subappalto

Subappalto nel nuovo codice: tra limiti e subappalto a cascata

subappaltoIl nuovo codice dei contratti pubblici, il d.lgs. 36/2023 dedica al subappalto l’intero art. 119 che riproduce, quasi fedelmente, quanto previsto dall’art. 105 del d.lgs. 50/2016, sebbene non manchino alcune novità di rilievo. Una tra tutte, il subappalto a cascata.

La disciplina del subappalto recepita nell’attuale testo normativo è il frutto di una serie di modifiche intervenute dal 2016 ad oggi, che hanno cercato di modellare l’istituto e renderlo maggiormente coerente con i principi e le norme di derivazione europea.

Per lungo tempo, ad esempio, l’art. 105 d.lgs. 50/2016 ha imposto dei limiti percentuali al subappalto. Censurato aspramente dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione europea, tale limite è stato finalmente espunto dal testo normativo per dare spazio alla discrezionalità delle stazioni appaltanti.

L’art. 105 d.lgs. 50/2016, così come l’attuale art. 119 d.lgs. 36/2023, infatti, pur non prevedendo limiti generali al subappalto, consente alle stazioni appaltanti di individuare le prestazioni che dovranno essere eseguite a cura dell’aggiudicatario (rectius: non possono formare oggetto di subappalto), in ragione, ad esempio, delle specifiche caratteristiche dell’appalto e delle eventuali categorie SIOS presenti (art. 105, comma 2 d.lgs. 50/2016 e art. 119, comma 2, d.lgs. 36/2023).

Tali aspetti sono stati recentemente chiariti anche dalla sentenza n. 187/2023 del TAR Friuli Venezia Giulia.

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR, la stazione appaltante aveva previsto la sola categoria OS3 come interamente subappaltabile, mentre la categoria OS28 risultava subappaltabile nella misura massima del 30%.

L’impresa aggiudicataria aveva proposto ricorso avverso il diniego di autorizzazione al subappalto, sostenendo la contrarietà della decisione assunta dalla stazione appaltate ai principi espressi dalla Corte di Giustizia (con la sentenza CGUE, Sez. V, 26.09.2019, C-63/18, Vitali s.p.a.), per cui non possono porsi limiti generali al subappalto, indipendentemente dalla tipologia di prestazione.

Il ricorso è stato ritenuto infondato. Nella sentenza il TAR ha chiarito come con la pronuncia c.d. Vitali, la Corte non ha inteso censurare in assoluto la previsione di limiti quantitativi al subappalto, ma solo la fissazione di limiti generali ed astratti a livello normativo. Il limite del 30% contenuto nell’art. 105, comma 2 del Codice 50/2016, infatti, è stato ritenuto contrario ai principi e alle norme UE in quanto limite assoluto e astratto, applicabile indistintamente a tutti gli appalti.

La ratio della pronuncia, dunque, non è quella di predicare un divieto assoluto all’apposizione di limiti quantitativi al subappalto, quanto piuttosto quella di preservato la discrezionalità delle amministrazioni aggiudicatrici, consentendo loro di valutare, con la necessaria elasticità, le caratteristiche della situazione concreta. Nella vicenda in questione, il giudice ha ritenuto che il limite del 30% contestato relativo al subappalto dei lavori nella categoria OS28 era stato correttamente individuato dall’amministrazione per “precise ragioni tecniche” e risultava pertanto frutto di una valutazione “in concreto” dell’ente aggiudicatore.

Come anticipato, la grande novità del d.lgs. 36/2023 in tema di subappalto è rappresentata dal subappalto “a cascata”, altrimenti detto “il subappalto del subappalto”.

Espressamente vietato dall’art. 105, comma 19 d.lgs. 50/2016, il nuovo art. 119, comma 17 d.lgs. 36/2023 demanda alla stazione appaltante il compito di individuare la categoria di lavori o le prestazioni che, sebbene subappaltabili, non possono formare oggetto di ulteriore subappalto. In altre parole, il subappalto a cascata sembra divenire la regola, per cui l’amministrazione che intende vietarlo è tenuta a specificarne le ragioni nella lex specialis di gara.

Non tutte le ipotesi di “subaffidamento”, tuttavia, configurano subappalto a cascata. Secondo la recente sentenza del TAR Liguria n. 495/5023, ad esempio, non si configura il “subappalto a cascata” quando le prestazioni propriamente oggetto di subappalto sono svolte in forza del contratto di lavoro subordinato dal professionista dipendente della società subappaltatrice.

Nel caso di specie la ricorrente lamentava l’operato dell’aggiudicataria che, in sede di presentazione delle offerte, aveva dichiarato di ricorrere al subappalto per la predisposizione della documentazione archeologica in favore di una società, che a sua volta aveva nominativamente indicato un professionista – legato da un rapporto di lavoro dipendente - per l’espletamento delle prestazioni affidate. L’individuazione dell’archeologo avrebbe rappresentato, secondo la ricorrente, un subappalto “a cascata”.

Secondo il TAR, invece, la circostanza che l’archeologo sia dipendente della società subappaltatrice e che pertanto sia obbligato a rendere le proprie prestazioni in favore della stessa in forza del contratto di lavoro subordinato, esclude in radice che sia configurabile un subappalto “a cascata” di cui all’art. 105, comma 19 del d.lgs. 50/2016.

Le questioni che ruotano attorno all’istituto del subappalto a cascata sono molteplici e sembrano già nutrire degli animati contrasti, complice anche l’assenza – allo stato attuale – di indirizzi giurisprudenziali sul punto.

Di questo istituto e del subappalto in generale, torneremo certamente a parlarne nelle nostre news.

Oltre ad essere un tema a me caro, il subappalto rappresenta una risorsa assolutamente vincente per gli operatori che lavoro nel settore degli appalti pubblici e che bisogna conoscere e dominare, se non si vuole cadere in spiacevoli inconvenienti dal prezzo molto alto da pagare.

TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 27.5.2023, n. 187

TAR Liguria, Sez. I, 10.5.2023 n. 495

 


garanzia

Interdittiva antimafia in corso di esecuzione: illegittima l’escussione della garanzia definitiva

garanziaIl Consiglio di Stato è intervenuto sul tema della legittimità dell’escussione della garanzia definitiva qualora, dopo la stipula di un contratto pubblico e nelle more dell'esecuzione, la società appaltante sia colpita da una interdittiva antimafia.

Nel caso di specie, il Comune committente, una volta venuto a conoscenza di ben due interdittive antimafia che avevano colpito entrambe le società dell’RTI affidatario dell’appalto, aveva disposto la risoluzione del contratto e, conseguentemente, escusso la garanzia definitiva.

Nella sentenza d’appello, i giudici hanno riconosciuto la legittimità del provvedimento di risoluzione disposto dal Comune, mentre hanno ritenuto errata l’escussione della garanzia definitiva in applicazione dell’art. 103 d.lgs. 50/2016.

Quanto alla risoluzione, infatti, il Consiglio di Stato ha chiarito che, nel caso di specie, la stazione appaltante aveva fatto corretta applicazione del disposto dell’art. 94, comma 3 del d.lgs. 159/2011 e del comma 2 dell’art. 80 del d.lgs. 50/2016, procedendo quindi alla risoluzione del contratto. La caducazione del contratto d'appalto, in caso di informativa antimafia sopravvenuta alla sua stipulazione, è espressione di un potere vincolato della stazione appaltante, per la legittimità del quale rileva soltanto la situazione dell’impresa alla data dell’adozione del provvedimento di risoluzione. In altre parole, secondo il Collegio, non rilevano i contenziosi riguardanti l’interdittiva attivati dall'impresa per contestarne la legittimità.

