clausole territorialità punteggio

Clausole di territorialità “regionali” e attribuzione di punteggio tecnico

clausole territorialità punteggioLe c.d. clausole di territorialità negli appalti pubblici, ovverosia quelle clausole dei bandi di gara che valorizzano un elemento di localizzazione territoriale, sono tendenzialmente considerate illegittime ove attengano a un requisito di partecipazione alla procedura.

Quando, invece, il radicamento territoriale viene adoperato quale criterio di valutazione per attribuire punteggio all’offerta tecnica oppure quale requisito di esecuzione del contratto si ritiene solitamente che la ragionevolezza della clausola vada valutata caso per caso, con particolare riferimento alle caratteristiche della prestazione oggetto di gara.

Ad esempio, in un caso di recente posto al vaglio del TAR Calabria, in una procedura di gara indetta da un comune per l’individuazione del soggetto attuatore di un progetto SPRAR (Servizio per richiedenti asilo e rifugiati), venivano attribuiti fino a ben 10 punti al “radicamento” del concorrente sul territorio della Regione Calabria.

Il TAR ha ritenuto irragionevole tale criterio di valutazione proprio in virtù della sua dimensione “regionale” – anziché comunale o locale – sottolineando che non era comprensibile come la presenza “radicata” di un’impresa in una qualsiasi area del vastissimo territorio regionale calabrese, magari distante centinaia di chilometri dal comune procedente, potesse meglio “illuminare” la qualità dell’offerta tecnica, risultando al contrario ininfluente ai fini della tutela dell’interesse individuato dall’amministrazione.

La sentenza ammette, infatti, che la maturazione di un’integrazione territoriale possa assumere nel servizio di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria un rilievo significativo, vista l’importanza della collaborazione con le istituzioni e con i servizi socio-sanitari ed educativi e con il mondo dell’associazionismo, ma al contempo rileva che si tratta di un criterio che perde progressivamente di significato man mano che ci si allontana dal territorio del Comune interessato dalla esecuzione del servizio.

TAR Calabria, Reggio Calabria, 30/11/2021, n. 901


anac terzo settore co-progettazione

Co-progettazione: anche l’ANAC è convinta

anac terzo settore co-progettazioneL’ANAC ha pubblicato un nuovo schema di linee guida recanti “Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali”, posto in consultazione on line dal 1° ottobre al 15 novembre 2021.

Lo schema costituisce il secondo tentativo di sostituire le linee guida di cui alla determinazione n. 32/2016, adottate in vigenza del precedente Codice dei contratti pubblici del 2006. Già nel 2019, infatti, l’Autorità aveva redatto uno schema di linee guida a tal fine, ma il Consiglio di Stato, con parere Sez. atti norm., 27 dicembre 2019, n. 3235, aveva chiesto all’ANAC di rivedere la bozza con riferimento alle norme e agli istituti disciplinati dal Codice del Terzo settore (CTS), in quanto tali istituti – estranei alla disciplina dei contratti pubblici – non potevano rientrare nel campo di operatività delle linee guida non vincolanti.

La richiesta del Consiglio di Stato aveva costituito la prima tappa di un percorso di rafforzamento dell’autonomia della disciplina degli istituti collaborativi del Codice del Terzo settore (co-progettazione e convenzioni) nei confronti di quella degli appalti pubblici, dopo che il parere n. 2052/2018 dello stesso Consiglio di Stato ne aveva messo in dubbio la legittimità.

Oggi, dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020, l’inserimento da parte della legge di conversione del decreto Semplificazioni (l. 11 settembre 2020, n. 120) di alcuni riferimenti al Titolo VII del CTS nel corpo del Codice dei contratti pubblici e, infine, l’adozione delle Linee guida in materia del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, l’approccio verso gli istituti collaborativi è decisamente cambiato e anche l’ANAC ha dovuto confrontarsi con la nuova (o meglio rinnovata) impostazione.

Vi sarà senz’altro occasione di approfondire il contenuto delle linee guida relativo agli appalti di servizi sociali una volta adottato il testo definitivo, ma ciò che interessa al momento è proprio l’approccio dell’ANAC agli istituti del Codice del Terzo settore.  Lo schema di linee guida, infatti, precisa sin dalla premessa che, dopo il coordinamento fra i due Codici operato dalla legge di conversione del decreto Semplificazioni, ci troviamo davanti a una “riduzione dell’ambito di applicazione” del Codice dei contratti pubblici, che recede di fronte alle forme di coinvolgimento degli enti del Terzo settore previste dal relativo Codice, cui si applicano invece le disposizioni di cui alla l. n. 241/1990. Le linee guida dell’ANAC, pertanto, si applicano solo ed esclusivamente alle procedure di affidamento dei servizi sociali di cui al Codice dei contratti pubblici, mentre con riferimento agli istituti collaborativi del CTS il documento rinvia alle apposite Linee guida del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, adottate con DM 31 marzo 2021, n. 72.

Inoltre, l’ANAC classifica espressamente le forme di co-programmazione e co-progettazione e le convenzioni previste rispettivamente dagli artt. 55 e 56 CTS come fattispecie estranee all’applicazione del Codice dei contratti pubblici, anche se affidate a titolo oneroso.

