Diniego di autorizzazione al subappalto: il potere autoritativo della P.A.

L'istituto del subappalto ha da sempre rappresentato un valido strumento di cooperazione tra le imprese che operano nell'ambito di un appalto pubblico, sia esso di lavori, servizi o forniture.

Il subappalto, attualmente disciplinato dall'art. 105, d.lgs. 50/2016 e s.m.i., risponde, infatti, all'esigenza di consentire ad un operatore economico affidatario di un contratto pubblico di avvalersi, durante la fase esecutiva delle prestazioni, di un operatore economico terzo e formalmente "estraneo" alla partecipazione a gara, al quale sono affidate l'esecuzione di una parte delle prestazioni o lavorazioni oggetto del contratto.

La finalità del subappalto è sempre stata individuata nell'esigenza di favorire le PMI all'interno delle pubbliche commesse,: il legislatore ha previsto numerose garanzie nei loro confronti attraverso una tutela "rafforzata", visto il ruolo fondamentale che svolgono nel panorama economico globale.

Solo per citarne una, si pensi alla possibilità che la Stazione appaltante provveda al pagamento diretto delle prestazioni svolte dal subappaltatore.

In questa precedente news ci siamo soffermati sull'ipotesi specifica del cd. "subappalto necessario", figura affine al subappalto che potremmo definire tradizionale che presenta caratteristiche autonome (qui il link per un approfondimento ed una consultazione integrale).

Seppur sono numerosi i profili della disciplina che ancora oggi appaiono incerti, uno degli aspetti più importanti dell'istituto è l'iter autorizzativo finalizzato a consentire l'ingresso del subappaltatore all'interno dell'appalto così da consentire, in autonomia, lo svolgimento delle prestazioni contrattuali affidate allo stesso dal contraente principale.

A tal proposito, l’autorizzazione al subappalto è disciplinata dall’art. 105, comma 7, Codice dei contratti pubblici, il quale stabilisce che: “L'affidatario deposita il contratto di subappalto presso la stazione appaltante almeno venti giorni prima della data di effettivo inizio dell'esecuzione delle relative prestazioni. Al momento del deposito del contratto di subappalto presso la stazione appaltante l'affidatario trasmette altresì la dichiarazione del subappaltatore attestante l'assenza dei motivi di esclusione di cui all'articolo 80 e il possesso dei requisiti speciali di cui agli articoli 83 e 84. La stazione appaltante verifica la dichiarazione di cui al secondo periodo del presente comma tramite la Banca dati nazionale di cui all'articolo 81. Il contratto di subappalto, corredato della documentazione tecnica, amministrativa e grafica direttamente derivata dagli atti del contratto affidato, indica puntualmente l'ambito operativo del subappalto sia in termini prestazionali che economici”.

A ben guardare, dunque, il legislatore, oltre ad aver individuato precisamente la scansione procedimentale e gli obblighi gravanti sul contraente principale e sul subappaltatore finalizzati a conseguire l'autorizzazione, ha specificatamente circoscritto l'ambito di operatività dell'Amministrazione, la quale, in linea teorica, è tenuta prioritariamente ad effettuare alcune verifiche.

In particolare, in caso di richiesta di autorizzazione al subappalto, la verifica della stazione appaltante va condotta con riferimento al possesso dei requisiti in capo al subappaltatore concernenti, sia l'art. 80 (requisiti generali), sia gli artt. 83 e 84 (requisiti speciali) del Codice dei contratti pubblici.

Orbene, recentemente la giurisprudenza amministrativa si è interrogata sui poteri di cui dispone l'Amministrazione nell'ambito del sub procedimento di autorizzazione al subappalto allorquando, come osservato, la stessa sia tenuta a verificare la sussistenza dei requisiti anche in capo al subappaltatore.

La carenza dei requisiti in capo al subappaltatore implica, infatti, l'adozione di un diniego di autorizzazione al subappalto.

Nel caso che qui si affronta, il diniego di subappalto dell'Amministrazione era fondato sulla presunta sussistenza di un grave illecito professionale in capo al legale rappresentante della società subappaltatrice risalente ad oltre tre anni prima della richiesta di subappalto.

In Giudice amministrativo, accertata la propria giurisdizione e l'illegittimità del diniego opposto, si è soffermato su due profili meritevoli di essere richiamati:

  • il primo, attinente ai presupposti che integrano il grave illecito professionale. Ove l'illecito sia risalente nel tempo e ben oltre il triennio precedente alla presentazione dell'istanza di autorizzazione al subappalto, non ricorre l'ipotesi di esclusione automatica, in quanto i fatti non sono idonei ad integrare il grave illecito professionale, in applicazione del principio di ragionevolezza e dei principi di cui all'art. 57, par. 7, direttiva 24/2014 UE;
  • il secondo, relativo ai poteri di cui dispone l'Amministrazione. L’autorizzazione al subappalto ed il relativo diniego, pur intervenendo nella fase esecutiva dell’appalto, richiedono comunque che "l’amministrazione committente accerti la loro coerenza col perseguimento del pubblico interesse al rispetto dei criteri fissati dalla procedura di gara ... È chiaro dunque che, anche in questa fase, l’amministrazione esercita poteri autoritativi, espressione di discrezionalità valutativa, la cui delibazione di legittimità rientra nel terreno proprio del giudice amministrativo, posto che la posizione soggettiva del privato è tipica d’interesse legittimo ...".

La motivazione della pronuncia appare lineare e certamente condivisibile: l'operatore economico che si è visto rifiutare l'autorizzazione al subappalto in assenza di giusta motivazione potrà rivolgersi al Giudice amministrativo domandando di pronunciarsi sulla legittimità del diniego opposto.

Nel procedimento di verifica, stando a quanto sancito dal Giudice nella pronuncia qui richiamata, l'amministrazione esplica un potere di tipo autoritativo che è espressione di una discrezionalità che, in quanto tale, soggiace ai limiti pubblicistici dell'evidenza pubblica.

Naturalmente, ad agire in giudizio dovrà essere l'affidatario dell'appalto ovvero colui che abbia avanzato la richiesta di subappalto e che si è visto opporre il diniego.

(TAR Campania, Sez. I, 21 marzo 2023, n. 1764)


interdittiva

Impugnazione interdittiva antimafia: legittimo sospendere il giudizio in pendenza di controllo giudiziario? La risposta dell’Adunanza Plenaria.

interdittivaÈ possibile disporre la sospensione del giudizio di impugnazione dell’interdittiva antimafia quando è pendente il procedimento di controllo giudiziario volontario in capo ad un’impresa appaltatrice (procedimento disciplinato dall’art. 34-bis, d.lgs. 159/2011)?

Secondo la recente pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 7, la pendenza del controllo giudiziario non è causa di sospensione né del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del d.l. 90/2014, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva.

Questi i fatti, in estrema sintesi. Un’impresa operante nel settore della raccolta e nello smaltimento dei rifiuti era destinataria di interdittiva antimafia disposta dalla Prefettura, venuta a conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale nei confronti della predetta società e del suo amministratore (procedimento in cui veniva, altresì, emessa una misura cautelare e veniva disposto il sequestro preventivo di determinati beni).

Ritenendo l’interdittiva illegittima, l’impresa proponeva ricorso al TAR: con il proprio ricorso, domandava, in primo luogo, che venisse disposta la sospensione del giudizio medesimo ai sensi del combinato disposto degli artt. 79, comma 1, c.p.a., e 295 c.p.c., in ragione dell’avvio del procedimento per l’ammissione al controllo giudiziario (di cui all’art. 34-bis, d.lgs. 159/2011).

Il TAR, tuttavia, rigettava la domanda di sospensione del giudizio, argomentando (in maniera molto sintetica) che l’esito del procedimento di ammissione al controllo giudiziario non assumeva carattere pregiudiziale rispetto al giudizio sulla legittimità o meno dell’interdittiva antimafia.