Quanto all’errata escussione della garanzia, invece, i giudici hanno ritenuto che la ragione vada ricercata nella natura sia dell’interdittiva antimafia, sia della garanzia definitiva.

I giudici hanno evidenziato come l’interdittiva antimafia, costituendo motivo di esclusione dalla procedura ad evidenza pubblica, faccia venir meno la possibilità per il soggetto colpito di essere parte del rapporto con la pubblica amministrazione.  L’interdittiva antimafia, infatti, rappresenta un “forma di incapacità ex lege parziale” di carattere temporaneo, che preclude al destinatario di instaurare o mantenere rapporti contrattuali con la Pubblica amministrazione.

La garanzia definitiva disciplinata dall’art. 103 d.lgs. 50/2016 è invece destinata a soddisfare le pretese vantate dalla stazione appaltante per l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali dell’aggiudicatario, nei limiti del pregiudizio effettivamente subito. Più precisamente, spiega il Collegio, mentre la garanzia provvisoria di cui all’art. 93 d.lgs. 50/2016 “opera, secondo un modello di responsabilità oggettiva (ma che esplicitamente comprende anche la fattispecie dell’adozione di informazione antimafia interdittiva: art. 93, comma 6), con funzione compensativa dei danni per la mancata stipulazione del contratto, forfettariamente liquidati”, la garanzia definitiva di cui all’art. 103, comma 1, d.lgs. 50/2016 si atteggia come garanzia di adempimento in senso stretto, destinata a soddisfare le pretese, anche risarcitorie, vantate dalla stazione appaltante per l’inadempimento delle obbligazioni contrattuali, nei limiti del pregiudizio effettivamente subito.

L’interdittiva antimafia, dunque, se legittima la risoluzione del contratto giacché viene meno il “rapporto fiduciario” con l’amministrazione, non determina l’automatica escussione anche della garanzia definiva: l’interdittiva antimafia non può configurarsi quale inadempienza contrattuale.

Nel caso di specie, la stazione appaltante non aveva dato conto di pregiudizi economici che avrebbero potuto giustificare l’escussione della garanzia definitiva. In particolare, l'Amministrazione aveva ammesso che la ricorrente aveva fino a quel momento eseguito correttamente i lavori e che, dopo la risoluzione del contratto, era riuscita ad affidare la commessa alle medesime condizioni stabilite inizialmente con la società poi esclusa, senza maggiori costi. Sotto altro aspetto, la stazione appaltante si era limitata a dar seguito all’escussione della cauzione definitiva, che risultava “apoditticamente ed in via automatica basata sulla risoluzione per la sopravvenuta interdittiva prefettizia, in modo da attribuire alla stessa una funzione sanzionatoria che è estranea all’istituto e da configurare quell’indebito arricchimento della stazione appaltante, che è stato censurato dalla ricorrente”.

I giudici hanno così accolto il motivo di ricorso e annullato il provvedimento di escussione della garanzia definitiva disposto dall’amministrazione.

Cons. St., Sez. V, 16.6.2023, n. 5968


modifica

Contratti pubblici: è possibile la modifica tramite transazione?

modificaÈ possibile la modifica dell’accordo contrattuale, originariamente sottoscritto tra l’amministrazione committente e l’operatore aggiudicatario, mediante una transazione? A fornire una risposta è l'ANAC, con una delibera di recente pubblicazione.

Nella delibera viene domandato all’ANAC di stabilire se sia possibile per la stazione appaltante concludere un accordo transattivo e riassegnare l’appalto al medesimo operatore, destinatario di un provvedimento di risoluzione contrattuale ex art. 108, comma 3, d.lgs. 50/2016 (cui seguiva l’annotazione della predetta risoluzione nel casellario tenuto dall’ANAC, ai sensi di quanto stabilito dall’art. 213, comma 10, d.lgs. 50/2016).

Al fine di fornire risposta al quesito, l'ANAC ricorda innanzitutto che l’istituto della transazione, disciplinato dall’art. 208, d.lgs. 50/2016, è specificamente rivolto a dirimere tutte le controversie relative a diritti soggettivi che potrebbero eventualmente sorgere nell’ambito dell’esecuzione dei contratti pubblici. A tal scopo, tuttavia, spetta alla competente Avvocatura dello Stato l’onere di emettere un motivato parere, con il quale vengano esaminati tutti gli interessi sottesi (e, comunque, riconducibili) alla questione oggetto dell’accordo transattivo medesimo.

Secondo l’Autorità, è ben possibile, per l’Amministrazione, concludere accordi con l’appaltatore allo specifico fine di risolvere le controversie eventualmente sorte nel corso dell’esecuzione del contratto.

Pertanto è certamente legittimo il ricorso alla transazione c.d. semplice, ossia meramente modificativa della situazione giuridica che ha determinato il contrasto tra le parti, mentre è da escludersi il ricorso alla transazione c.d. novativa, finalizzata ad instaurare un nuovo rapporto contrattuale con l’appaltatore, diverso da quello originariamente esistente, al fine di soddisfare un interesse difforme rispetto a quello pattuito.

Sicché, la natura imperativa ed indisponibile dei sistemi di affidamento degli appalti pubblici è tale da non permettere la conclusione di accordi che alterino in maniera radicale il contenuto dell’accordo originariamente sottoscritto: ciò in quanto accordi transattivi di tale natura (che, vale ricordarlo, si porrebbero come fonti regolatrici del rapporto del tutto nuove) violerebbero quelle disposizioni (non suscettibili di deroga) in materia di scelta del contraente e di definizione del contenuto del contratto.

Secondo l’ANAC, dunque, la conclusione di accordi di natura transattiva tra committente ed appaltatore, al quale verrà affidato, in cambio della rinuncia alle pretese da questi avanzate in sede giurisdizionale, un nuovo appalto, determina un vulnus agli equilibri concorrenziali: “Le procedure di affidamento sono, infatti, rigorosamente soggette alla normativa comunitaria e nazionale a tutela della libera concorrenza e non possono essere oggetto di scambi transattivi in termini di “affidamento lavori/rinuncia alle liti»”.

A medesime conclusioni, ricorda l’Autorità, è giunta già da tempo la giurisprudenza sovranazionale, allorquando affermava che “modifiche apportate alle disposizioni di un appalto pubblico in corso di validità costituiscono una nuova aggiudicazione (…) quando presentino caratteristiche sostanzialmente diverse rispetto a quelle dell’appalto iniziale e siano, di conseguenza, atte a dimostrare la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali di tale appalto” (in questi termini, cfr. Corte di Giustizia CE, Sez. III, 19.6.2008, C-454/06).

Secondo la Corte di Giustizia, peraltro, si ha sostanziale modifica dell’appalto iniziale (tale da determinare una nuova aggiudicazione) in casi ben specifici, ossia:

  1. a) quando le modifiche apportate alle disposizioni inizialmente pattuite siano tali da dimostrare (per la loro radicale innovatività) la volontà delle parti di rinegoziare i termini essenziali dell’appalto;
  2. b) quando vengano introdotte modifiche che, se originariamente previste, avrebbero comportato l’ammissione di offerenti diversi rispetto a quelli in origine ammessi;
  3. c) quando la modifica altera l’equilibrio economico contrattuale in favore dell’aggiudicatario in modi non previsti dall’accordo originariamente sottoscritto.