Insomma, anche l’ANAC è ormai convinta dell’autonomia e legittimità della co-progettazione e degli altri istituti collaborativi con gli enti del Terzo settore. Non resta che attendere l’adozione dei primi pareri di precontenzioso per vedere se sarà convinta anche dalla loro applicazione concreta da parte delle amministrazioni.

Schema di Linee guida recanti “Indicazioni in materia di affidamenti di servizi sociali”


accesso offerta tecnica

L’accesso all’offerta tecnica: la CGUE impone di motivare il diniego delle stazioni appaltanti

accesso offerta tecnicaPremessa

L’accesso agli atti della procedura di gara e, segnatamente, alle offerte tecniche dei candidati, costituisce un aspetto fondamentale per comprendere e valutare la percorribilità di un ricorso avverso l’aggiudicazione.

Nel nostro ordinamento, l’art. 53, comma 5 del d.lgs. 50/2016 esclude il diritto di accesso e ogni forma di divulgazione delle “informazioni fornite nell’ambito dell’offerta o a giustificazione della medesima che costituiscano, secondo motivata e comprovata dichiarazione dell’offerente, segreti tecnici o commerciali”. Il successivo comma 6, invece, ammette l’accesso c.d. difensivo a tali informazioni, consentendo al concorrente, ai soli fini della difesa in giudizio, di prendere visione dei suddetti atti.

Il problema che spesso si pone con riferimento all’accesso attiene non solo all’opposizione che la società controinteressata – la cui offerta è soggetta a richiesta di visione – propone al fine di inibire l’accesso alla propria offerta, ma anche, e soprattutto,  alla prassi delle stazioni appaltanti che tendono spesso a recepire acriticamente la suddetta dichiarazione, con il risultato di inibire qualsiasi tipo di conoscenza dell’altrui offerta e, dunque, la sua conoscibilità ai fini della presentazione di un ricorso.

Non mancano peraltro casi in cui le amministrazioni negano l’accesso sulla base dell’irrilevanza della documentazione ai fini del ricorso che l’interessato ha intenzione di proporre.

Nei fatti, il risultato di un simile modus operandi mina la posizione degli offerenti, che restano tutelati solo parzialmente, perché finiscono per disporre di una quantità minore di informazioni rispetto a quelle che potrebbero essere necessarie per agire a difesa dei propri interessi.

Ne deriva che la tutela effettiva della posizione degli operatori che hanno partecipato alla gara, ma che non sono risultati aggiudicatari rimane vincolata ad una decisione giudiziale sull’ostensione della documentazione tecnica che, se negativa, mina di per sé le chance di accoglimento del ricorso proposto contro l’aggiudicazione.

Una simile prassi è stata già correttamente stigmatizzata in alcune sentenze nazionali, nelle quali i giudici hanno avuto modo di precisare che le dichiarazioni presentate dalla controinteressata devono essere valutate dalla stazione appaltante, la quale dovrà rilevare la pertinenza e la validità delle ragioni prospettate a sostegno del diniego.

A rimarcarne l’irragionevolezza è intervenuta altresì una recente pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione europea.

 

Il caso

La questione oggetto di giudizio origina da una gara per l’affidamento di servizi di raccolta dei rifiuti urbani in un comune della Lituania.

La seconda graduata aveva richiesto alla stazione appaltante l’accesso all’offerta proposta dal raggruppamento risultato primo in graduatoria, ricevendo solo le informazioni dell’offerta non riservate.

A seguito del rigetto da parte del Comune della contestazione mossa avverso l’aggiudicazione, ritenuta dall’ente lacunosa e insufficiente, la società aveva promosso un giudizio innanzi al tribunale lituano per ottenere l’accesso all’offerta tecnica del raggruppamento, sostenendo l’esigenza di prendere visione della stessa ai fini della proposizione del giudizio avverso l’aggiudicazione.

Nel corso del giudizio di primo grado, l’amministrazione aveva affermato che il raggruppamento aggiudicatario aveva qualificato gran parte delle informazioni trasmesse come riservate ed aventi valore commerciale, precisando che la loro divulgazione ai concorrenti avrebbe potuto recargli pregiudizio. Il giudice aveva accolto la tesi dell’amministrazione, qualificando la documentazione richiesta come riservata e, dunque, non divulgabile, negando così l’accesso a tutta la documentazione richiesta dalla società ricorrente.

In sede di appello, invece, il giudice ha annullato sia il diniego d’accesso sostenuto dall’Amministrazione che la graduatoria finale, ordinando di procedere ad una nuova valutazione delle offerte.

Sulla base dell’appello promosso dal Comune, il giudice di Cassazione lituano ha formulato rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo, chiedendo, in sostanza, alla Corte di chiarire quale sia il corretto bilanciamento tra la tutela delle informazioni riservate fornite da un offerente e l’effettività dei diritti della difesa degli altri offerenti.

 

L’obbligo dell’amministrazione di proteggere le informazioni riservate e l’obbligo di motivazione del diniego

 In premessa la Corte di Giustizia ricorda che, in base a quanto previsto dal diritto dell’Unione e dalle direttive in materia di appalti, al fine di non falsare la concorrenza tra le imprese, è necessario che le amministrazioni aggiudicatrici non divulghino informazioni che gli operatori economici considerano riservate, compresi i segreti tecnici o commerciali.