Detta istanza veniva reiterata dinanzi al Consiglio di Stato. In tale sede l’appellante osservava che l’ammissione al controllo giudiziario determinava, quale conseguenza del dettato ex art. 34-bis, d.lgs. 159/2011, la necessità di sospendere il giudizio sulla legittimità dell’informativa stessa per tutto il tempo di pendenza del predetto controllo giudiziario. Più nel dettaglio, la sospensione del giudizio doveva essere disposta in virtù di quanto previsto dall’art. 34-bis, comma 7, d.lgs. 159/2011, secondo il quale era necessario sospendere i giudizi in cui si contesta la legittimità dell’interdittiva antimafia ogniqualvolta sia stato emesso il provvedimento di ammissione al controllo giudiziario dell’impresa destinataria dell’interdittiva medesima.

Preso atto del contrasto giurisprudenziale in essere sul punto, la sez. III del Consiglio di Stato ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria.

La posizione dell’Adunanza Plenaria

Come anticipato, sulla possibilità di sospendere il giudizio in cui si contesta la legittimità dell’interdittiva antimafia in pendenza del procedimento per l’ammissione al controllo giudiziario di una impresa appaltatrice, l’Adunanza Plenaria ha risposto in maniera negativa.

Non merita condivisione, secondo il collegio, l’assunto da cui prende le mosse l’ordinanza di rimessione, ossia la circostanza che il giudizio di impugnazione dell’interdittiva debba essere pendente non solo al momento di presentazione della domanda di accesso al controllo giudiziario, ma per l’intera durata del procedimento medesimo.

Non può procedersi, in altri termini, alla sospensione del giudizio avverso l’impugnazione nel caso in cui sia pendente il procedimento per l’accesso al controllo giudiziario in quanto:

- secondo quanto previsto dall’art. 34-bis, comma 6, d.lgs. 159/2011, l’attivazione del procedimento di controllo giudiziario ha come antecedente l’impugnazione dell’interdittiva disposta dal Prefetto. Il medesimo art. 34, tuttavia, non prevede che il giudizio di impugnazione debba perdurare per l’intera durata del procedimento di controllo giudiziario;

- a differenza dell’interdittiva antimafia, il controllo giudiziario ha natura dinamica: esso, in altri termini, è finalizzato a risanare l’impresa interessata dal fenomeno mafioso. In altre parole, la finalità del controllo giudiziario è quella di evitare che l’impresa – soggetta a condizionamenti di natura mafiosa accertati – non sia autorizzata a prender parte a procedure di gara (proprio a causa delle accertate infiltrazioni di gruppi criminali).

Prevedere la sospensione necessaria del giudizio avverso l’impugnazione in pendenza del procedimento per l’ammissione al controllo giudiziario significherebbe alterare la funzione dell’istituto della sospensione del processo (ammetterla, infatti, “porrebbe impropriamente a carico del processo (…) la realizzazione di obiettivi di politica legislativa, esorbitanti dai compiti del giudice”).

Non solo. Sotto un ulteriore profilo, ammettere la sospensione porterebbe ad un’aporia sotto il profilo più squisitamente logico ove si consideri che essa si fonderebbe “sull’esigenza non già di impedire decisioni contrastanti, ma una decisione di carattere eventualmente sfavorevole sull’impugnazione contro l’interdittiva, che si suppone (…) possa vanificare obiettivi di risanamento dell’impresa infiltrata dal fenomeno mafioso”.

In conclusione, l’Adunanza Plenaria statuisce il principio di diritto cui di seguito: “la pendenza del controllo giudiziario di cui a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione né del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva, né delle misure straordinarie di gestione, sostegno e monitoraggio di imprese previste dall’art. 32, comma 10, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, per il completamento dell’esecuzione dei contratti stipulati con la pubblica amministrazione dall’impresa destinataria un’informazione antimafia interdittiva”.

Il principio è stato altresì ribadito anche nella pronuncia n. 8 dell’Adunanza Plenaria, la quale, nel confermare l’autonomia dei procedimenti, ha statuito che “la pendenza del controllo giudiziario a domanda ex art. 34-bis, comma 6, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, non è causa di sospensione del giudizio di impugnazione contro l’informazione antimafia interdittiva”.

Cons. St., Ad. Plen., 13.2.2023, n. 7

Cons. St, Ad. Plen., 13.2.2023, n. 8


concessione

Concessioni balneari: il campo di applicazione della proroga disposta dalla l. 145/2018 secondo le sezioni unite della Corte di Cassazione

Le sezioni unite della Corte di Cassazione tornano sul tema del campo di applicazione della proroga disposta dalla l. 145/2018 delle concessioni demaniali marittime, le c.d. concessioni balneari.

La questione giuridica sottoposta all’attenzione della Corte è essenzialmente la seguente: a quali concessioni si applica la proroga disposta dall'art. 1, commi 682 e 683, l. 145/2018?

Nel caso di specie sono fondamentali i fatti e gli atti intercorsi.

Nel 2007 la ricorrente aveva ottenuto in concessione un’area destinata a parcheggio, spiaggia attrezzata e con realizzazione di un chiosco, sulla quale era stata avviata un’attività stagionale di stabilimento balneare.

Negli anni successivi, la ricorrente aveva ottenuto il rinnovo annuale della concessione fino al 2014, anno in cui la Regione aveva limitato il rinnovo, in quanto era emersa l’esigenza di procedere all’individuazione del concessionario con procedure comparative.

La determina era stata impugnata dalla ricorrente innanzi al TAR Puglia, sede di Lecce. In quella sede, la ricorrente aveva altresì chiesto il riconoscimento della proroga fino al 31 dicembre 2020 in forza dell’art. 1, comma 18, d.l. 194/2009, come modificato dall’art. 34 duodecies, d.l. n. 179/2012.

Il giudizio, sospeso dal TAR in attesa della pronuncia della Corte di Giustizia sulle norme citate, si estingueva per mancata riassunzione.

Nel 2019 la ricorrente chiedeva al comune il rilascio di un provvedimento di proroga della concessione per ulteriori 15 anni ai sensi dell’art. 1, commi 675- 682 della L. 145/2018.

Tale richiesta veniva negata dall’amministrazione comunale per carenza dei presupposti oggettivi e formali: secondo il comune, la concessione di cui era titolare la ricorrente non era riconducibile a quella demaniale marittima oggetto di proroga.

Il diniego veniva così impugnato innanzi al TAR Puglia, sede di Lecce il quale, tuttavia, confermava l’operato dell’Amministrazione.

Secondo i giudici, infatti, essendosi estinto il precedente giudizio avverso il provvedimento di rinnovo della concessione, “la proroga prevista dal d.l. n. 194/2009 non era mai stata applicata per l’efficace apposizione di un termine annuale ai rinnovi concessi, riconosciuti solo per motivi di opportunità, neppure potendosi qualificare l’assegnazione dell’area in termini di concessione demaniale marittima, da cui l’inapplicabilità di quanto stabilito dalla legge n. 145/2018”.

La decisione veniva confermata dal Consiglio di Stato che, pur ritenendo che il provvedimento concessorio avesse ad oggetto un bene demaniale marittimo, escludeva la sussistenza dei requisiti oggettivi per il riconoscimento della proroga prevista dall’art. 1, commi 682 e 683, della l. 145/2018.

Secondo il Consiglio di Stato, dunque, tutti i provvedimenti concessori di cui aveva beneficiato la ricorrente avevano durata stagionale e definitiva, tanto che le istanze presentate erano per il rinnovo della concessione.

La proroga disposta dalla l. 145/2018 non comportava l’applicazione della proroga a tutte le concessioni in atto a quella data: destinanti della proroga erano unicamente quelle che già avevano fruito della precedente ed erano vigenti alla data del 1° gennaio 2019.