A tal proposito, la stessa Corte ha poi chiaritoo che “dopo l’aggiudicazione di un appalto pubblico, a tale appalto non può essere apportata una modifica sostanziale senza l’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione, anche quando tale modifica costituisca, obiettivamente, una modalità di composizione transattiva, comportante rinunce reciproche per entrambe le parti, allo scopo di porre fine a una controversia, dall’esito incerto, sorta a causa delle difficoltà incontrate nell’esecuzione di tale appalto” (Corte di Giustizia CE, Sez. VIII, 7.9.2016, C-549/14).

In conclusione, secondo l’ANAC non sarebbe possibile risolvere le controversie eventualmente insorte tra committente ed appaltatore destinatario di una risoluzione contrattuale, affidando a quest’ultimo un nuovo appalto a condizione che egli rinunci alle pretese avanzate in sede giurisdizionale, atteso che tale affidamento sarebbe contrario ai principi codicistici di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità e pubblicità.

ANAC, parere funzione consultiva, 17.5.2023, n. 23


Nuovo codice dei contratti pubblici: le novità nel paper di Legal Team

Nuovo codice dei contratti pubblici.

Focus su: Digitalizzazione – Accesso agli atti – Incentivi per le funzioni tecniche – Principio di rotazione – Focus speciale su normativa applicabile ai contratti PNRR

Vista la confusione che regna sovrana, abbiamo predisposto un paper, a cura di Rosamaria Berloco e Pietro Falcicchio con la collaborazione di Marco Reale, Sara Turzo,  sulle novità del nuovo codice dei contratti pubblici in modo da rendere accessibile il quadro normativo in cui ci troviamo a operare.

Compila il form per ricevere gratuitamente il paper Nuovo codice dei contratti pubblici

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modifica

Appalti pubblici e RTI: la modifica organizzativa esclude la modifica per perdita dei requisiti di partecipazione?

modificaLa modifica della composizione degli RTI in sede di gara rappresenta da sempre un tema molto delicato.

Nonostante l’Adunanza Plenaria n. 10/2021 – sulla modificabilità per addizione o per aggiunta all’interno del RTI – e l’Adunanza Plenaria n. 2/2022 – che ha ammesso la modifica soggettiva del RTI in caso di perdita dei requisiti di partecipazione ex art. 80 d.lgs. 50/2016 da parte del mandatario o di una delle mandanti anche in fase di gara – siano intervenute a fare chiarezza su alcune problematiche relative alle modifiche della composizione degli RTI, permangono ancora alcuni dubbi applicativi.

Tra questi, il seguente: qual è il rapporto tra la modifica del RTI per ragioni organizzative (art. 48, comma 19 e 19-ter d.lgs. 50/2016) e la modifica del RTI per il venir meno dei requisiti partecipativi della mandante (art. 48, comma 18, d.lgs. 50/2016)? È possibile applicarle entrambe o il ricorso ad una esclude l’altra?

A fare chiarezza sul punto è una recente sentenza del TAR Liguria n. 605/2023.

Nell’ambito di una procedura aperta per la selezione di un operatore per l'affidamento in concessione di servizi di prestazione energetica, risultava primo classificato un RTI costituendo, composto da un’unica mandante.

A seguito delle verifiche sui requisiti partecipativi della mandante, l’amministrazione avviava il procedimento di esclusione. Nell’ambito del procedimento, le imprese raggruppande avevano comunicato la volontà di procedere ad una modifica in riduzione del RTI per ragioni di organizzazione aziendale ai sensi dell’art. 48, commi 19 e 19-ter, d.lgs. n. 50/2016, da attuarsi mediante il recesso della mandante.

La stazione appaltante aveva assegnato un termine entro cui le imprese avrebbero dovuto procedere alla modifica in riduzione; tuttavia entro il termine assegnato la mandante non aveva esercitato il recesso dal RTI, determinando la conseguente esclusione del raggruppamento.

Pochi giorni dopo l’esclusione, la mandataria aveva proceduto ad inoltrare alla stazione appaltante una nota, con cui comunicava il possesso in autonomia di tutti i requisiti di partecipazione alla gara, chiedendo altresì di proseguire in proprio la partecipazione alla procedura.

La mandataria procedeva così a rimodulare il raggruppamento non più avvalendosi delle ragioni “organizzative” di cui all’art. 48, comma 19 del Codice, ma di quelle relative all’impedimento della mandante di cui all'art. 48 comma 18.

La stazione appaltante aveva accolto l’istanza della mandataria per la prosecuzione come impresa singola e, riammettendola alla gara, le aveva aggiudicato la gara.

La seconda di graduatoria ha impugnato l’aggiudicazione lamentando la violazione dell’art. 48 del Codice 50/2016 e ritenendo che la riammissione alla gara della mandataria come singola sarebbe illegittima. A sostegno della propria posizione, la ricorrete ha sostenuto che la modifica in riduzione era avvenuta dopo l’esclusione del RTI, che non aveva proceduto nei tempi assegnati a modificare in riduzione la propria composizione per ragioni “organizzative” e che tale inerzia avrebbe comportato la decadenza dalla facoltà della mandataria di richiedere la modifica soggettiva ai sensi del comma 18.

A parere della ricorrente, una volta attivata una delle due modalità di riduzione del raggruppamento, non sarebbe più possibile attivare l’altra.

I giudici hanno ritenuto infondato il ricorso.

Secondo il TAR, il dato testuale dell’art. 48 non contiene alcun riferimento ad una presunta alternatività delle due tipologie di modifiche degli RTI, né sembra escludere che l’attivazione dell’una escluda la facoltà di attivare l’altra.

Al contrario, spiegano i giudici, sarebbe la stessa ratio dell’art. 48, che “è quella di favorire la permanenza in gara dei RTI, anche in formazione ridotta, al fine di contribuire alla celerità della conclusione della fase di evidenza pubblica o di esecuzione del contratto”, a consentire l’utilizzo di entrambe le modalità.

In tal senso, aggiunge il TAR, deve essere letto anche il contenuto del comma 18 dell’art. 48, che non si limita a conferire alla mandataria la semplice facoltà di proseguire in formazione ridotta, ma prevede uno specifico dovere di agire in tal senso, tanto che la norma specifica che “il mandatario, ove non indichi altro operatore economico subentrante che sia in possesso dei prescritti requisiti di idoneità, è tenuto alla esecuzione … [dei] lavori o servizi o forniture ancora da eseguire”.

Da tale quadro normativo discende, secondo i giudici, che:

- “non sussiste alcuna preclusione normativa che impedisca alla mandataria di richiedere prima la rimodulazione del RTI per ragioni organizzative (comma 19) e, se questa non si riveli possibile, di chiedere la riduzione del RTI mediante recesso della mandante priva dei requisiti;

- la mandataria rimasta sola in gara in seguito al recesso della mandante, ha il dovere di proseguire la gara e/o di eseguire il contratto (se ne ha i requisiti), e a tale dovere corrisponde l’obbligo della stazione appaltante di consentire tale attività (previa verifica dei requisiti)”.