In linea di principio, dunque, a seguito di una richiesta di accesso alle informazioni riservate contenute nell’offerta dell’operatore aggiudicatario, l’amministrazione aggiudicatrice non deve divulgare tali informazioni, potendo imporre legittimamente agli operatori economici condizioni intese a proteggere la natura confidenziale delle informazioni che sono state rese disponibili ai fini della procedura di appalto. La Corte spiega infatti che “poiché le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici sono fondate su un rapporto di fiducia tra gli operatori economici e le amministrazioni aggiudicatrici, questi ultimi devono poter comunicare a tali amministrazioni aggiudicatici qualsiasi informazione utile nell’ambito della procedura di aggiudicazione, senza temere che esse rivelino a terzi elementi di informazione la cui divulgazione potrebbe recare pregiudizio a tali operatori”.

A fronte di ciò, l’amministrazione aggiudicatrice non può tuttavia essere vincolata dalla semplice affermazione di un operatore economico secondo la quale le informazioni trasmesse sono riservate. Tale operatore deve infatti dimostrare la natura realmente riservata delle informazioni alla cui divulgazione esso si oppone, dimostrando, ad esempio, che esse contengono segreti tecnici o commerciali, che il loro contenuto potrebbe essere utilizzato per falsare la concorrenza o che la loro divulgazione potrebbe essergli pregiudizievole.

Nel caso in cui l’amministrazione rifiuti di comunicare le informazioni riservate di un operatore economico ad uno dei concorrenti, questa è tenuta a sua volta rispettare l’obbligo di motivazione.

È infatti la motivazione del diniego che permette, secondo la Corte, il giusto bilanciamento tra il divieto di divulgare le informazioni riservate comunicate da operatori economici, il principio di effettività della tutela giurisdizionale e il rispetto del diritto di difesa delle parti.

Tale bilanciamento, infatti, non può non tenere conto del fatto che, in mancanza di informazioni sufficienti che consentono di verificare se la decisione dell’amministrazione relativa all’aggiudicazione dell’appalto sia viziata da eventuali errori o illegittimità, un offerente non ha la possibilità, in sostanza, di intraprendere un ricorso efficace avverso tale decisione.

In ragione di ciò, dunque, l’amministrazione aggiudicatrice deve indicare chiaramente i motivi per i quali ritiene che le informazioni alle quali è chiesto l’accesso o, quanto meno, alcune di esse, siano riservate.

Oltre a ciò, l’amministrazione aggiudicatrice deve altresì comunicare in una “forma neutra”, tale da preservare la natura riservata dei dati, il contenuto essenziale delle informazioni che sono state ritenute riservate all’offerente che li richiede e, più in particolare, il contenuto dei dati concernenti gli aspetti determinanti della sua decisione e dell’offerta selezionata. A tal fine, ad esempio, un’amministrazione può chiedere all’operatore la cui offerta è stata selezionata di fornirle una versione non riservata dei documenti contenenti informazioni riservate che può essere trasmessa agli altri offerenti che ne fanno richiesta.

Sottolinea la Corte che “l’obbligo dell’amministrazione aggiudicatrice di proteggere le informazioni considerate riservate dell’operatore economico al quale è stato aggiudicato l’appalto pubblico non deve essere interpretato talmente estensivamente da privare l’obbligo di motivazione della sua sostanza e da privare di effetto utile l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della direttiva 89/665 che enuncia, in particolare, l’obbligo per gli Stati membri di prevedere ricorsi efficaci. A tal fine, l’amministrazione aggiudicatrice può, in particolare e purché il diritto nazionale al quale è soggetta non vi si opponga, comunicare in forma sintetica taluni aspetti di una candidatura o di un’offerta nonché le loro caratteristiche tecniche, di modo che le informazioni riservate non possano essere identificate”.

Chiarisce poi la Corte che nell’ambito di un ricorso relativo ad una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico, il principio del contraddittorio non implica che le parti abbiano un diritto di accesso illimitato e assoluto al complesso delle informazioni relative alla procedura di aggiudicazione fornite dai vari concorrenti.

Le amministrazioni, infatti, hanno l’obbligo di fornire all’offerente le informazioni sufficienti a salvaguardare il diritto a un ricorso efficace, tutelando comunque il diritto degli altri operatori alla tutela delle informazioni riservate e dei loro segreti commerciali.

In questo contesto, il ruolo del giudice nazionale è quello di verificare, tenendo conto sia della necessità di salvaguardare una concorrenza leale sia della necessità di tutelare le informazioni realmente riservate e in particolare i segreti commerciali dei partecipanti alla gara d’appalto, che l’amministrazione aggiudicatrice abbia correttamente ritenuto che le informazioni che ha rifiutato di comunicare siano riservate. A tal fine, il giudice nazionale deve procedere ad esaminare tutti gli elementi di fatto e di diritto pertinenti, prendendo visione delle informazioni riservate e dei i segreti commerciali. Alla luce di ciò il giudice deve valutare l’adeguatezza della motivazione: a seguito dell’istruttoria condotta, ove questa risulti insufficiente, deve annullare la decisione di rifiuto e, dunque, permettere l’ostensione degli atti al richiedente.