La ricorrente, in quanto titolare di concessioni di durata annuale (o stagionale) e non di “concessioni di lunga durata (con scadenza fino al 31 dicembre 2012, più volte prorogato fino al 31 dicembre 2018)”, non aveva fruito, né poteva fruire, della proroga fino al 31 dicembre 2020 prevista dal d.l. 194/2009, e, quindi, cessata la concessione alla data del 31 dicembre 2018, non poteva neppure fruire della (nuova) proroga prevista dalla l. n. 145/2018, entrata in vigore dal 1° gennaio 2019.

Avverso la sentenza del Consiglio di Stato la ricorrente ha promosso ricorso in Cassazione per eccesso di giurisdizione. Secondo la ricorrente, infatti, il Consiglio di Stato, nel limitare l’applicabilità dell’art. 1, comma 683, l. 145/2018 alle sole “concessioni di lunga durata”, ha introdotto un requisito non previsto da alcuna norma di legge.

In sede di giudizio, la ricorrente ha altresì chiesto il rinvio del giudizio in attesa della decisione della Corte di Giustizia sulla rimessione operata dal TAR Puglia, sede di Lecce con l’ordinanza n. 743/2022 circa la validità della direttiva Bolkestein e della sua natura self-executing, sul requisito dell’interesse transfrontaliero, nonché sul requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout-court all’intero territorio nazionale: tale rinvio, tuttavia, non è stato concesso.

Le sezioni unite della Corte di Cassazione hanno respinto il ricorso, ritenendolo infondato.

Secondo la Corte, il percorso argomentativo seguito dal Consiglio di Stato sarebbe stato corretto e logico.

L’art. 1, comma 683, richiama il d.l. n. 194 del 2009 prevedendo che “le concessioni di cui al comma 682, vigenti alla data di entrata in vigore del decreto-legge 31 dicembre 2009, n. 194”; a sua volta, il comma 682 dispone che “Le concessioni disciplinate dal comma 1 dell'articolo 01 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge”.

La circostanza che l’art. 1, comma 683, richiami il d.l. n. 194 del 2009 e non indichi meramente una data, fa sì che il campo di applicazione della proroga non è generalizzato, ma circoscritto al campo di applicazione della norma richiamata.

Secondo la Corte, dunque, è coerente e logica “l’opzione esegetica del Consiglio di Stato per cui l’indicazione del dettato normativo non poteva equivalere alla sola indicazione della data «perché se ciò avesse voluto fare, sarebbe bastato indicare la data del 30 dicembre 2009 senza alcun richiamo al decreto legge n. 194 del 2009», e ciò, tanto più, che proprio il decreto legge n. 194/2009, come pure esplicitato dal giudice amministrativo, all’art. 1, comma 18, si riferiva alla proroga – fino al 2020 - del termine di durata delle concessioni in essere alla data di entrata in vigore della disciplina (e rilasciate a seguito di una procedura amministrativa attivata prima del 31 dicembre 2009) in scadenza entro il 31 dicembre 2018.

La ricostruzione compiuta dal Consiglio di Stato, inoltre, secondo la Cassazione, ha una finalità sistematica, “mirata a non ampliare l’ambito dei provvedimenti concessori destinati ad essere beneficiari di proroga: solo quelli in essere e solo quelli già oggetto di proroga sono destinatari delle ulteriori misure di estensione temporale”.

Come precisato anche nell’interpretazione delle norme operata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 213 del 18 luglio 2011, chiamata a valutare la legittimità costituzionale di alcune disposizioni regionali in tema di proroga automatica di concessioni demaniali, le disposizioni con cui sono state previste le proroghe hanno «carattere transitorio, in attesa della revisione della legislazione in materia di rilascio delle concessioni di beni demaniali marittimi da realizzarsi, quanto ai criteri e alle modalità di affidamento, sulla base di una intesa da raggiungere in sede di Conferenza Stato-Regioni, nel rispetto dei principi di concorrenza, di libertà di stabilimento, di garanzia dell’esercizio, dello sviluppo, della valorizzazione delle attività imprenditoriali e di tutela degli investimenti, nonché in funzione del superamento del diritto di insistenza di cui al citato art. 37, secondo comma, cod. nav. La finalità del legislatore è stata, dunque, quella di rispettare gli obblighi comunitari in materia di libera concorrenza e di consentire ai titolari di stabilimenti balneari di completare l’ammortamento degli investimenti nelle more del riordino della materia, da definire in sede di Conferenza Stato-Regioni».

Il logico corollario, pertanto, era nel senso che la proroga ivi prevista si riferiva solo alle concessioni nuove e in corso e non a quelle scadute. In coerente sviluppo, dunque, è la prospettiva del Consiglio di Stato con riguardo alla portata del successivo intervento del 2018.

La Cassazione ha pertanto escluso che i giudici amministrativi avessero travalicato i limiti esterni della giurisdizione amministrativa, affermando, al contrario, come gli stessi abbiano esercitato un’attività ermeneutica che rientra tra i propri compiti.

Per la Cassazione, dunque, i giudici del Consiglio di Stato si sono limitati a interpretare norme esistenti e non anche a crearne di nuove.

Cass. Civ., Sez. Un., 14 febbraio 2023, n. 4591


concessioni

Concessioni balneari: è legittimo il diniego di proroga delle concessioni al 31.12.2023?

concessioniL'amministrazione comunale può rifiutarsi di riconoscere la proroga al 31.12.2023 delle concessioni demaniali, superando quanto affermato dalle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria (nn. 17 e 18 del novembre 2021)?

A pronunciarsi sulla questione è stato di recente il TAR Lazio.

Il gestore di uno stabilimento balneare, con concessione in scadenza al 31.12.2020, aveva manifestato interesse alla proroga automatica del titolo concessorio al 31.12.2033, in ossequio al dettato dell’art. 1, commi 682 ss., l. 145/2018. Tale istanza, tuttavia, non veniva accolta dall’amministrazione, la quale, conseguentemente, nel gennaio 2022 aveva intimato lo sgombero dell’area oggetto di concessione, in quanto occupata in assenza di valido titolo concessorio (medio tempore scaduto).
Detto provvedimento, ritenuto illegittimo, veniva impugnato innanzi al TAR Lazio.

Con l’atto introduttivo del giudizio, il concessionario ha censurato il provvedimento di sgombero, sostenendo che il comune aveva errato nel non concedere la richiesta proroga almeno sino al 31.12.2023.
Più nello specifico, secondo il ricorrente, l’Amministrazione non aveva tenuto in considerazione quanto affermato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nelle note sentenze n. 17 e n. 18 rese nel novembre 2021. In tali pronunce, infatti, veniva statuito che, sebbene non fosse possibile la proroga al 2033 delle concessioni demaniali (in quanto l’art. 1, commi 682 ss., l. 145/2018 contrastava con la disciplina sovranazionale in materia), doveva comunque disporsi la proroga delle concessioni in essere al 31.12.2023, “al fine di evitare il significativo impatto socio-economico che deriverebbe da una decadenza immediata e generalizzata di tutte le concessioni in essere”.

Nel corso del giudizio, il comune ha ritenuto che non fosse possibile la proroga al 31.12.2023 (nonostante l’arresto reso dall’Adunanza Plenaria), in quanto, ad opinione dell’ente locale, la scadenza della concessione rilasciata in favore del gestore, fissata al 31.12.2020, non era suscettibile di rinnovo automatico, né di proroga ope legis, sussistendo un preminente interesse pubblico del Comune, consistente sia nella necessità di rendere nuovamente la fruizione della spiaggia libera e gratuita, sia nella di tutelare l’ambiente circostante.

Il Collegio ha accolto il ricorso, non ritenendo condivisibili le tesi difensive formulate dall’amministrazione.