TAR Liguria, Sez. I, 19.6.2023, n. 605


responsabilità

Mancato controllo sull’esecuzione delle opere: c’è responsabilità del direttore dei lavori

responsabilitàQuali sono i presupposti della responsabilità del DL nel caso di mancato controllo sull’esecuzione delle opere? In caso di ritardo nell’esecuzione dei lavori può esserci responsabilità solidale tra appaltatore e direttore dei lavori?

Una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione cerca di sciogliere tali dubbi.

Partiamo dal caso.

Due committenti agiscono in giudizio contro l’appaltatore richiedendo il risarcimento dei danni a causa dei vizi riscontrati nella costruzione in un immobile di loro proprietà, nonché il risarcimento del danno derivante dal tardivo completamento dei lavori.

L’appaltatore, di contro, sosteneva che gli spettasse una somma a titolo di saldo del prezzo pattuito e di opere realizzate extra capitolato. Con il medesimo atto, l’appaltatore domandava l’autorizzazione a chiamare in giudizio in manleva il direttore dei lavori, ritenendo che il ritardo nell’esecuzione dei lavori fosse dovuto ad una errata progettazione.

Il Tribunale di primo grado aveva accolto la sola domanda di risarcimento dei vizi di costruzione, ritenendo sussistente una responsabilità solidale tra l’impresa e il DL, mentre aveva ritenuto non risarcibile il danno conseguente al ritardo nel completamento dei lavori, essendo del tutto carente la prova del colpevole ritardo dell’appaltatore in tal senso: prova che doveva essere fornita dal committente, onerato dell’obbligo di controllare il regolare svolgimento dei lavori.

All’esito del giudizio di appello, tuttavia, tali conclusioni venivano riformate. In particolare, il giudice del gravame aveva accolto la domanda di risarcimento del danno derivante dal ritardo nell’ultimazione dell’opera e aveva ritenuto unico responsabile dei vizi dell’esecuzione l’appaltatore, escludendo così la responsabilità solidale del DL. E ciò in quanto:

a) si trattava di vizi riconducibili ad una mera cattiva realizzazione dell’esecuzione (che veniva, peraltro, tempestivamente contestata dal DL con tre distinti verbali);

b) non poteva ritenersi sussistente la culpa in vigilando del professionista, atteso che tale obbligo non implica la presenza del DL in cantiere tutti i giorni, per tutto il giorno.

I committenti hanno tuttavia proposto ricorso in Cassazione lamentando l’errata valutazione circa la responsabilità del DL. Secondo i ricorrenti, infatti, tra le obbligazioni del direttore dei lavori rientra "l’accertamento della conformità della progressiva realizzazione dell’opera al progetto", della rispondenza delle modalità di esecuzione  al capitolato e/o alle regole della tecnica, nonché l’adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi.

In applicazione di tali principi, dunque, la Corte d’appello avrebbe dovuto valutare la colpa grave del DL per l’inadempimento della sua obbligazione di sorveglianza e di verifica dell’opera nel corso dei lavori.

Peraltro, trattandosi di vizi e difetti di mera realizzazione ed esecuzione, sarebbero stati facilmente percepibili dal DL in corso d’opera.

Nel caso di specie, la mancanza di immediata verifica in corso d’opera delle anomalie sarebbe dipesa dalla negligenza del DL, che, in base a quanto risultante dalle testimonianze in atti, aveva omesso di effettuare periodiche visite ed ispezioni.

La Corte di Cassazione ha accolto i motivi di ricorso promossi.

Secondo i giudici, per costante giurisprudenza, tra gli obblighi del direttore dei lavori rientrano l’accertamento della conformità dell’opera al progetto, la supervisione delle modalità di esecuzione dell’opera (in conformità con il capitolato) e l’adozione degli accorgimenti attraverso cui garantire la realizzazione dell’opera a regola d’arte (senza, cioè, vizi di costruzione), anche mediante l'alta sorveglianza delle opere, che comporta comunque il controllo della realizzazione dell'opera nelle sua varie fasi e pertanto l'obbligo del professionista di verificare, attraverso periodiche visite e contatti diretti con gli organi tecnici dell'impresa, da attuarsi in relazione a ciascuna di tali fasi, se sono state osservate le regole dell'arte e la corrispondenza dei materiali impiegati.

Nel caso di specie, dunque, sussiste colpa grave del direttore dei lavori, il quale avrebbe dovuto monitorare costantemente le fasi di realizzazione dell’opera attraverso periodiche visite in cantiere (così assicurando l’esecuzione dei lavori a regola d’arte), atteso che da un controllo costante sarebbero stati facilmente evincibili i vizi costruttivi (trattandosi di vizi riconducibili alla mera realizzazione dell’opera).

Secondo i giudici, infatti, non esonera la responsabilità del direttore lavori la circostanza che questi avesse contestato all’appaltatore (con i citati verbali) l’esistenza di vizi e difetti dell’opera: ciò in quanto, come appena ricordato, l’obbligo di verifica della esecuzione a regola d’arte delle opere deve avvenire “in corso d’opera e non ex post, ad opere ultimate”.

In conclusione, la Cassazione ha cassato la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che “valesse ad esimere il professionista da responsabilità la circostanza che quest’ultimo avesse contestato all’impresa edile, solo dopo la consegna dei lavori, la presenza di vizi nelle opere”, atteso che dalla motivazione della pronuncia non è dato comprendere “in base a quali elementi probatori presenti in atti la Corte territoriale abbia ritenuto che tutti i vizi riscontrati nelle opere de qua potessero essere riscontrati solo a ultimazione delle opere”.

Cass. Civ., Sez. III, ord. 24.5.2023, n. 14456


centro cottura

Disponibilità del centro cottura: requisito di esecuzione e tutela del favor partecipationis

centro cotturaCon una recente delibera, l’ANAC ha ribadito che la disponibilità del centro cottura è un requisito di esecuzione e non un criterio di valutazione dell’offerta tecnica.

Attribuire un alto punteggio al possesso di specifici requisiti del centro cottura che il concorrente si impegna ad utilizzare in sede di esecuzione rischia di trasformare lo stesso in un requisito di partecipazione, con conseguente lesione dei principi del favor partecipationis, massima concorrenza e parità di trattamento.

Nel caso di specie, una società aveva contestato gli atti di una procedura di gara per il servizio di mensa scolastica, denunciando l’impossibilità di presentare un’offerta congrua in ragione, tra i vari motivi, della presenza di clausole illegittime.

In particolare, tra i requisiti di esecuzione, il bando prevedeva la disponibilità di un centro di cottura per la preparazione dei pasti. Per dimostrarne il possesso, il bando riteneva sufficiente attestare l’impegno a dotarsene in caso di aggiudicazione.

Secondo la società istante, tuttavia, sebbene il possesso del centro cottura rappresentava formalmente un requisito di esecuzione, nei fatti finiva per trasformarsi in un requisito di partecipazione.

Tra i criteri di aggiudicazione, infatti, venivano attribuiti ben 15/80 punti per il tempo impiegato per la consegna dei pasti dal centro cottura al plesso scolastico e 16/80 per le caratteristiche del centro cottura.

Il disciplinare di gara, oltretutto, prevedeva un tempo per l’allestimento del centro ex novo – 20 giorni – del tutto irrisorio per rispettare tutte le certificazioni richieste dalla stazione appaltante.