 

L’auspicio

La pronuncia esaminata segna un passo importante per tutti gli operatori economici ma anche per le stazioni appaltanti. L’onere di motivazione che viene imposto alle amministrazioni, infatti, permette agli operatori di conoscere, seppur in una “forma neutra” e sintetica, il contenuto delle offerte degli altri concorrenti e dell’aggiudicatario, anche ove queste siano riservate, potendo così ponderare in maniera più razionale la proposizione di un ricorso. Le stesse stazioni appaltanti, poi, non soggiacciono più alle opposizioni avanzate dalle società controinteressata, potendo (rectius: dovendo) assumere esse stesse una decisione circa il grado di riservatezza delle informazioni rese, garantendo, anche in questa fase, la par conditio tra tutti gli offerenti.

Corte di Giustizia UE, sent. 7/09/2021, in C-927/19


criteri natura sociale lavoratori

Criteri di valutazione delle offerte e tutela dei lavoratori

criteri natura sociale lavoratoriL’attenzione a interessi di natura sociale nelle procedure per l’affidamento di appalti pubblici è sempre più diffusa nella prassi delle stazioni appaltanti, così come quella, ormai consueta, relativa ad aspetti di tutela ambientale.

In alcuni casi, tale attenzione può essere concretizzata nell’individuazione di criteri di valutazione delle offerte tecniche che attribuiscano punteggio a elementi volti a garantire un più elevato livello di tutela dei lavoratori impiegati nell’esecuzione del contratto.

Ad esempio, in un caso recentemente sottoposto al Consiglio di Stato, il bando di gara prevedeva dei criteri di valutazione volti a premiare la percentuale di lavoratori adibiti all’appalto con contatto pluriennale a copertura della vigenza dell’appalto e la scelta dell’appaltatore di applicare determinati CCNL.

Il Consiglio di Stato ha ritenuto legittima tale previsione, non prevista a pena di esclusione ma appunto come elemento premiante nella valutazione dell’offerta e destinata ad operare come condizione di esecuzione del contratto e, per tale natura, rientrante tra i requisiti per l’esecuzione dell’appalto, che, ai sensi dell’art. 100 del Codice, possono attenere anche a esigenze sociali e ambientali.

Anche l’art. 95 del Codice, che disciplina i criteri di aggiudicazione, recando un elenco meramente esemplificativo di possibili criteri, valorizza gli aspetti ambientali e sociali. La sentenza conclude dunque che la stazione appaltante può discrezionalmente inserire tra i criteri di aggiudicazione anche particolari condizioni di esecuzione dell’appalto volte a conseguire obiettivi di natura sociale.

La condizione necessaria per il legittimo esercizio di tale potere discrezionale, secondo il Consiglio di Stato, è costituita dalla verifica della sussistenza di una connessione tra i criteri e l’oggetto dell’appalto, oltre che dei principi generali di proporzionalità e ragionevolezza.

Nel caso di specie, i criteri facevano riferimento esclusivamente all’impegno ad applicare un determinato CCNL e ad assumere con contratti a tempo indeterminato per i lavoratori da impiegare nell’esecuzione dello specifico appalto, senza riferimenti ad aspetti relativi alla politica generale dell’impresa o comunque ad altri profili, estranei al programma contrattuale.

Inoltre, i criteri appaiono rispettosi del principio di proporzionalità, posto che, in relazione al punteggio attribuito, la clausola rivela una limitata incidenza sul punteggio complessivo e non appare quindi idonea a scardinare l’impianto dei criteri di valutazione.

Consiglio di Stato, Sez. V, 20/10/2021, n. 7053


Redazione delle offerte tecniche: il caso della scheda riassuntiva incompleta

La redazione delle offerte tecniche in maniera difforme rispetto a quanto previsto dalla documentazione di gara predisposta dalla stazione appaltante è spesso fonte di contenzioso.

Al cuore delle relative questioni si pone spesso il crinale tra difformità sostanziali e difformità meramente formali, che non inficiano la capacità della commissione di accertare la completezza delle offerte e di valutarle e compararle.

In un recente caso all’esame del TAR Umbria, l’aggiudicataria di una gara aveva compilato in maniera incompleta il modello di scheda tecnica riassuntiva delle caratteristiche dell’offerta tecnica fornito dalla stazione appaltante, circostanza che veniva contestata dal ricorrente.

Nel definire la questione, il TAR ha però verificato che – come rilevato anche dalla commissione di gara – le informazioni mancanti dalla scheda riassuntiva erano presenti in altri documenti inseriti nella busta dell’offerta tecnica, quali la ad esempio la scheda illustrativa delle funzioni e delle specifiche tecniche dei beni oggetto dell’affidamento, dai cui la commissione ha potuto trarre tutte le informazioni necessarie per la valutazione del dispositivo offerto e l’assegnazione dei relativi punteggi.

Con riferimento alla presenza della richiesta interfaccia con il sistema di cartella clinica informatizzata attualmente in uso presso le aziende sanitarie e ospedaliere della Regione, la commissione ha comunque proceduto a verificare direttamente tale elemento per tutte le offerenti attraverso lo stesso programma di gestione del sistema. Si tratta di un passaggio della sentenza che colpisce in modo particolare, in quanto viene considerato naturale questo supplemento di istruttoria svolto dalla commissione – in fase di valutazione delle offerte tecniche – anche su fonti esterne rispetto alla documentazione fornita dagli operatori.