A parere dei giudici, infatti, ferma la disapplicazione di disposizioni nazionali in contrasto con la normativa comunitaria (l’art. 1, commi 682 ss., l. 145/2018 confligge con l’art. 49 TFUE e con l’art. 12 della direttiva 2006/123/CE – c.d. direttiva Bolkestein), sussistono, in ogni caso, i presupposti per il riconoscimento della cessazione dell’efficacia delle concessioni al 31.12.2023.
La concessione di cui era titolare il concessionario ricorrente, infatti, sarebbe stata soggetta alla proroga legale prevista dal l. 145/2018 sino al 2023.
Nel disciplinare tale proroga, all’art. 1, commi 682 ss., l. 145/2018, il legislatore ha introdotto nell’ordinamento una norma volta a prorogare “automaticamente, in via generalizzata e ex lege” le concessioni già rilasciate, trattandosi di un atto normativo che “intervenendo su un numero delimitato di situazioni concrete, recepisce e legifica, prorogandone il termine, le concessioni demaniali già rilasciate”. In altri termini, ove una disposizione di legge dispone la proroga della durata di un provvedimento amministrativo (quale è la concessione, nel caso di specie), tale provvedimento continua ad avere efficacia per la legge (assurgendo, così, a fonte regolatrice del rapporto sottostante). Dal punto di vista strettamente giuridico, si verifica, secondo il Collegio, “una novazione sostanziale della fonte di regolazione del rapporto, che ora trova appunto la sua base, in particolare per ciò che concerne la durata del rapporto, nella legge e non più nel provvedimento”.

La proroga automatica delle concessioni disposta dalla l. 145/2018 aveva fatto sì che la concessione del ricorrente fosse stata automaticamente prorogata al 2033 e che, dunque, a seguito delle pronunce dell’Adunanza Plenaria, la sua scadenza fosse stata anticipata al 31.12.2023.
Le esigenze rappresentate dal Comune, che avrebbero giustificato, a parere della difesa dell’amministrazione, il diniego di proroga della concessione, non sono state ritenute tali da permettere il superamento del regime transitorio individuato dall’Adunanza Plenaria: la scadenza del 31.12.2023, infatti, è stata individuata dai giudici a tutela dell’affidamento legittimamente maturato dai titolari delle concessioni che, dunque, avevano confidato nelle proroghe disposte a livello normativo dal legislatore.
Sulla scorta di tali considerazioni, dunque, il Collegio ha statuito l’illegittimità del provvedimento di sgombero dell’area disposto dal Comune, che è stato per l’effetto annullato in quanto “fondato sull’erroneo presupposto della natura abusiva dell’occupazione del bene demaniale da parte del ricorrente”.

TAR Lazio, Roma, Sez. II quater, 16.1.2023, n. 769


Carenze del progetto non riscontrate dall’appaltatore è possibile la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione

Carenze del progetto non riscontrate dall’appaltatore: è possibile la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione?

Carenze del progetto non riscontrate dall’appaltatore è possibile la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazionePuò essere disposta la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione, nel caso in cui l’appaltatore non sollevi riserve sulle carenze del progetto? A fornire risposta a questo quesito interviene la Corte di Appello di Roma con la pronuncia in commento.

Fatto e giudizio di primo grado

Con contratto sottoscritto, all’esito di gara pubblica per l’affidamento dei lavori di realizzazione delle opere di ampliamento e ridimensionamento della rete fognaria, l’aggiudicatario veniva incaricato dell’esecuzione delle opere a tal scopo necessarie.

Nel corso degli scavi, tuttavia, l’appaltatore riscontrava la presenza di rocce dure non evidenziate nel progetto posto a base di gara: per tale motivo, la committenza disponeva una prima sospensione dei lavori al fine di redigere perizia di variante per l’esecuzione di lavori imprevisti ed imprevedibili.

Successivamente, eseguendo sondaggi su un tratto di fognatura ancora da realizzare, l’appaltatore riscontrava la presenza di una quantità di roccia dura abnorme, superiore rispetto all’ammontare indicato nel contratto sottoscritto. Informata di tale circostanza la committenza, quest’ultima disponeva una seconda sospensione dei lavori al fine di redigere perizia di variante per la risoluzione della problematica denunciata.

Nelle more di tale sospensione, il RUP ordinava di rimuovere determinate situazioni di pericolo emerse, dando disposizione alla D.L. di procedere al pagamento delle somme necessarie all’esecuzione dei lavori necessari.

A tal fine la D.L., ottemperando a tale direttiva, con proprio ordine di servizio ordinava all’appaltatore di eseguire le lavorazioni necessarie alla rimozione della situazione emersa e alla contestuale messa in sicurezza dei luoghi. L’appaltatore, conseguentemente, si attivava in maniera tempestiva per rimuovere tali problematiche e, terminati i lavori necessari a tale scopo, invitava la stazione appaltante a redigere la contabilità dei lavori eseguiti.

A fronte dell’inerzia dell’amministrazione nell’adempiere a tale richiesta, l’appaltatore metteva in mora l’amministrazione medesima, elencando, con la medesima istanza, le inadempienze imputate a quest’ultima.

Nel giudizio che seguiva, l’appaltatore richiedeva al Tribunale l’accertamento dell’inadempimento dell’amministrazione delle proprie obbligazioni contrattuali (con conseguente risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione medesima) e insisteva per la condanna della stessa al pagamento dei lavori eseguiti e non contabilizzati oltre al risarcimento dei danni.

Il giudice, tuttavia, riteneva che il comportamento di tutte le parti coinvolte nell’esecuzione dell’appalto fosse stato superficiale: per tale motivo, non accoglieva la domanda di risoluzione contrattuale (avanzata dall’appaltatore) e, per l’effetto, respingeva le conseguenti richieste risarcitorie.

Giudizio di appello

L’appellante appaltatore, nel gravame che seguiva, insisteva affinché venisse pronunciata la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione, con le conseguenti statuizioni – già formulate in primo grado – circa il risarcimento dei danni subiti.

In particolare, l’appellante riteneva l’amministrazione esclusivamente responsabile (in quanto la fase progettuale era di sua competenza), sicché le somme richieste a titolo di risarcimento del danno si fondavano sugli asseriti inadempimenti del Comune (nello specifico, sulla mancata attivazione dei rimedi previsti dal d.P.R. 554/1999).

Gli argomenti dell’appellante non vengono ritenuti persuasivi. Nel dettaglio, il Collegio evidenzia come la richiesta risoluzione contrattuale in danno dell’amministrazione (per inadempimenti commessi nella fase della progettazione) non sia ammissibile. Tale conclusione è motivata dalla circostanza che sussistono, già in fase di gara, obblighi in capo ad ambo le parti (ossia, nel caso di specie, alla stazione appaltante e all’appaltatore).

Il Collegio ricorda, anzitutto, come non sia possibile la risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione, per inadempimento della stessa commesso nella fase della progettazione: invero, in fase di gara (ossia sin dal momento precedente la formulazione dell’offerta) sussistono, infatti, specifici obblighi reciproci in capo ad ambo le parti.

L’art. 71 del citato DdP.R. 554/1999, in particolare, prevede che il partecipante ad una gara d’appalto sia tenuto a rilasciare una espressa dichiarazione con cui attesti di aver esaminato gli elaborati progettuali, di essersi recato sui luoghi in cui l’appalto dovrà essere eseguito nonché di aver preso conoscenza di tutte le condizioni necessarie al corretto svolgimento dei lavori.

Con specifico riferimento alle carenze progettuali, peraltro, viene ricordato che “in tema di lavori pubblici (…) l’impresa appaltatrice non può agire per la risoluzione ex art. 1453 c.c. facendo valere l’inadempimento della committenza nella precedente fase di gara, poiché rientra tra i suoi obblighi di diligenza controllare la validità tecnica del progetto e, nella fase successiva, la stessa impresa è tenuta a segnalare le omissioni progettuali, ai fini dell’adozione delle varianti in corso d’opera, in adempimento del dovere di collaborazione che presiede allo svolgimento del rapporto” (cfr. Cass. civ., Sez. I, 15.2.2021, n. 3839).