L’amministrazione aveva tuttavia ribadito che il possesso di un centro di cottura si qualificava come requisito di esecuzione e non di partecipazione e che la volontà di attribuire alle caratteristiche del centro cottura dei punteggi in sede di offerta era coerente con l’obiettivo di garantire sicurezza e qualità del servizio di refezione scolastica.

Secondo l’ANAC, la dotazione del centro cottura è un requisito di esecuzione, ossia una condizione per la stipulazione del contratto, sicché sarebbe evidentemente incompatibile con la ratio dei requisiti di esecuzione utilizzare gli stessi quale criterio di valutazione dell’offerta.

In altre parole, spiega l’Autorità, è solo in vista della sottoscrizione del contratto e della successiva esecuzione che l'amministrazione matura l'interesse a che il contraente abbia concretamente a disposizione una struttura per assicurare il servizio.

Richiedere la disponibilità del centro cottura all’atto di presentazione dell’offerta significherebbe imporre a tutti i concorrenti – in via del tutto irragionevole - di procurarsi anticipatamente, e comunque prima dell'aggiudicazione definitiva, un centro di cottura, ossia addossare in capo a tutti i partecipanti un costo economico ed organizzativo elevato, a fronte dell’incertezza circa l’aggiudicazione, oltre che dell’inizio dell’esecuzione. Pertanto, prima dell'aggiudicazione è da ritenersi sufficiente che vi sia una formale dichiarazione di impegno del concorrente a procurarsi tempestivamente un centro di cottura.

Ciò chiarito, se da un lato - spiega ANAC - ritenere la dotazione di un centro di cottura come requisito di partecipazione “avallerebbe un’impostazione ingiustificatamente restrittiva della concorrenza”, dall’altro, l’assegnazione di un punteggio elevato per il possesso di un centro di cottura, rende nei fatti il requisito esecutivo una condizione per la partecipazione alla procedura. Ciò non solo altera sensibilmente la par condicio con gli altri concorrenti, ma vanifica altresì le possibilità di presentazione di una proposta realmente competitiva, nello stesso interesse comparativo dell’amministrazione.

Nel caso di specie, peraltro, la tempistica individuata dalla stazione appaltante è stata ritenuta da ANAC insufficiente e sproporzionata per garantire agli operatori economici del settore la possibilità di presentare un’offerta e concorrere in condizioni di parità rispetto a coloro che, all’atto della partecipazione, fossero già in possesso del centro cottura e dei criteri richiesti dalla stazione stessa.

Spiega l’Autorità che a fronte di una gara bandita a gennaio 2023, per gli anni scolastici 2023/2024 – 2024/2025, con inizio esecuzione a settembre 2023, era ben possibile individuare una tempistica più ampia che garantisse a tutti gli operatori economici la possibilità di presentare un’offerta congrua

La delibera in commento si pone in continuità con l’orientamento giurisprudenziale pressoché unanime che, anche di recente, ha confermato che la disponibilità del centro cottura “va riguardato come requisito d’esecuzione, come tale legittimamente esigibile verso il concorrente aggiudicatario definitivo come “condizione” per la stipulazione del contratto” (tra le tante, TAR Campania, Salerno, Sez. I, 3.3.2023, n. 509), nonché con le precedenti posizioni espresse sul punto dalla stessa Autorità (Delibera ANAC, 4.12.2019, n. 1132).

Delibera ANAC 19.4.2023, n. 156


concessione

Concessioni demaniali: la decadenza di una concessione non è un automatismo

concessioneCon sentenza 2 maggio 2023, n. 4413, la Sezione VII del Consiglio di Stato si è pronunciata con riguardo al potere esercitato dall'amministrazione di disporre la decadenza della concessione demaniale.

In particolare, i giudici sono stati chiamati a pronunciarsi sull’appello promosso dal beneficiario di una concessione demaniale marittima avverso la sentenza del TAR Calabria che aveva affermato la legittimità della determinazione del comune con cui era stata dichiarata la decadenza dal provvedimento favorevole.

Un comune calabrese, difatti, in applicazione dell’art. 47 cod. nav. - che sancisce il potere per le amministrazioni di dichiarare la decadenza di un concessionario al ricorrere di determinati presupposti - aveva ritenuto che fossero venuti meno i requisiti soggettivi necessari per assicurare e garantire l’uso corretto ed efficiente del bene pubblico concesso, dal momento che il concessionario era risultato inadempiente agli obblighi dedotti nella concessione.

In particolare, il concessionario: aveva mantenuto oltre il termine assegnato alcuni manufatti amovibili; aveva illegittimamente realizzato, senza titolo, talune opere sul suolo dello Stato; aveva infine disatteso le ordinanze di rimessione in pristino.

Ebbene, i giudici di Palazzo Spada hanno confermato la legittimità del provvedimento di decadenza della concessione demaniale marittima di cui l’appellante era concessionario.

L’aspetto più rilevante della sentenza è tuttavia il ragionamento ricognitivo che i giudici compiono nel tracciare il perimetro della discrezionalità che in tali procedimenti l’amministrazione esercita.

Nel dichiarare la decadenza da una concessione ex art. 47 comma 1 cod. nav., difatti, le amministrazioni esercitano un potere discrezionale, che consta di due fasi: in un primo momento, a monte, l’amministrazione deve verificare la sussistenza dei presupposti normativamente previsti per l’esercizio del suo potere, applicando una regola tecnica suscettibile di apprezzamenti opinabili (discrezionalità tecnica); in un secondo tempo, a valle, l’amministrazione è chiamata ad operare una scelta di opportunità tra le diverse modalità di esercizio del potere (discrezionalità pura).

In altre parole, anche quando viene ravvisata la sussistenza di uno dei presupposti di cui all’art. 47 cod. nav., ossia un inadempimento del concessionario, l’Amministrazione competente non è obbligata a dichiarare la decadenza dalla concessione, ma è tenuta a ponderare tutti gli interessi coinvolti e a verificare la sussistenza dei presupposti di un’eventuale proficua prosecuzione del rapporto concessorio, avuto riguardo alla gravità caratterizzante l’inadempimento del concessionario.

In tal senso, dunque, militerebbe - secondo i giudici - la stessa formulazione dell’art. 47 comma 1 cod. nav., nella parte in cui afferma che l’amministrazione “può” e non “deve” dichiarare la decadenza. La ponderazione tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti effettuata dall’amministrazione sfugge tuttavia al sindacato giurisdizionale, “se non per eccesso di potere dipendente da manifesta contraddittorietà, illogicità, irragionevolezza o sproporzionalità della decisione”.

Il comune, infatti, deve valutare volta per volta, nel caso concreto, la gravità dell’inadempimento del concessionario, alla stregua delle regole previste dagli artt. 1453 e 1455 c.c. in materia di contratti a prestazioni corrispettive, secondo cui l’inadempimento deve essere di non scarsa importanza: non ogni inadempimento, perciò, giustifica l’automatica decadenza dalla concessione.

Osservando il rapporto di durata che si determina nell’ambito delle concessioni demaniali, in effetti, queste presentano significative analogie con i contratti di locazione e da questi ultimi si differenziano per la natura demaniale del bene concesso.

Spiegano i giudici che “La concessione di beni demaniali, infatti, è un atto complesso bilaterale preordinato a garantire, a talune condizioni, il godimento del bene ad un unico soggetto, con contestuale estromissione di tutti gli altri, nella prospettiva di assicurare il miglior soddisfacimento di predeterminate finalità pubblicistiche”.

