la decisione assunta in fase cautelare. Nello specifico, secondo il giudice amministrativo, il contratto di avvalimento prodotto dall’aggiudicataria controinteressata si sostanzia nel mettere a disposizione della stessa un requisito di cui quest’ultima era priva (segnatamente, “la comprovata esperienza di almeno un anno continuativo (cioè senza soluzione di continuità) nel servizio di soccorso e di emergenza”), per un corrispettivo pari allo 0,5% dell’importo di gara e quindi a € 4.128,00.

Detto corrispettivo, inoltre, non è qualificabile come “irrisorio o simbolico, tenuto conto delle risorse materiali e umane messe a disposizione e della finalità solidaristica che anima le parti”. Con il contratto di avvalimento, infatti, vengono messi a disposizione tanto un automezzo (l’autombulanza che, per sua natura, è soggetta “a rapida obsolescenza e ad altrettanto rapido ammortamento”), quanto il “personale per la formazione degli addetti al servizio e la trasmissione dell’esperienza organizzativa, destinato a operare, appartenendo all’associazione ausiliaria, nell’ambito dell’attività di volontariato già svolta”.

In definitiva, quindi, secondo il Supremo Consesso amministrativo, “la finalità solidaristica che colora la causa del contratto di avvalimento, unitamente al costo, ridotto o addirittura nullo, delle risorse messe a disposizione, ben può giustificare una determinazione del corrispettivo del contratto di avvalimento in misura apparentemente inferiore a quello normalmente praticabile nell’ambito di un rapporto di tipo strettamente commerciale, che pertanto non può costituire utile parametro di riferimento per la verifica dell’adeguatezza del corrispettivo e dell’affidabilità del rapporto”.

Da ultimo, quanto alla legittimità dell’avvalimento premiale, se è vero che la giurisprudenza esclude l’ammissibilità dell’avvalimento “meramente premiale”, è parimenti vero che “se con l’avvalimento l’impresa ausiliaria mette a disposizione dell’impresa ausiliata i requisiti speciali di partecipazione di cui questa risulta carente e le connesse risorse aziendali, allora non può escludersi che l’impresa ausiliata (…) utilizzi le medesime risorse (…) al fine di comporre una proposta tecnica che possa essere maggiormente apprezzata dalla Stazione appaltante e conseguire i punteggi premiali previsti”.

Elaborazione, quest’ultima, pienamente coerente con l’impostazione dell’art. 89 del d.lgs. n. 50/2016. Tale disposizione, tuttavia, è stata poi modificata dal d.lgs. 36/2023, il cui art. 104 - sebbene non applicabile ratione temporis alla procedura – ha innovato la previgente disciplina, consentendo il c.d. avvalimento premiale puro, finalizzato all’esclusivo conseguimento delle risorse necessarie all’attribuzione di punteggi incrementali, sia pure con il limite partecipativo previsto dalla medesima disposizione quale opportuno temperamento a tutela dei rapporti concorrenziali.

Nelle intenzioni del legislatore, in conclusione, l’art. 104 del d.lgs. 36/2023 – in ottica di innovazione e non di mera interpretazione del previgente art. 89, d.lgs. 50/2016 – sembrerebbe allargare il perimetro applicativo dell’istituto dell’avvalimento. Portata innovativa che par essere confermata dalla pronuncia in commento, la quale – in ossequio al principio del c.d. favor partecipationis – sembra estendere l’applicabilità dell’istituto dell’avvalimento, al precipuo fine di rendere più ampio il novero dei possibili partecipanti alle procedure di gara.

(TAR Campania Salerno, Sez. I, 19.9.2023, n. 2014)


Il provvedimento di decadenza della concessione demaniale deve essere preceduto dal preavviso di rigetto?

Il provvedimento di decadenza della concessione demaniale deve essere preceduto dal preavviso di rigetto?

Il provvedimento di decadenza della concessione demaniale deve essere preceduto dal preavviso di rigetto?Il provvedimento di decadenza della concessione demaniale deve essere preceduto dal preavviso di rigetto?