Dalla CTU espletata in primo grado è emerso che il progetto presentato dall’amministrazione presentasse carenze così gravi che lo stesso non poteva dirsi in alcun modo cantierabile. Tali carenze, argomenta il Collegio, erano di gravità tale che non è in alcun caso logico aspettarsi che l’appaltatore non potesse non accorgersene. Ciononostante, l’appaltatore non sollevava alcuna riserva circa la completezza del progetto posto a base di gara.

Del pari, l’appaltatore non formulava neppure riserve con riguardo al progetto di variante, in quanto sottoscriveva l’atto di sottomissione (così accettando l’esecuzione dei lavori indicati nella già menzionata perizia di variante ai medesimi prezzi e alle medesime condizioni previste nel contratto principale). Da tali elementi, dunque, emerge una concorrente responsabilità del committente e dell’appaltatore, i quali sono entrambi venuti meno agli obblighi che ad essi spettano nella realizzazione dell’appalto.

Ne deriva, in conclusione, che l’appello va rigettato, sulla conclusione per cui non può essere pronunciata risoluzione del contratto in danno dell’amministrazione “poiché la stessa impresa appaltatrice avrebbe dovuto esercitare un controllo sulle attività per le quali contesta l’inadempimento della stazione appaltante”.

(Corte App. Roma, Sez. II, 29.11.2022, n. 7688)


Garanzia polizza provvisoria

Appalti pubblici e polizza provvisoria: quale giudice è competente in caso di escussione?

Torniamo a parlare di appalti pubblici e polizza provvisoria e di quale giudice sia competente in caso di escussione. Qualche giorno addietro l'Ufficio del massimario presso la Corte Suprema di cassazione ha pubblicato il documento contenente gli orientamenti delle Sezioni civili.

Per quanto riguarda le vicende legate agli appalti pubblici, degna di nota è la pronuncia (ordinanza) resa dalle Sezioni Unite n. 17329, la quale affronta una vicenda sorta a seguito del regolamento di giurisdizione sollevato dal TAR Veneto nell’ambito di una controversia promossa da un RTI insorto avverso i provvedimenti di esclusione ed incameramento della garanzia provvisoria da parte di un’Amministrazione.

Le problematiche legate all'escussione della garanzia provvisoria sono state precedentemente trattate, alla luce della pronuncia resa dall'Adunanza plenaria (qui consultabile).

Vi è da premettere che, nel caso qui esaminato, fra l'operatore economico e l'Amministrazione aggiudicatrice, in relazione ad una procedura ad evidenza pubblica, era insorta una lite sfociata in contenziosi amministrativi, nell'ambito dei quali era stata definitivamente accertata, con una pronuncia passata giudicato, la legittimità dell’esclusione e la sussistenza dell’obbligo di versamento dell’importo previsto dalla cauzione.

Non riuscendo l'Amministrazione ad ottenere bonariamente il pagamento della garanzia provvisoria, che nelle more del giudizio era stata lasciata colpevolmente scadere dalla parte privata, l'Amministrazione si rivolgeva al giudice ordinario ottenendo un decreto ingiuntivo, cui si opponeva la Società debitrice (la capogruppo del raggruppamento).

Nel giudizio di opposizione, il giudice ordinario, con sentenza del 3 febbraio 2020, dichiarò nullo il decreto ingiuntivo emesso per difetto di giurisdizione, ritenendone che la controversia fosse da ricondurre entro il perimetro del giudice amministrativo giacché "l'escussione della garanzia per mancata stipulazione del contratto ... è atto della stazione appaltante inerente all'aggiudicazione dell'appalto e rientra, pertanto, nella fase procedimentale ad evidenza pubblica" con conseguente giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi appunto dell'articolo 133, lettera e), n. 1 c.p.a.

Dopo essere stato riassunto innanzi al TAR del Veneto, il giudice amministrativo con ordinanza n. 983 del 26 ottobre 2020, sollevava il conflitto negativo di giurisdizione, prospettando la giurisdizione ordinaria secondo il seguente ragionamento: “Il Collegio ritiene che la fattispecie in esame non rientri nella giurisdizione del giudice amministrativo, ma in quella del giudice ordinario e solleva pertanto d’ufficio un conflitto negativo di giurisdizione con rinvio della questione alle Sezioni Unite della Cassazione ai sensi dell’art. 11, comma 3, cod. proc. amm.”.

L’aspetto relativo proprio al riparto di giurisdizione assume rilievo ai fini di comprendere entro quale ambito è riconosciuto al giudice ordinario il potere di decidere le controversie in materia di appalti pubblici.

Con la sentenza in commento, infatti, si è affermata la giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla controversia introdotta dalla P.A. “che ha indetto una gara per l’affidamento di lavori o servizi pubblici nei confronti del soggetto privato ad essa partecipante, al fine di ottenere il risarcimento del danno conseguente all’inadempimento del convenuto all’obbligo di rinnovare la polizza fideiussoria da esso prestata ove sia venuta a scadenza prima dell’aggiudicazione della gara, vertendo il petitum sostanziale sull’inadempimento di una obbligazione del privato funzionale a preservare il diritto dell’ente pubblico appaltante all’escussione della garanzia, il cui fondamento risiede nel principio di buona fede di cui all’art. 1337 c.c. e dalla cui violazione scaturisce una responsabilità precontrattuale meramente occasionata dal procedimento amministrativo di affidamento di lavori o servizi”.

L’affermazione di tale principio muove dalla premessa secondo cui, se è vero che, ordinariamente, il riparto giurisdizionale trova il suo discrimen nella stipulazione del contratto d’appalto, è vero, altresì, che sussiste anche una fase prodromica a quella amministrativa, definibile, pur lato sensu, precontrattuale, nella quale la struttura delle posizioni soggettive è affidata, da un lato, all’adempimento di obbligazioni di buona fede e correttezza e, dall’altro, al diritto al loro adempimento che si riverbera, logicamente, nel diritto al risarcimento dei danni derivati dall’inadempimento.

Tale fase, pur essendo prodromica ad una fase amministrativa, a sua volta a monte della stipulazione del contratto da cui scaturiranno posizioni soggettive riconducibili alla giurisdizione ordinaria, non può non essere fondata su obblighi e diritti soggettivi, la violazione dei quali va ricondotta alla species della responsabilità extracontrattuale che si qualifica precontrattuale.

Pertanto, l’incidenza dell’obbligo di buona fede non può venire meno con l’avvio della fase amministrativa. La fase prodromica precontrattuale si protrae come parallela alla fase amministrativa fino alla stipulazione del contratto frutto del provvedimento di aggiudicazione, dopo la quale i suoi relativi obblighi e correlativi diritti soggettivi verranno integralmente sostituiti da ciò che discende dal contratto.

In conclusione, la sussistenza e la persistenza della fase precontrattuale sono effetto della mancanza di una posizione di potere della pubblica amministrazione, atteso che, nella suddetta fase, circolano esclusivamente obbligazioni e diritti soggettivi, per cui essa effettivamente non inerisce ad un potere pubblico.

La conclusione cui perviene la Suprema Corte per risolvere la questione può così essere riassunta: “Si è chiaramente in una posizione esterna al procedimento amministrativo, non avendo l'ente alcun potere affinché il soggetto privato provveda a stipulare la garanzia, ciò effettuandosi mediante un contratto privato tra quest'ultimo e chi possa assumere la funzione di garante. Il procedimento amministrativo costituisce, peraltro, proprio l'occasione dell'insorgenza di tale obbligo di rinnovazione della garanzia. Così come è stato prospettato ... il soggetto partecipante alla gara avrebbe inadempiuto al proprio specifico obbligo di fornire nuovamente la garanzia scaduta, riconducibile questo all'obbligo generale di comportarsi secondo buona fede precontrattuale, per cui l'ente che la gara ha indetta agisce introducendo come petitum sostanziale il correlato diritto soggettivo al risarcimento del danno derivato dall'inadempimento dell'obbligo precontrattuale suddetto. Il che porta a riconoscere la giurisdizione ordinaria”.