Data la particolare natura del bene concesso, pertanto, per dichiarare la decadenza dalla concessione occorre considerare che l’interesse perseguito dall’amministrazione concedente non si esaurisce nella sola riscossione dei canoni demaniali pattuiti, “comprendendo anche e soprattutto il soddisfacimento delle finalità pubblicistiche perseguite con la concessione”. Per questo, ad assumere rilievo sono le inadempienze del concessionario tali da compromettere significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero da rendere inattuabili gli scopi sottesi al rilascio della concessione.

Ricordano i giudici, infatti, che secondo un consolidato orientamento del Consiglio di Stato “l’inadempimento che, ai sensi dell'art. 47 cod. nav., può dar luogo alla decadenza del titolo «deve essere di una certa consistenza» e gli elementi probatori della sussistenza di un'effettiva inadempienza rispetto agli obblighi nascenti dal titolo, «devono essere inequivoci, precisi e concordanti». L'Amministrazione concedente, «in osservanza del principio di gradualità e di proporzionalità nell'applicazione del provvedimento lato sensu sanzionatorio, può diffidare il concessionario dal perseverare in comportamenti violativi degli obblighi, facendo luogo al ritiro del titolo concessorio in occasione dell'accertata reiterazione del comportamento inadempiente» (così C.d.S., Sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232)”.

Ai fini della definitiva pronuncia di decadenza della concessione, dunque, per ravvisare l’inadempienza degli obblighi derivanti dalla concessione o imposti da norme di legge o di regolamento, “assumono rilievo le inadempienze del concessionario che compromettano significativamente il proficuo prosieguo del rapporto ovvero rendano inattuabili gli scopi per i quali la concessione stessa è stata rilasciata (v. Consiglio di Stato, sez. VI, 17 gennaio 2014, n. 232; 23 maggio 2011, n. 3046)”.

Nel caso sottoposto all’attenzione dei giudici, alcune delle opere realizzate senza autorizzazione, e non prontamente rimosse, avevano determinato un parziale mutamento della destinazione prevista del bene demaniale concesso in uso da semplice stabilimento balneare a ulteriore area ristoro, essendo stata realizzata una pizzeria ed un’area ristorante non contemplati nell’originario provvedimento concessorio. Allo stesso tempo alcuna autorizzazione ad un siffatto mutamento, o comunque ampliamento di scopo, poteva essere rinvenuta nel rilascio dei titoli edilizi per la realizzazione delle opere stesse. Non poteva neanche dirsi sufficiente, al fine di scongiurare la decadenza, una postuma rimozione delle opere amovibili, tanto più che da questo punto di vista la condotta del concessionario era stata più volte inadempiente, avendo disatteso più ordinanze di sgombero.

Infine, il Consiglio di Stato ha precisato che, nel caso di specie, l’effetto della decadenza non poteva essere evitato neppure dalla presentazione di un’istanza per l’estensione della concessione, da stagionale ad annuale, presentata dal concessionario, né dalla presentazione di una domanda di sanatoria delle opere abusive. In particolare, con riguardo all’istanza per l’estensione della concessione, i giudici di Palazzo Spada hanno evidenziato come non sia possibile il consolidarsi di un simile provvedimento secondo il meccanismo del silenzio-assenso, dal momento che la variazione di un provvedimento concessorio, al pari del suo rilascio, richiede ancora una volta una valutazione discrezionale della sua compatibilità con le esigenze del pubblico uso (cfr. art. 36 e 37 cod. nav.).

Cons. St., Sez. VII, 2.5.2023, n. 4413


cumulo

Appalti pubblici, cumulo alla rinfusa: il nuovo codice è punto di svolta?

cumuloAbbiamo spesso parlato delle problematiche legate alla qualificazione degli operatori economici plurisoggettivi, in particolare dei consorzi di imprese e delle criticità interpretative che presenta l’art. 47 del d.lgs. 50/2016 nel disciplinare il possesso dei requisiti per la partecipazione dei consorzi alle gare sugli appalti pubblici, in particolare in tema di cumulo alla rinfusa.

La questione sembra essere oggi risolta grazie al nuovo Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023) che da un lato, fornisce un’interpretazione autentica delle disposizioni del d.lgs. 50/2016, dall’altro sembra definitivamente aprire al cumulo alla rifusa in via pressoché illimitata.

Prima di richiamare le norme contenute nel d.lgs. 36/2023, occorre ripercorrere l’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di cumulo alla rinfusa; lo facciamo attraverso la disamina di una recente sentenza del TAR Campania n. 2390/2023 (cui si è espressa, nello stesso identico senso, il medesimo Giudicante campano con la sentenza n. 2897/2023).

Il cumulo alla rinfusa: l’evoluzione normativa e giurisprudenziale

Nel caso sottoposto all’attenzione del TAR Campania, un consorzio era stato escluso dalla gara per assenza della qualificazione OS12-B classifica III-bis in capo alla consorziata esecutrice, requisito tuttavia posseduto dal Consorzio.

Nel giudicare l’operato della stazione appaltante, i giudici hanno ripercorso il quadro normativo e giurisprudenziale sul tema del cumulo alla rinfusa.

Partendo dal codice del 2006, il TAR ricorda che la formulazione degli artt. 35 e 37 del d.lgs. 163/2006 non lasciavano dubbi sulla possibilità di applicare il cumulo alla rinfusa ai consorzi stabili, anche per i requisiti tecnico-finanziari documentati nell’attestato SOA e non posseduti in proprio dall’esecutrice dei lavori designata dal consorzio.

 La stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2012 aveva chiarito che “il possesso dei requisiti generali e morali ex art. 38 codice appalti deve essere verificato non solo in capo al consorzio ma anche alle consorziate, dovendosi ritenere cumulabili in capo al consorzio i soli requisiti di idoneità tecnica e finanziaria ai sensi dell’art. 35 codice appalti”.

Con l’entrata in vigore del codice del 2016, spiega il TAR, l’art. 47 commi 1 e 2 del d.lgs. 50/2016 (così come modificati dal c.d. primo correttivo del 2017), chiarivano che per poter spendere i requisiti dei consorziati indicati per l’esecuzione era sufficiente la semplice designazione in fase di gara della consorziata esecutrice, mentre per poter usufruire di quelli dei consorziati non designati occorreva, invece, ricorrere all’istituto dell’avvalimento.

 Maggiori problematiche sono sorte con la novella introdotta dal c.d. decreto Sblocca cantieri (d.l. 32/2019), che ha sostituito il comma 2 ed ha aggiunto il comma 2-bis all’interno dell’art. 47, in virtù dei quali:

- “I consorzi stabili di cui agli articoli 45, comma 2 e 46, comma 1, lettera f), eseguono le prestazioni o con la propria struttura o tramite i consorziati indicati in sede di gara senza che ciò costituisca subappalto, ferma la responsabilità solidale degli stessi nei confronti della stazione appaltante. Per i lavori, ai fini della qualificazione di cui all'articolo 84, con il regolamento di cui all'articolo 216, comma 27-octies, sono stabiliti i criteri per l'imputazione delle prestazioni eseguite al consorzio o ai singoli consorziati che eseguono le prestazioni. L'affidamento delle prestazioni da parte dei soggetti di cui all'articolo 45, comma 2, lettera b), ai propri consorziati non costituisce subappalto” (art. 47 comma 2);

- “La sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata, a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati. In caso di scioglimento del consorzio stabile per servizi e forniture, ai consorziati sono attribuiti pro quota i requisiti economico-finanziari e tecnico-organizzativi maturati a favore del consorzio e non assegnati in esecuzione ai consorziati. Le quote di assegnazione sono proporzionali all'apporto reso dai singoli consorziati nell'esecuzione delle prestazioni nel quinquennio antecedente” (art. 47 comma 2-bis).