Pertanto, il TAR ha richiamato alcuni precedenti giurisprudenziali, secondo i quali l’omessa allegazione di una scheda tecnica recante la descrizione dei prodotti indicati nell’offerta non può legittimare l’immediata esclusione del concorrente, pur se prevista come essenziale dalla documentazione di gara, se gli elaborati presentati per integrare la documentazione tecnica siano comunque idonei a concorrere, in misura equivalente, alla definizione ed illustrazione delle caratteristiche dei singoli prodotti e alla valutazione qualitativa e di merito circa la rispondenza e conformità ai parametri tecnici richiesti.

L’incompletezza della compilazione della scheda tecnica riassuntiva non può dunque determinare l’esclusione dell’offerente, laddove, come nel caso all’esame del TAR, le informazioni sulle caratteristiche tecniche della fornitura, necessarie per la formulazione del giudizio della commissione, siano comunque rinvenibili altrove nella documentazione presentata a corredo dell’offerta (oppure, verrebbe da aggiungere, nel sistema regionale di gestione delle cartelle cliniche…).

Certamente condivisibile è, comunque, la conclusione del TAR Umbria per cui, diversamente opinando, si escluderebbe il concorrente sulla base di una mancanza meramente formale, in evidente contrasto con il principio del favor partecipationis.

TAR Umbria, Sez. I, 24/09/2021, n. 682


co-progettazione gratuità

Co-progettazione e gratuità: un nodo scomodo da sciogliere

co-progettazione gratuitàLa co-progettazione, insieme agli altri istituti collaborativi tra enti del Terzo settore e pubbliche amministrazioni, è stata negli ultimi anni al centro di un acceso dibattito e di una repentina evoluzione di norme e prassi.

Infatti, a una fase in cui tali istituti erano stati guardati con sospetto, quando nel 2018 un parere del Consiglio di Stato aveva ritenuto dovesse prevalere sempre la disciplina sugli appalti pubblici, in tempi più recenti l’autonomia della disciplina del Codice del Terzo settore si è indubbiamente progressivamente rafforzata, grazie alla nota sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020 che, in un lungo inciso, valorizza lo spirito collaborativo che caratterizza tali istituti, all’inserimento da parte della legge di conversione del decreto Semplificazioni (l. 11/09/2020, n. 120) di alcuni riferimenti al Titolo VII del Codice del Terzo settore nel corpo del Codice dei contratti pubblici e, da ultimo, alle nuove Linee guida adottate di recente dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Ciononostante, abbiamo già avuto modo di notare che il giudice amministrativo non sembra sempre prendere in considerazione tale evoluzione (anche normativa) e continua a richiamare il parere del Consiglio di Stato n. 2052/2018 che aveva affermato che l’affidamento dei servizi sociali deve in ogni caso rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, rappresentando sempre e comunque un “appalto”, e della cui attualità, soprattutto dopo le modifiche del decreto Semplificazioni, c’è perlomeno da dubitare.

Di recente, anche il Consiglio di Stato ha adottato una decisione che non considera in alcun modo gli sviluppi degli ultimi anni. Nel caso di un affidamento del servizio di gestione di una spiaggia attrezzata comunale destinata a persone con disabilità, ha ritenuto centrale la tematica della gratuità o meno del servizio oggetto dell’affidamento, muovendo proprio dal parere Commissione speciale del Consiglio di Stato n. 2052/ 2018.

La sentenza sul punto richiama proprio il passaggio sui rapporti tra Codice dei contratti pubblici e Codice del Terzo settore (oggi disciplinati da diversi articoli del primo Codice), per cui l’affidamento dei servizi sociali rappresenta sempre e comunque un appalto.

Viene poi richiamato il passaggio del parere in cui si ritiene che l’affidamento di servizi sociali sfuggirebbe al diritto europeo solo ove sia “a titolo integralmente gratuito” (come nel parere, manca sempre una qualsivoglia considerazione della soglia di rilevanza comunitaria, come è noto molto elevata per i servizi sociali).

Il Consiglio di Stato ritiene che, in tale frangente, il concetto di gratuità si identificherebbe nella non economicità del servizio che, come dice il parere, dovrebbe essere gestito “necessariamente in perdita” per il prestatore, ammettendosi unicamente il rimborso delle spese vive e correnti.

Nel caso di specie, tale gratuità non sussisteva in quanto l’affidatario avrebbe percepito i ricavi del servizio di ristorazione e gli introiti degli ingressi a pagamento, in quanto solo quelli per le persone con disabilità e i loro accompagnatori erano a titolo gratuito.

Si tratta di una motivazione decisamente spiazzante, non solo perché insiste nelle criticità del parere del 2018 e, in particolare, nel non considerare il riconoscimento da parte delle stesse direttive UE della peculiarità dei servizi sociali oltre che la differenza tra affidamenti sopra e sotto soglia e nell’adottare una definizione di gratuità in contrasto con la giurisprudenza della CGUE, per cui la corresponsione del mero rimborso delle spese non è sufficiente a escludere un contratto dalla disciplina degli appalti pubblici (sentenza 11 dicembre 2017, C-113/13, c.d. Spezzino).