(Cass. civ., SS. UU., 17.6.2021, n. 17329)

(TAR Veneto, Sez. I, 26.10.2020, n. 983)


Caro materiali: l’aggiornamento dei prezzi comporta anche l’aggiornamento del compenso per i servizi tecnici? Facciamo chiarezza.

Caro materiali: l’aggiornamento dei prezzi comporta anche l’aggiornamento del compenso per i servizi tecnici? Facciamo chiarezza.

Caro materiali: l’aggiornamento dei prezzi comporta anche l’aggiornamento del compenso per i servizi tecnici? Facciamo chiarezza.Il caro materiali negli appalti di lavori colpisce da vicino anche i servizi tecnici (progettisti, direttori dei lavori, coordinatori della sicurezza ecc.) che eseguono delle prestazioni nell’ambito dell’esecuzione degli appalti.

Non a caso, una delle domande più frequenti che ci sono state rivolte negli ultimi tempi – anche nella rubrica per lavoripubblici.it “L’esperto risponde” - è la seguente: l’aggiornamento dei prezzi del contratto imposti dall’art. 26 del d.l. 50/2022 comporta anche l’adeguamento del corrispettivo contrattualmente definito per i servizi tecnici?

La soluzione è tutt’altro che agevole da rintracciare, in quanto la norma non specifica nulla a questo proposito. Proviamo tuttavia a fare chiarezza.

Da un punto di vista generale, precisiamo che con Atto del Presidente ANAC del 27 luglio 2022, n. 63471, l’Autorità ha chiarito che l’obbligo di inserimento della clausola revisione prezzi di cui all’art. 29, comma 1 del d.l. 4/2022 trova applicazione anche per i servizi tecnici.

L’ANAC ha infatti precisato che “l’inserimento di una clausola di revisione dei prezzi deve trovare ragion d’essere, a maggior ragione, con riferimento alle procedure per l’affidamento di incarichi di ingegneria ed architettura, il cui compenso è direttamente connesso all’importo a base di gara dei lavori cui il progetto è rivolto e le cui fasi progettuali spesso si protraggono per lunghi periodi di tempo”.

Tuttavia, con specifico riferimento all’applicazione del d.l. 50/2022, il c.d. decreto aiuti, e agli effetti dell’art. 26 sui servizi tecnici, l’ANAC e il Ministero non sembrano concordare.

Con Parere n. 1375/2022, il Ministero delle Infrastrutture (prima, MIMS) sembra aver escluso un adeguamento dei corrispettivi di direzione lavori e coordinamento sicurezza a seguito dell’applicazione dei prezzi aggiornati.

Secondo il MIT, infatti, il meccanismo previsto dall’art. 26 del d.l. 50/2022 riconosce un adeguamento dei prezzi, con relativa adozione SAL, emissione del certificato di pagamento e corresponsione del relativo pagamento, «unicamente con riguardo alla determinazione del costo dei prodotti, delle attrezzature e delle lavorazioni eseguite dall’appaltatore, non essendo, invece, previsto alcun adeguamento dei corrispettivi dovuti per servizi».

Con un recente Comunicato del Presidente ANAC del 8 novembre 2022, invece, sono state chiarite ulteriori modalità di determinazione dei corrispettivi nell’affidamento dei servizi di architettura e ingegneria.

L’ANAC ricorda infatti come spesso nei contratti aventi ad oggetto servizi tecnici, l’Amministrazione richiede in corso di esecuzione prestazioni aggiuntive e/o integrative rispetto a quelle considerate ai fini della determinazione del compenso a base di gara, come ad esempio indagini, rilievi altri studi ritenuti imprescindibili per dare corretta esecuzione al contratto, senza prevedere alcun aumento del corrispettivo. Ciò, in ragione del fatto che i servizi tecnici costituiscono appalti il cui corrispettivo è determinato a corpo, e non sulla base delle prestazioni effettivamente eseguite.

Osserva l’ANAC che tale comportamento si registra anche quando le prestazioni aggiuntive derivano da un evento imprevisto ed imprevedibile al momento dell’assunzione dell’incarico: è il caso delle attività di aggiornamento dei computi metrici estimativi di progetto e della contabilità dei lavori, richieste dalle stazioni appaltanti ai progettisti e ai direttori dei lavori in base all’art. 26 del decreto aiuti (d.l. 50/2022 conv in L. 91/2022).

Gli adempimenti tecnici richiesti dalle già menzionate norme costituiscono, per i titolari degli incarichi di progettazione o di direzione lavori, nuove prestazioni richieste dalle Amministrazioni.

L’ANAC ha quindi precisato che sebbene sussista il principio di immodificabilità del prezzo nei contratti a corpo, questo non va inteso in maniera assoluta ed inderogabile, “ma trova un limite nella pedissequa rispondenza dell’opera da eseguire ai disegni esecutivi ed alle specifiche tecniche forniti dalla stazione appaltante, sulla base dei quali l’offerente ha eseguito i propri calcoli e le proprie stime economiche e si è determinato a formulare la propria offerta, ritenendola congrua e conveniente rispetto alle prestazioni da eseguire”.

La circostanza che, nell’appalto a corpo, il corrispettivo sia fisso ed invariabile non esclude, tuttavia, che le prestazioni introdotte in variazione dell’originaria prestazione debbano essere, comunque, oggetto di autonomo apprezzamento, con conseguente erogazione del corrispondente corrispettivo.

Le Linee guida n. 1 dell’ANAC, recante “Indirizzi generali sull’affidamento dei servizi attinenti all’architettura e all’ingegneria” devono essere intese, infatti, nel senso che “non solo è necessario che la documentazione di gara riporti l’elenco dettagliato delle prestazioni oggetto dell’incarico e i relativi corrispettivi (secondo i criteri stabiliti dal DM 17 Giugno 2016 (c.d. Decreto Parametri) ma che qualsiasi prestazione non espressamente considerata deve ritenersi al di fuori del vincolo contrattuale e potrà essere richiesta in corso di esecuzione nei limiti in cui è consentito all’amministrazione esercitare lo ius variandi”.

In conclusione, dunque, secondo il comunicato in parola, anche le richieste di aggiornamento del computo metrico estimativo di progetto o della contabilità dei lavori, che pervengano successivamente alla loro redazione e consegna entro i termini contrattuali pattuiti, devono considerarsi attività aggiuntive che devono essere remunerate in modo corrispondente alle ulteriori attività effettivamente svolte.

Il contrasto tra il parere del MIT e il comunicato dell’ANAC potrebbe essere apparente, o meglio, così risolvibile: i prezziari aggiornati adottati in forza del decreto aiuti non comportano una modifica automatica dell’importo contrattualmente pattuito per i servizi tecnici; tuttavia, qualora il titolare del servizio è chiamato ad eseguire delle prestazioni ulteriori al fine di applicare la normativa sopravvenuta di cui al decreto aiuti, tale prestazione aggiuntiva deve essere comunque pagata, non potendo dirsi rientrante nel corrispettivo del contratto stipulato.

(Atto del Presidente ANAC, 27.7.2022, n. 63471 - Parere MIMS n. 1371/2022 - Comunicato Presidente ANAC 8.11.2022)


Subappalto necessario, indicazione del medesimo soggetto da parte di più concorrenti: per il Consiglio di Stato è una soluzione ammissibile

Subappalto necessario, indicazione del medesimo soggetto da parte di più concorrenti: per il Consiglio di Stato è una soluzione ammissibile

Subappalto necessario, indicazione del medesimo soggetto da parte di più concorrenti: per il Consiglio di Stato è una soluzione ammissibileIl tema del subappalto necessario anima da sempre molti contrasti in giurisprudenza. Uno dei temi più scottanti per gli operatori attiene alla possibilità, per più operatori, di indicare lo stesso subappaltatore necessario nell’ambito di una medesima gara.

Con una pronuncia resa di recente, il Consiglio di Stato ha ammesso espressamente tale possibilità.