La modifica in questione ha animato il contrasto giurisprudenziale in ordine ai limiti entro i quali è legittimo il cumulo alla rinfusa.

Secondo un primo orientamento (a dire il vero minoritario), infatti, nel caso in cui il consorzio individui una consorziata come esecutrice, quest'ultima dovrà essere autonomamente in possesso del requisito di qualificazione, così come, in caso di esecuzione in proprio ad opera del consorzio, quest'ultimo dovrà possedere e provare i requisiti, tecnici e professionali, di partecipazione. L’impresa consorziata non qualificata potrebbe valorizzare i requisiti posseduti, in proprio, dal consorzio stabile ovvero dalle consorziate non esecutrici ricorrendo all’ordinario strumento dell’avvalimento ex art. 89 d.lgs. n. 50/2016 (per tutte Cons. St., Sez. V, 22 agosto 2022, n. 7360, di cui abbiamo parlato anche qui).

Un secondo orientamento, invece, in prospettiva pro-concorrenziale, ritiene ammissibile il cumulo alla rinfusa giacché dal tenore dell’art. 47 d.lgs. 50/2016 non potrebbe desumersi che il singolo consorziato, indicato in gara come esecutore dell’appalto, debba essere a sua volta in possesso dei requisiti di partecipazione.

La sentenza in parola, con un articolato iter argomentativo, aderisce a tale seconda interpretazione in continuità con l’impostazione codicistica precedente.

Secondo il Collegio, infatti, l’art. 47, comma 2, d.lgs. 50/2016, non chiarisce le modalità di qualificazione dei consorziati designati per l’esecuzione, nel caso in cui i consorzi stabili intendano eseguire le prestazioni tramite le imprese consorziate. Tuttavia, la formulazione dell’art. 47 appare simile a quella contenuta nell’art. 35 d.lgs. 163/2006, all’epoca del quale era assolutamente pacifico il cumulo alla rinfusa.

Ad un più attento esame, infatti, secondo i giudici, risulta che l’art. 47 comma 1 d.lgs. 50/2016 prescrive che i requisiti di idoneità tecnica e finanziaria per l’ammissione alle procedure di affidamento dei consorzi devono essere posseduti e comprovati dagli stessi con le modalità previste dall’art. 83 d.lgs. 50/2016 per i requisiti di idoneità professionale, economica e finanziaria.

L’art. 83, comma 2, a sua volta rinvia al regolamento di cui all’art. 216, comma 27-octies la disciplina dei requisiti e delle capacità che devono essere posseduti dal concorrente: il suddetto regolamento non è mai stato adottato, sicché nel caso di specie continua a trovare applicazione l’art. 36 del d.lgs. 163/2006 e gli artt. 81 e 94 del d.P.R. 207/2010. Dall’insieme di queste disposizioni, secondo il TAR, si delinea il regime di qualificazione dei consorzi stabili secondo il criterio del “pieno” cumulo alla rinfusa, salvo eccezioni.

Il TAR Campania ribadisce così che “non è condivisibile l’affermazione per cui l’art. 47, comma 1, d.lgs. 50/2016 … avrebbe ridotto l’ambito di operatività del cumulo alla rinfusa, circoscrivendolo ai soli mezzi ed all’organico medio annuo”. L’ammissibilità del meccanismo del cumulo alla rinfusa “appare conforme alla ratio pro-concorrenziale sottesa alla disciplina dei consorzi stabili onde consentire l’operatività e sopravvivenza di tale strumento”.

Nell’accogliere il ricorso, il Collegio ha dunque confermato il principio secondo cui, nella partecipazione alle gare d’appalto e nell’esecuzione, è il consorzio stabile e non le singole imprese sue consorziate ad assumere la qualifica di concorrente e contraente e, per l’effetto, a dover dimostrare il possesso dei relativi requisiti partecipativi (attestazione SOA per categorie e classifiche analoghe a quelle indicate dal bando) che, ove posseduti, saranno in grado di “abilitare” anche le imprese designate.

In definitiva, dunque, secondo i giudici:

a) “i requisiti speciali di qualificazione SOA devono essere posseduti e dimostrati unicamente dal consorzio stabile, mediante la sola qualificazione e l’attestato SOA del consorzio medesimo (in ciò sostanziandosi la ratio e la finalità di tale figura soggettiva);

 b) detti consorzi partecipano alla procedura di gara utilizzando requisiti di qualificazione “loro propri”, ossia la propria attestazione SOA;

 c) alle consorziate designate per l’esecuzione dell’appalto spetta unicamente dimostrare il possesso dei requisiti di ordine generale, ciò al fine di impedire che possano giovarsi della copertura dell’ente collettivo, eludendo i controlli demandati alle stazioni appaltanti.”

  Il cumulo alla rinfusa nel nuovo Codice: l’art. 67 d.lgs. 36/2023

Nell’avvalorare la propria tesi, i giudici hanno fatto leva anche sulle disposizioni del nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023, in vigore dal 1 aprile 2023), che sembra ammettere il cumulo alla rinfusa.

Vediamo nel dettaglio cosa prevede il nuovo codice.

In primo luogo, l’art. 67, comma 2 introduce una nuova definizione di “cumulo alla rifusa” per i servizi e le forniture, non più limitato alle sole attrez­zatture e al personale, bensì esteso a tutti i requisiti speciali.

A sua volta, il successivo comma 3 prevede il doveroso possesso dei requisiti generali anche da parte delle consorziate non designate che “prestano” i requisiti al con­sorzio e la necessità che il consorzio esecutore possegga le autorizzazioni e gli altri titoli abilitativi per la partecipazione alla procedura di aggiudicazione.

L’art. 67 d.lgs. 36/2023 riproduce poi al comma 4 il contenuto dell’art. 47 comma 2 d.lgs. 50/2016, mentre al comma 8 risulta sostanzialmente sovrapponibile al previgente art. 36 comma 7 d.lgs. 163/2006: la Relazione di accompagnamento al nuovo codice precisa che la formulazione delle norme consente ai “consorzi stabili di attestare, per i lavori, i requisiti di qualificazione attraverso l’attestazione SOA del consorzio, nella quale si sommano i requisiti posseduti dalle singole consorziate”.

In tal senso, dunque, il nuovo codice sembrerebbe ammettere la piena operatività e ammissibilità del cumulo alla rinfusa: non vengono dunque posti limiti al cumulo, ma semplici oneri dichiarativi e di verifica anche nei confronti delle consorziate diverse da quelle concorrenti alla gara.