Inoltre, se pure è vero che la procedura in questione risaliva al 2019, il Consiglio di Stato non considera affatto l’evoluzione successiva al parere del 2018. Ad esempio, le richiamate Linee guida ministeriali hanno posto l’accento non sulla nozione di gratuità, ma su quella della compartecipazione alle spese da parte dell’ETS.

Del resto, in concreto, come si può mai pensare che un soggetto, per quanto privo di scopo di lucro come un ETS, accetti di non solo gestire, ma anche progettare, un servizio addirittura “in perdita”?
Questo aspetto, come si è già sottolineato, risulta poco chiaro anche nelle stesse Linee guida, ma ancor di più lo è nell’impostazione del Consiglio di Stato.

È invece indispensabile iniziare a ragionare anche in termini di tutelare gli enti partecipanti nell’ambito di queste procedure o queste non risulteranno mai attrattive ed efficaci.

In tal senso, tenere a mente che per la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE la circostanza che sia previsto quale corrispettivo il mero rimborso delle spese non è dirimente, dovrebbe aiutare a impostare il dibattito su cosa davvero qualifica questi istituti (a partire dalla finalità civiche, solidaristiche o di utilità sociale degli enti e dall’interesse generale dell’attività).

Ciò nella speranza che, una volta superata definitivamente la questione circa la legittimità dell’utilizzo della co-progettazione, si possa ragionare finalmente della sua concreta disciplina, anche dal punto di vista degli enti che vi prendano parte.

Cons. Stato, Sez. V, 7/09/2021, n. 6232


accesso civico appalti

Accesso civico generalizzato negli appalti pubblici quando mancano i presupposti per l’accesso documentale

accesso civico appaltiI rapporti tra accesso documentale (l.n. 241/1990) e accesso c.d. civico generalizzato (d.lgs. n. 33/2013) hanno posto negli anni molte questioni, soprattutto nell’ambito degli appalti pubblici.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha chiarito che l’istanza di accesso documentale ben può concorrere con quella di accesso civico generalizzato e che dunque la pretesa ostensiva può essere formulata dal privato anche contestualmente con riferimento a entrambe le forme di accesso (Cons. Stato, Ad. Plen, 2 aprile 2020, n. 9). L’interesse del privato a procedere in tal senso è, evidentemente, dovuta al fatto che, se per un verso l’accesso ai sensi della l.n. 241/1990 è maggiormente penetrante e consente di superare alcuni limiti, ad esempio nel caso di accesso difensivo, ai sensi dell’art. 24, co. 7, d’altro canto per l’accesso civico generalizzato non sussiste il limite del “controllo generalizzato sull’attività delle pubbliche amministrazioni” e non è necessario dimostrare un interesse diretto, concreto e attuale collegato ai documenti, essendo l’interesse individuale alla conoscenza protetto in sé.

Del rapporto tra le due discipline (accesso documentale e accesso civico generalizzato) si è occupata una recente sentenza del TAR Lombardia, che si è confrontata con un caso in cui l’istanza di accesso non si richiamava espressamente a nessuna delle due.

Nel caso di specie, per un verso il TAR non ha ritenuto sussistenti i presupposti per l’accesso documentale, in quanto il richiedente sarebbe stato sì titolare di una situazione giuridicamente tutelata, ma la documentazione richiesta non è stata considerata collegata a tale posizione sostanziale e, dunque, non sarebbe stato rilevabile un interesse diretto, concreto e attuale tale da sostenere la richiesta di accesso. Con riferimento all’accesso difensivo, inoltre, il TAR ha ricordato che non può considerarsi sufficiente nell’istanza di accesso un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive, ma deve esservi un nesso di strumentalità tra la documentazione richiesta e la situazione finale che si intende curare o tutelare.

Assunta l’assenza di collegamento tra la documentazione oggetto di ostensione e la posizione giuridica della ricorrente, e dunque la carenza dei presupposti per l’accesso documentale, il TAR ha ritenuto al contempo non invocabile la disciplina sull’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33/2013.

Il TAR ha ritenuto, infatti, che la qualificazione con cui un soggetto pretende l’ostensione in relazione ad una disciplina non può essere scrutinata alla luce di una disciplina diversa, dovendo il sistema complessivo essere coordinato ed integrato e non potendo l’accesso civico costituire “una sorta di lascia passare” attribuito al soggetto che, in base alla generale disciplina dell’accesso documentale, non sia titolare di una posizione giuridica tutelabile. Sul punto, il TAR Lombardia ha richiamato la sentenza dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 2 aprile 2020, n. 10.

In realtà, la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 10/2020 prevede che l’amministrazione ha il potere-dovere di esaminare l’istanza di accesso agli atti e ai documenti pubblici, formulata in modo generico o cumulativo dal richiedente senza riferimento ad una specifica disciplina, anche alla stregua della disciplina dell’accesso civico generalizzato, escludendo solo il caso in cui “l’interessato non abbia inteso fare esclusivo, inequivocabile, riferimento alla disciplina dell’accesso documentale, nel qual caso essa dovrà esaminare l’istanza solo con specifico riferimento ai profili della l. n. 241 del 1990”, non potendo in tal caso il giudice mutare il titolo dell’accesso. Anche se non è esplicitato, evidentemente il TAR Lombardia ha ritenuto ci si trovasse in tale ultima ipotesi, forse in ragione della motivazione dell’istanza circa la sussistenza di esigenze difensive. In ogni caso, restano da monitorare in proposito gli orientamenti successivi della giurisprudenza ed eventuali pronunce di secondo grado.