Nei fatti, accadeva che l’operatore economico secondo classificato, dopo aver ottenuto tramite accesso agli atti solo in parte la documentazione di gara, proponeva ricorso al TAR, lamentando, in particolare, l’illegittimità della mancata esclusione del soggetto primo classificato.

Secondo il ricorrente, l’aggiudicatario doveva essere escluso in ragione del fatto che aveva indicato, quali subappaltatori necessari, soggetti già designati tali da altri concorrenti. La nomina del medesimo subappaltatore necessario da parte di più concorrenti sarebbe, a parere del ricorrente, esclusa in primo luogo dal dettato degli art. 48, comma 7 e art. 89, comma 7 del d. lgs. 50/2016.

L’art. 48, comma 7, infatti, impone il divieto ai concorrenti di partecipare in più di un RTI o consorzio ordinario di concorrenti, o di partecipare alla gara anche in forma individuale qualora abbia partecipato alla gara medesima RTI o consorzio ordinario di concorrenti.

L’art. 89, comma 7, invece, in tema di avvalimento, prevede che “In relazione a ciascuna gara non è consentito, a pena di esclusione, che della stessa impresa ausiliaria si avvalga più di un concorrente, ovvero che partecipino sia l'impresa ausiliaria che quella che si avvale dei requisiti”.

L’impossibilità di procedere al “prestito multiplo” a più operatori concorrenti inciderebbe così non solo sul requisito di qualificazione in gara, ma anche sul contenuto tecnico che non sarebbe più sorretto dal principio di segretezza, in violazione dell’art. 80, comma 5, lett. m) d.lgs. 50/2016.

Nel rigettare il ricorso, il Collegio di primo grado investito della questione ricorda, anzitutto, come non vi sia alcuna norma, nel nostro ordinamento, che impone alla stazione appaltante di escludere quei concorrenti che indichino il medesimo subappaltatore, anche se si tratta di subappaltatore necessario.

Né, prosegue, può pervenirsi ad una simile conclusione applicando in maniera analogica il dettato della disposizione in tema di avvalimento, atteso che quest’ultimo istituto ed il subappalto risultano essere fattispecie recanti significative differenze tra loro.

Da un lato, il subappalto è istituto che rientra nella fase esecutiva del rapporto, per cui il subappaltante non riceve in prestito alcunché dal subappaltatore, il quale rimane l’unico soggetto in capo al quale pendono i rischi derivante dall’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto da questi stipulato.

D’altro lato, l’avvalimento è istituto riconducibile alla fase di gara, che permette ad una impresa priva di determinati requisiti di partecipare alla procedura che tali requisiti richiede a pena di esclusione: in questo caso, il rischio derivante dall’esecuzione delle opere pende in capo all’impresa ausiliata, con l’eventuale responsabilità solidale dell’impresa ausiliaria.

In ogni caso, la mera indicazione nell’offerta di quanto costituisce oggetto di subappalto “non trasforma il subappalto c.d. necessario o qualificatorio in un istituto diverso dal subappalto c.d. facoltativo, fino a determinare una sorta di confusione tra avvalimento e subappalto, trattandosi di due istituti che presentano presupposti, finalità e regolazioni diverse”.

In tale contesto, l’identificazione del medesimo subappaltatore da parte di due o più concorrenti non integra una forma di condizionamento del mercato. La disposizione di cui all’art. 80, comma 5, lett. m), d.lgs. 50/2016 è rivolta ad evitare che si possa dar vita ad una commistione delle offerte tra operatori distinti tra loro: non è, cioè, sufficiente, al fine di provare tale distorsione della concorrenza, che diversi partecipanti ad una gara indichino i medesimi subappaltatori.

I giudici di Palazzo Spada non si discostano dalle conclusioni rese con la sentenza di primo grado.

Ferma restando la circostanza che non è prevista, nella disciplina del codice dei contratti pubblici, alcuna disposizione per la quale andranno esclusi dalla gara quegli operatori che indichino il medesimo subappaltatore, neppure possono equipararsi – secondo il Consiglio di Stato – gli istituti del subappalto c.d. necessario e dell’avvalimento (così da estendere al primo le cause di esclusione previste per il secondo).

Tali istituti sono tra loro profondamente diversi: nel subappalto necessario, infatti, il rapporto intercorrente tra le imprese (subappaltatrice e subappaltante) rientra comunque nella fase esecutiva del rapporto (e non, come sostenuto, in quella di gara). Per tale motivo, il Consiglio di Stato ritiene di non discostarsi dall’assunto secondo cui “Il subappaltatore, dunque, non “presta” o “fornisce” alcunché al concorrente subappaltante. Più semplicemente, qualora un servizio o un’attività oggetto dell’appalto principale sia interamente scorporabile, il subappaltatore svolge direttamente tale servizio o tale attività e, quindi, (…) è solo lui a dover possedere i relativi requisiti”.

Non merita condivisione, in conclusione, l’argomento secondo cui l’indicazione dello stesso subappaltatore da parte di due o più concorrenti integrerebbe un fattore di condizionamento del mercato. Non è stata, infatti, dimostrata l’esistenza di un reciproco condizionamento tra le parti, motivo per cui resta fermo l’assunto reso con la sentenza di primo grado, secondo cui “l’indicazione del medesimo subappaltatore da parte di due o più concorrenti non costituisce, in difetto di altri consistenti elementi di prova, un indizio di collegamento tra centri decisionali autonomi e distinti o di condizionamento reciproco delle offerte presentate”.

(Cons. St., Sez. V, 23.9.2022, n. 8223)


concessioni balneari

Dopo il 31 dicembre 2023 le “concessioni balneari” andranno a gara: il TAR Latina non ha dubbi.

In tema di concessioni balneari, si è di recente pronunciato anche il TAR Latina che, sulla scia dei principi espressi dalle ormai note sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria, ha rigettato il ricorso proposto da ben 11 concessionari.

Il caso specifico

A fine dicembre 2020, con delibera di Giunta, il Comune di Latina, dava indirizzo affinché le procedure ad evidenza pubblica per l’assegnazione delle concessioni, venissero avviate una volta conclusasi l’emergenza epidemiologica a cui la legge n. 77/2020 rinviava.

Successivamente, nel mese di febbraio 2021, con determinazione dirigenziale, il Comune di Latina disponeva che non era più possibile procedere all’estensione temporale automatica fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali marittime assentite dal Comune di Latina in scadenza al 31.12.2020. Con la medesima determina, il Comune di Latina stabiliva, altresì, che la validità temporale e l’efficacia delle concessioni demaniali marittime con scadenza fissata al 31.12.2020, di cui all’elenco sopra riportato, venisse estesa al 31.12.2021.

Detti atti venivano impugnati  da ben 11 titolari di concessione demaniale marittima per finalità turistico – ricreativa del Comune di Latina, i quali deducevano che:

  • le aree demaniali affidate ai concessori sono soggette ad un rapporto concessorio con l’amministrazione comunale che è destinato ad avere ancora durata pluriennale, ciò in quanto al momento dell’adozione dell’impugnata determina dirigenziale, le concessioni risultavano – e tuttora risultano- in essere sulla base della proroga disposta dalla (ancora) vigente Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 682 e 683, e dall’art. 182, comma 2 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con legge n. 77/2020;
  • per tutti i concessionari ricorrenti resta fermo il pieno diritto a vedere riconosciuto il diritto di insistenza perché le concessioni di cui sono titolari rientrano nella tipologia di concessioni marittime “vigenti” alla data di entrata in vigore del d.l. 30 dicembre 2009, n. 194 e dunque rilasciate in epoca antecedente al recepimento in Italia della Direttiva 2006/123/CE mediante il d.lgs. n. 59 del 26 marzo 2010, che il citato art. 1 comma 683 ha inteso prorogare;
  • in virtù delle peculiarità che contraddistinguono il litorale di Latina su cui insistono le concessioni demaniali marittime in questione, non v’è un interesse transfrontaliero certo né una scarsità della risorsa naturale.