Peraltro, al fine di porre rimedio al contrasto giurisprudenziale animatosi attorno alla formulazione dell’art. 47 d.lgs. 50/2016, l’art. 225, comma 13 del nuovo codice fornisce un’interpretazione autentica sul cumulo alla rinfusa: “in via transitoria, relativamente ai consorzi di cui all’articolo 45, comma 1, lettera c), del medesimo codice, ai fini della partecipazione alle gare e dell’esecuzione si applica il regime di qualificazione previsto dall’articolo 36, comma 7, del codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture di cui al decreto legislativo 18 aprile 2006 n. 163 e dagli articoli 81 e 94 del regolamento di esecuzione ed attuazione di cui al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207. L’articolo 47, comma 2-bis, del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, si interpreta nel senso che, negli appalti di servizi e forniture, la sussistenza in capo ai consorzi stabili dei requisiti richiesti nel bando di gara per l'affidamento di servizi e forniture è valutata a seguito della verifica della effettiva esistenza dei predetti requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara.”

In altre parole, la norma impone di interpretare le disposizioni del d.lgs. 50/2016 in materia di qualificazione dei consorzi stabili nel senso di ammettere espressamente, e senza limiti, l’operatività del cumulo alla rinfusa, ossia che i requisiti richiesti dal bando di gara possono essere valutati anche sulla base del possesso dei requisiti in capo ai singoli consorziati, anche se diversi da quelli designati in gara (cd. consorziate esecutrici).

Si tratta di un principio applicabile alle procedure soggette all’applicazione del Codice del 2016, e valevole non solo per gli appalti di servizi e forniture, ma anche per gli appalti di lavori, in forza degli artt. 81 e 94 del d.p.r. 207/2010 che prevederebbero espressamente il cumulo alla rinfusa illimitato secondo l’interpretazione data dalla giurisprudenza amministrativa.

 

TAR Campania, Napoli, Sez. I, 19.4.2023, n. 2390

TAR Campania, Napoli, Sez. I, 12.5.2023, n. 2897


Concessioni demaniali il Consiglio di Stato ribadisce l’applicabilità della direttiva Bolkestein e dei principi delle sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria.

Concessioni demaniali: il Consiglio di Stato ribadisce l’applicabilità della direttiva Bolkestein e dei principi delle sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria.

Concessioni demaniali il Consiglio di Stato ribadisce l’applicabilità della direttiva Bolkestein e dei principi delle sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria.Con una recentissima sentenza del 15 marzo scorso, il Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi sul rigetto di un’istanza di rinnovo o proroga di una concessione di un’area boscata, ribadisce l’applicabilità dell’art. 12 della direttiva Bolkestein e dei principi delle sentenze c.d. gemelle dell’Adunanza plenaria alle concessioni demaniali (per un approfondimento scarica gratuitamente il paper cliccando qui).

Il caso

Una società, proprietaria di un complesso alberghiero e concessionaria dell’antistante area boscata, ha adito il TAR competente per l’annullamento delle deliberazioni di Giunta comunale e del Consiglio comunale nella parte in cui si prevedeva di mettere a gara l’affidamento della nuova concessione dell’area boscata.

Con successivi motivi aggiunti, la società ricorrente ha, altresì, impugnato, il rigetto dell’istanza di rinnovo o proroga del titolo concessorio, nelle more, presentata dalla stessa società.

Nello specifico, la ricorrente ha censurato l’illegittimità dell’operato dell’amministrazione in quanto ritenuto lesivo della sfera giuridica ed economica della ricorrente. Per quanto qui di interesse, la società ricorrente ha evidenziato che l’amministrazione comunale, nel rigettare l’istanza di rinnovo o proroga del titolo concessorio, non avrebbe tenuto conto né della natura complementare dell’uso della area pubblica rispetto al centro turistico ricettivo, né della proroga automatica delle concessioni demaniali marittime stabilita – fino all’anno 2020 per tutte le concessioni in essere del 21.12.2009 -dall’art.  1, comma 18 del d.l. n. 194/2009, come modificato dalla legge di conversione e dall’art. 34-duodecies, comma 1, d.l. n.179/2012.

Il TAR adito ha respinto sia il ricorso che i motivi aggiunti.

La decisione del Consiglio di Stato

La società ricorrente ha impugnato la sentenza, riproponendo, nella sostanza, le medesime ragioni di diritto.

La questione è dunque giunta all’attenzione dei giudici di Palazzo Spada, i quali, nel confermare la pronuncia del TAR, hanno respinto l’appello, ritenendolo infondato.

Preliminarmente, il Consiglio di Stato ha evidenziato che, alla stregua di quanto stabilito nella convenzione, stipulata tra le parti, la complementarità dell’uso dell’area boscata, eccepita dalla ricorrente, deve essere intesa nel senso che l’utilizzo del bene pubblico deve essere compatibile con l’esercizio dell’attività economica dell’impresa turistico-alberghiera, e tutelato attraverso l’imposizione, in capo alla concessionaria, di specifici obblighi di servizio pubblico. La prospettata natura complementare del bene pubblico non rappresenta, dunque, - come ritenuto dalla società ricorrente- un vincolo di destinazione del bene medesimo in funzione dell’impresa privata, ma, al contrario, un limite alla concessione di diritti esclusivi in favore del concessionario.

I giudici di Palazzo Spada hanno, quindi, ritenuto corretto il comportamento dell’amministrazione comunale che, nel contemperare le esigenze di tutela e valorizzazione del bene pubblico con quelle commerciali dell’impresa privata, ha rigettato l’istanza di rinnovo o proroga della concessione, ritenendo prevalenti le ragioni di pubblico interesse sottese all’apertura al mercato.

In ogni caso, il Consiglio di Stato ha evidenziato che il diniego all’istanza di rinnovo o proroga della concessione è stato correttamente opposto dall’amministrazione comunale anche alla luce della normativa europea e dei principi espressi dalle ormai note sentenze gemelle n. 17 e 18 del 2020 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, secondo cui “se la proroga è direttamente disposta per legge ma la relativa norma che la prevede non poteva e non può essere applicata perché in contrasto con il diritto dell’Unione, ne discende che l’effetto della proroga deve considerarsi tamquam non esset”,

In definitiva, dunque, il Consiglio di Stato ha rigettato l’appello, ritenendo non applicabile, nel caso di specie, l’invocata proroga del titolo concessorio.

La pronuncia in commento è degna di nota perché fa seguito ad un’altra sentenza del Consiglio di Stato, sempre della Sez. VII, del 1 marzo 2023, n. 2192 con la quale è stato espressamente statuito che: “sulla base di quanto affermato dall’Adunanza Plenaria, con le ricordate sentenze nn. 17 e 18 del 2021, non solo i commi 682 e 683 dell’art. 1 della L. n. 145/2018, ma anche la nuova norma contenuta nell’art. 10-quater, comma 3, del D.L. 29/12/2022, n. 198, conv. in L. 24/2/2023, n. 14, che prevede la proroga automatica delle concessioni demaniali marittime in essere, si pone in frontale contrasto con la sopra richiamata disciplina di cui all’art. 12 della direttiva n. 2006/123/CE, e va, conseguentemente, disapplicata da qualunque organo dello Stato”.

Nella sentenza in commento, dunque, i giudici di Palazzo Spada, pur non pronunciandosi espressamente sulla disciplina di proroga da ultimo introdotta dal legislatore (L. 14/2023), sembrano non avere dubbi in merito alla disapplicazione della proroga da parte di qualunque organo dello Stato.

(Consiglio di Stato, Sez. VI, 15.3.2023, n. 2740)