TAR Lombardia, Milano, Sez. I, 17/08/2021, n. 1939


co-progettazione

Co-progettazione, servizi sociali e giudice amministrativo: ancora non si parla la stessa lingua

co-progettazione Nell’ultimo anno, la percezione collettiva degli istituti collaborativi tra enti del Terzo settore e pubbliche amministrazioni – prima fra tutti la co-progettazione – è cambiata radicalmente, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 131/2020 che, in un lungo inciso, valorizza lo spirito collaborativo che caratterizza tali istituti, all’inserimento da parte della legge di conversione del decreto Semplificazioni (l. 11/09/2020, n. 120) di alcuni riferimenti al Titolo VII del Codice del Terzo settore nel corpo del Codice dei contratti pubblici, fino alle nuove Linee guida adottate di recente dal Ministro del lavoro e delle politiche sociali.

Ciononostante, anche dopo l’adozione delle attesissime Linee guida, diversi aspetti della co-progettazione necessitano ancora di essere chiariti, il che in parte potrà avvenire solo tramite la prassi delle amministrazioni che applicheranno le Linee guida stesse e, magari, come spesso avviene, anche grazie all’opera interpretativa della giurisprudenza.

Finora, però, le sentenze del giudice amministrativo sulla co-progettazione sono state poco frequenti e, dunque, non stupisce che anche i tribunali amministrativi regionali debbano ancora prendere familiarità con questo istituto e, soprattutto, con i recenti sviluppi nel suo inquadramento.

In un recente caso sottoposto al TAR di Parma, veniva contestata la scelta di un’amministrazione di mettere a bando un servizio sociale con una gara d’appalto ai sensi del Codice dei contratti pubblici, anziché utilizzare gli istituti di cui all’art. 55 del Codice del Terzo settore, che si sosteneva costituissero gli unici strumenti possibili per esternalizzare la gestione di servizi sociali.

Si tratta evidentemente di una censura infondata, in quanto non vi è dubbio che il quadro normativo attuale preveda due sistemi paralleli (quello del Codice dei contratti pubblici e quello del Codice del Terzo settore), da utilizzare al ricorrere dei rispettivi presupposti e in base a una scelta discrezionale dell’amministrazione nel caso concreto.

Quello che stupisce è, tuttavia, la motivazione che impiega il TAR di Parma per motivare il rigetto della censura, che, anziché appunto richiamarsi alla discrezionalità della scelta, rinvia al controverso parere n. 2052/2018 del Consiglio di Stato e cita proprio il passaggio – estremamente criticato – in cui si affermava che “di regola” l’affidamento dei servizi sociali deve in ogni caso rispettare la normativa pro-concorrenziale di origine europea, rappresentando sempre e comunque un “appalto”.

Ferma restando la correttezza della conclusione del TAR – per cui oggi certamente non è obbligatorio l’utilizzo degli istituti collaborativi per la gestione dei servizi sociali – il rinvio al parere del 2018, senza alcuna considerazione degli sviluppi successivi (sentenza della Corte costituzionale, modifiche normative, linee guida ministeriali e anche un altro parere dello stesso Consiglio di Stato di segno parzialmente diverso), a prescindere dall’applicabilità alla vicenda oggetto del giudizio, è forse un indice della necessità di maggiore consolidamento di quella che è stata salutata come una nuova fase della vita di questi istituti.

TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. I, 23/06/2021, n. 173


contraccettivi emergenza aifa

Contraccettivi di emergenza e obbligo di prescrizione medica, tra discrezionalità tecnica e principio di precauzione

contraccettivi emergenza aifaI farmaci contraccettivi femminili di emergenza, sebbene ormai diffusi da tempo, sono ancora contrastati da associazioni antiabortiste. Alcune di queste hanno recentemente impugnato il provvedimento dell’AIFA con cui si dispone l’eliminazione dell’obbligo di prescrizione medica per la commercializzazione presso le farmacie italiane di un farmaco contraccettivo femminile di emergenza (c.d. “pillola dei 5 giorni dopo”) anche in favore di ragazze minorenni.

Il TAR Lazio ha nettamente respinto tutte le censure, ribadendo alcuni punti fermi relativi al sindacato sull’esercizio della discrezionalità tecnica e alla corretta applicazione del principio di precauzione.

In primo luogo, la sentenza ha confermato la competenza dall’AIFA in materia, spettando per legge all’Agenzia la classificazione dei medicinali soggetti a prescrizione medica e di quelli non soggetti a prescrizione, con un potere di va riconosciuta natura costitutiva (art. 87, d.lgs. n. 219/2006). La “farmacopea ufficiale”, pubblicata dal Ministero della salute, costituisce invece un’elencazione dotata di portata meramente ricognitiva.