Il TAR Sicilia, Catania, con una recentissima sentenza, ha ribadito che, in coerenza con quanto previsto dall’art. 47 del Codice della navigazione per cui l’amministrazione “può dichiarare la decadenza” al verificarsi delle ipotesi previste dalla medesima norma, la natura discrezionale del provvedimento di decadenza della concessione marittima impone l’applicazione dell’art. 10-bis della l. 241/1990.

Il caso specifico.

Un’associazione sportiva, titolare di una concessione demaniale marittima, rinnovata sino al 31.12.2020, presentava all’amministrazione marittima regionale formale domanda di estensione della concessione demaniale marittima allo scopo di realizzare un’area attrezzata per pratiche sportive.

Ai fini dell’istruttoria relativa alla domanda di estensione della suddetta concessione demaniale, la struttura territoriale dell’ambiente chiedeva all’associazione di integrare la documentazione a sostegno della propria istanza. In particolare, era stato richiesto di produrre “… lo statuto dell’associazione sportiva …, una comunicazione attestante le attività sportive della medesima e l’eventuale certificato di affiliazione a federazione sportiva già richiesto”.

A seguito della predetta integrazione, la struttura territoriale dell’ambiente comunicava l’avvio del procedimento di archiviazione dell’estensione della validità della concessione demaniale marittima, ritenendo le attività indicate svolte in altra area non ricadente nell’area in concessione.

L’associazione presentava le proprie memorie ex art. 10 – bis l. 241/1990 ma non riceveva alcun riscontro dalla struttura territoriale dell’ambiente.

Dopo due anni, la struttura territoriale dell’ambiente disponeva l’archiviazione dell’istanza di estensione della concessione, con consequenziale sua decadenza, rilevando, tra l’altro, che al momento dell’adozione del provvedimento non fosse pervenuta alcuna memoria e/o controdeduzione agli atti di questo ufficio da parte dell’associazione.

L’associazione impugnava il provvedimento di archiviazione ritenendolo illegittimo perché, in primis, si fonderebbe sull’errato e non veritiero presupposto secondo cui non sarebbe pervenuta alcuna memoria e/o controdeduzione degli atti di questo ufficio.

In via subordinata, l’associazione rilevava che la richiesta di estensione della validità della concessione demaniale non avrebbe potuto dare luogo ad alcun procedimento di verifica della conformità perché in contrasto con la normativa regionale e regolamentare

Infine, l’associazione sempre in via subordinata censurava il provvedimento di archiviazione e decadenza perché adottato in violazione dell’art. 47 del Codice della navigazione, in quanto il motivo per il quale sarebbe stata disposta la decadenza non rientra tra le ipotesi tassative previste dal predetto art. 47 del Codice della navigazione.

La decisione del TAR.

Il TAR Sicilia Catania, ha ritenuto il ricorso fondato.

In particolare, il collegio siciliano ha ritenuto che il provvedimento di archiviazione e decadenza sia stato adottato in violazione dell’art. 10 – bis della l. 241/1990.

Nel richiamare un orientamento giurisprudenziale costante, il TAR Sicilia ha evidenziato che “i provvedimenti dell’amministrazione che incidono in senso negativo sul rilascio e sul rinnovo delle concessioni demaniali marittime impongono la partecipazione dei ricorrenti sia mediante la comunicazione di avvio del procedimento, ma ancor di più mediante il preavviso di rigetto, affinché gli interessati avessero modo di produrre osservazione e documenti idonei ad una più approfondita ponderazione degli interessi e ad una diversa valutazione dell’interesse prevalente” (cfr. TAR Campania, Napoli, sez. VII, 2 agosto 2023, n. 4693; TAR Sicilia, Palermo, sez. II, 25 settembre 2009, n. 1530).

Ne consegue, dunque, che la dichiarazione di decadenza di una concessione ex art. 47 del Codice della navigazione, costituendo esercizio di potere discrezionale amministrativo, deve essere preceduta dal preavviso di diniego e qualora gli istanti abbiano presentato osservazioni, del loro eventuale mancato accoglimento il responsabile del procedimento o l’autorità competente sono tenuti a dare ragione nella motivazione del provvedimento finale di diniego.

(TAR Sicilia Catania, Sez. III, 15.9.2023, n. 2685)