Nelle more, il Comune di Latina, preso atto dei principi enunciati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 18 del 9.11.2021, stabiliva la proroga dell’efficacia delle concessioni demaniali marittime in argomento alla data del 31.12.2023.

Con successivi motivi aggiunti, i ricorrenti insistevano a che, nel caso di specie, dovesse trovare applicazione la proroga disposta dalla Legge 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, commi 682 e 683, e dall’art. 182, comma 2 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34, convertito con Legge n. 77/2020, con conseguente mantenimento del rapporto concessorio relativo alle aree demaniali loro affidate.

La decisione del TAR Latina

Il TAR, facendo propri i principi enunciati dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato per cui “se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione, ne discende, allora, che l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset, come se non si fosse mai prodotto”, ha affermato che scaduto il termine del 31.12.2023, tutte le concessioni demaniali in essere dovranno considerarsi prive di effetto, indipendentemente da se vi sia – o meno – un soggetto subentrante nella concessione.

(TAR Lazio, Latina, Sez. I 17.11.2022, n. 914)


Payback dispositivi medici: cosa c’è da sapere

Payback dispositivi medici: cosa c’è da sapere

Payback dispositivi medici: cosa c’è da saperePayback e dispotivi medici, di che si tratta?

Il payback è un meccanismo che ha lo scopo di fronteggiare l’aumento di spesa sanitaria pubblica, quando le regioni superano i tetti di spesa sanitari preventivati di anno in anno.

Tale meccanismo chiama in causa le imprese che nell’annualità di riferimento hanno commercializzato i dispositivi medici a ripianare lo scostamento dal tetto di spesa stabilito, in concorso con la regione.

Evoluzione normativa

Lo strumento del payback nasce nel 2011, con il d.l. 98/2011 (conv. in L. 111/2011) che all’art. 17 ha stabilito che la spesa dei dispositivi medici sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale dovesse essere fissata entro tetti stabiliti dai decreti ministeriali di anno in anno (soglie percentuali aumentate di anno in anno). La stessa norma ha stabilito inoltre che in caso di sforamento dei tetti stabiliti, gli eventuali ripiani avrebbero dovuto essere a carico delle regioni che avessero concorso allo sforamento.

Solo successivamente, l’art. 9-ter del d.l. 78/2015 (conv. in L. 125/2015) ha previsto che una parte dello sforamento del tetto per l’acquisto dei dispositivi medici venisse posto a carico delle aziende fornitrici, introducendo così il c.d. payback.

Il comma 9 dell’art. 9-ter del d.l. 78/2015 specifica che “ciascuna azienda fornitrice concorre alle predette quote di ripiano in misura pari all’incidenza percentuale del proprio fatturato sul totale della spesa per l’acquisito di dispositivi medici a carico del Servizio sanitario regionale”.

La norma individua delle soglie percentuali di quanto posto a carico delle aziende fornitrici: 40% per l’anno 2015, 45% per il 2016 e 50% a partire dal 2017 in poi.

Quanto alle modalità di compartecipazione di ciascuna azienda e di riparto delle somme, l’art. 9 rinvia a delle Linee guida del Ministero la relativa definizione.

Il comma 557 della Legge di Bilancio 2019 ha poi precisato che la definizione del superamento del tetto di spesa viene certificato con un decreto del Ministero della Salute che, di concerto con il MEF, entro il 30 settembre di ogni anno certifica, in via provvisoria e poi in via definitiva, gli scostamenti.

Il d.l. 115/2022 (decreto Aiuti bis) conv. in L. 142/2022

L’art. 9-ter è rimasto a lungo inattuato fino al 2022.

L’art. 18 del decreto aiuti-bis ha infatti modificato in parte l’art. 9-ter del d.l. 78/2015, dando una forte accelerata per l’attuazione del sistema del payback.

La norma introduce il comma 9-bis, specificando che per le annualità 2015, 2016, 2017 e 2018, il Ministero della Salute, di concerto con il MEF, debba adottare entro il 30 settembre 2022 un decreto che certifica il superamento del tetto di spesa per l’acquisto di dispositivi medici.

Con il decreto del Ministero della Salute del 6.7.2022, pubblicato in G.U. 15.9.2022 sono così state certificate le annualità 2015, 2016, 2017 e 2018.

Nell’ottica di accelerare il meccanismo, il citato decreto prevede che entro il 15 ottobre il Ministero, d’intesa con la Conferenza stato regioni, adotta delle linee guida per la redazione delle richieste di riappiano alle aziende produttrici di dispositivi medici.

Con il decreto del Ministero della Salute del 6 ottobre 2022, pubblicato in G.U. il 26.10.2022 sono state adottate le Linee Guida propedeutiche all’emanazione dei provvedimenti regionali e provinciali in tema di ripiano del superamento del tetto dei dispositivi medici per gli anni 2015, 2016, 2017, 2018

Entro 90 giorni dal decreto del 15 settembre, cioè entro 15 dicembre, infatti, le regioni devono dottare i provvedimenti con i quali quantificano le somme che ciascuna azienda produttrice è tenuta a restituire. È importante precisare che ogni azienda fornitrice concorre all’obbligo di restituzione in proporzione all’incidenza del fatturato per ogni anno (2015, 2016, 2017 e 2018) sul totale di spesa regionale.

Le Linee-guida appena pubblicate, infatti,  specificano o che ogni singola amministrazione sanitaria deve eseguire una ricognizione delle fatture d’acquisto della voce “BA0120-Dispositivi Medici” per ogni azienda fornitrice. Tali fatture vengono poi sommate per calcolare il fatturato annuo di ogni fornitore “al lordo dell’IVA”.

I dati così calcolati sono poi trasmessi alle regioni, che dovranno procedere alla sommatoria del fatturato annuo di vendita dei dispositivi medici per ogni fornitrice pervenuto dalle singole amministrazioni sanitarie, per determinarne poi la percentuale d’incidenza del fatturato aziendale sul fatturato sanitario complessivo regionale.

Tale operazione, come anticipato, dovrà essere effettuata entro il 15 dicembre 2022.

I pagamenti dovranno avvenire entro 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento regionale.

Decorsi inutilmente i 30 giorni per effettuare il pagamento, la norma dispone che i debiti per gli acquisti detenuti dalle regioni o dagli altri enti del SSN vengono posti in compensazione con i crediti che le singole imprese hanno maturato.

È importante segnalare che la norma precisa che dopo l’adozione dei decreti di ripartizioni, le regioni sono tenute ad iscrivere il credito quantificato in bilancio del settore sanitario 2022. Tale precisazione rende evidente che tale meccanismo dovrà essere attuato entro la fine dell’anno.

Gli effetti sulle imprese

Il payback genera incertezza per le imprese che sono tenute ad accantonare delle risorse per far fronte alle ingenti somme che potrebbero essere richieste dalle regioni.

Della legittimità del predetto sistema si discute molto. Diversi interpreti ed operatori hanno giustamente osservato che a differenza dei farmaci – per i quali esiste un sistema analogo e oggetto di costante contenzioso – i dispositivi medici sono soggetti ad una gara ad evidenza pubblica, per l’espletamento della quale viene fissato dalla committente una base d’asta, ossia un tetto di spesa preventivato.

Tale sistema, dunque, finirebbe per addossare una responsabilità in capo agli operatori, pur non essendo stati gli stessi a contribuire allo sforamento.

Ma le criticità sono anche altre. Analizzando i dati, le regioni che hanno sforato i tetti di spesa sono generalmente le regioni in cui il sistema sanitario nazionale pubblico è più presente e più efficiente (così, ad esempio, la Toscana, ma anche il Veneto e la Puglia).

Le soluzioni tuttavia non mancano.

L’operatore che ritiene di essere colpito da tale sistema deve prontamente attivarsi.

Può essere infatti presentato un ricorso al TAR avverso i provvedimenti adottati dalle regioni con cui viene quantificata la somma che ogni singola azienda è tenuta a restituire, entro 60 giorni dalla loro adozione.