Inoltre, il TAR ha ritenuto prive di fondamento le censure relativa a una possibile funzione antinidatoria (di impedimento dell’impianto nell’utero dell’ovulo già fecondato) del prodotto, che avrebbe dunque effetti non contraccettivi, ma “abortivi”. Invece, sulla base di quanto autorizzato, il farmaco in questione avrebbe una funzione meramente antiovulatoria, impedendo in altre parole la fecondazione.

Sul punto la sentenza sottolinea che l’attività amministrativa esercitata è squisitamente connotata da discrezionalità tecnica, sindacabile solo nelle ipotesi di manifesta illogicità o di palese erroneità, mentre non sono ammessi meri giudizi di “non condivisione”, rispetto alle conclusioni fornite dagli organi tecnico-amministrativi.

Quello del giudice amministrativo in merito, ricorda il TAR, è un controllo “intrinseco ma debole”, in cui il giudice non può sostituirsi alla pubblica amministrazione, ma deve limitarsi a verificare se le sue scelte rientrino o meno entro la ristretta gamma di scelte possibili sulla base delle coordinate tecniche e scientifiche da applicare al singolo caso.

Nel caso di specie, AIFA ha sostanzialmente fatto propria una relazione di parte ricca di fonti scientifiche dirette ad escludere tanto problematiche di salute quale che sia l’età di chi assume la sostanza in questione, quanto una ulteriore portata antinidatoria in capo al prodotto.

In merito alle censure relative ad asseriti effetti negativi del farmaco, quali possibili gravidanze extrauterine, effetti tossici sul fegato, capogiri, sonnolenza e perdita di concentrazione, il TAR ha ritenuto che quelle delle ricorrenti sul punto fossero opinioni e asserzioni generiche e ipotetiche e dunque inammissibili.

Infine, con riferimento al principio di precauzione, la sentenza ricorda che il principio comunitario di precauzione implica che, nel caso in cui sussistano incertezze quanto all’esistenza o alla portata dei rischi per la salute delle persone, le istituzioni possono prendere provvedimenti di tutela senza dover attendere che la realtà e la gravità di tali rischi siano pienamente dimostrate, ma che tale potere non può essere esercitato sulla base di supposizioni, cioè di valutazioni meramente ipotetiche, e richiede comunque, in carenza di letteratura, la ricorrenza di un principio di probabilità del rischio per la salute.

Anche sotto tale profilo, le ricorrenti si sono limitate a riportare giudizi di natura meramente ipotetica e senza ancorare le proprie conclusioni ad effettive valutazioni di effettiva probabilità del rischio connesso.

TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 4/06/2021, n. 6657


accesso atti non invitato appalti

Accesso agli atti di gara di soggetto non invitato alla procedura

accesso atti non invitato appalti L’accesso agli atti negli appalti pubblici continua a porre questioni controverse e discusse, che spesso finiscono dinanzi al giudice amministrativo. Fra queste, vi è senz’altro quella relativa al diritto di un soggetto, che non abbia partecipato a una procedura, di accedere alla documentazione inerente alle operazioni di gara.
In tale contesto, un caso particolare è quello dell’istanza di accesso proposta dall’operatore non invitato a partecipare ad una procedura negoziata cui invece aspirava a partecipare.

Il TAR Lazio, di recente, ha ritenuto che in capo a un operatore inizialmente selezionato nella rosa dei potenziali partecipanti, ma poi non invitato in ragione dell’asserita carenza di un requisito di partecipazione verificato d’ufficio, vi fosse un interesse diretto, concreto e attuale atto a giustificare la richiesta di accesso agli atti di gara.

Il TAR, infatti, ha ricordato l’orientamento prevalente della giurisprudenza per cui il rapporto tra la normativa generale in tema di accesso e quella particolare dettata in materia di contratti pubblici non deve essere posto in termini di accentuata differenziazione, ma piuttosto di complementarietà. Sostanzialmente, le disposizioni di carattere generale e speciale che disciplinano l’accesso agli atti nella l. n. 241/1990 devono trovare applicazione ogni volta in cui non si rinvengano disposizioni derogatorie speciali (in questo caso per materia) nel Codice dei contratti pubblici.

Nel caso dell’impresa non partecipante alla gara con riferimento alla quale è presentata l’istanza di accesso, infatti, visionare la documentazione potrebbe essere funzionale alla proposizione di un’impugnazione avverso gli atti della procedura, a tutela della posizione di operatore del settore interessato, in via generale, all’acquisizione di nuove commesse pubbliche. L’ordinanza in esame equipara tale posizione a quella dell’impresa del settore coinvolto dalla procedura che intende impugnare previsioni del bando per lei escludenti.

Nel caso dell’impresa non invitata alla procedura selettiva per l’affidamento di un servizio nel settore in cui essa opera, sarebbe quindi possibile individuare un interesse personale e concreto, alla conoscenza degli atti amministrativi che possano aver determinato, in ragione del mancato invito alla procedura, un pregiudizio all’impresa stessa.

È comunque il caso di sottolineare che, nella vicenda oggetto dell’ordinanza del TAR Lazio, l’impresa istante risultava comunque in origine essere stata selezionata nella rosa dei potenziali partecipanti, per poi non essere invitata in ragione della carenza di un requisito.

TAR Lazio Roma, Sez. I, ord. 1/06/2021, n. 6498